sabato 5 marzo 2016

Una Libia senza rete e il copione scritto da altri






4 Marzo 2016

L’inverno del nostro scontento, della nostra frustrazione di media-piccola potenza, non finisce in Egitto con il caso di Giulio Regeni ma continua drammaticamente in Libia. Alle 18 e 34 di mercoledì 2 marzo, poche ore prima che i due tecnici della Bonatti venissero trucidati a Sabrata, un italiano di Misurata ci scriveva questo messaggio. «Da qui - raccontava il nostro “cane sciolto” - non vedo per niente bene la situazione. Banche ferme, economia in crollo verticale, mercato nero alle stelle e il rischio di rimanere intrappolati in un contesto in cui il sentimento antieuropeo - di pochi ma pesantemente armati e non soggetti ad alcuna legge - potrebbe cambiare il mio status di occidentale. I rischi crescono. Qui a Misurata sono stato trattato come un fratello ma gli stessi amici locali, sebbene dispiaciuti, mi stanno spingendo ad andarmene il prima possibile».
Questa è la Libia senza filtri. Qualunque missione militare in Libia è un rischio, fuori e dentro i confini del Paese, e soprattutto non aspettiamoci di essere accolti come “liberatori”: ci sarà sempre qualcuno che vedrà la presenza italiana e occidentale come un atto ostile.
Ma all’Occidente piace comunque avere una “narrativa” che è quella che ci siamo già bevuti in Afghanistan, con la lotta al terrorismo di George Bush jr. dopo l’11 settembre 2001. Oppure in Iraq, nel 2003, quando per abbattere Saddam un’intera nazione è stata abbandonata a una violenza senza fine. Così come ci siamo inebriati con le “primavere arabe” che, salvo l’eroica Tunisia, sono sprofondate nel caos o nella dittatura.
L’Italia ha seguito un copione tragico scritto da altri sperando di limitare i danni. E adesso vogliono persino la nostra partecipazione alla guerra del Siraq per la corsa alla liberazione di Raqqa e Mosul dove manderemo un contingente a difendere una diga: non risulta però che ci siano altri militari occidentali da quelle parti.
Imotivi di questa politica estera così “ragionevole” ce le hanno spiegate fino alla nausea: prima abbiamo perso la guerra, poi dopo la caduta del Muro nell'89 siamo rimasti da soli seduti al tavolo degli sconfitti e gli Stati Uniti, con l'ombrello Nato, sono i nostri migliori amici perché ci risparmiano qualche bastonata degli altri alleati europei. Chi ha osato alzare la testa come Craxi e Andreotti ci ha rimesso le penne, per non parlare di Mattei, come bene ci spiegò un ex presidente dell'Eni. Abbiamo dovuto regolarmente ingoiare il rospo, al punto di andare contro i nostri stessi interessi. Nei Balcani i nostri aerei hanno bombardato i serbi di Milosevic in Kosovo nel ‘99 ma anche la fabbrica della Zastava che la Fiat aveva costruito negli anni'60. Come migliore alleato degli Stati Uniti li abbiamo seguiti in Afghanistan e poi in Iraq con il sacrificio dei nostri soldati: ci illudevamo di essere ricompensati dai “dividendi della pace”. E dove sono? Nella disintegrazione del Medio Oriente e del Mediterraneo? Non solo, in un passato recente siamo sempre stati in prima linea a difendere le sanzioni a Mosca e Teheran: e con quali vantaggi quando gli altri facevano affari miliardari sotto il nostro naso? La Libia per noi è una perdita secca, la maggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Gli alleati ci hanno fatto le scarpe non solo nel momento in cui la Francia, appoggiata da Usa e Gran Bretagna, ha attaccato Gheddafi nel 2011 ma anche dopo, quando la presenza italiana è stata sistematicamente boicottata: per informazioni rivolgersi all'ambasciatore Giuseppe Buccino, l'ultimo diplomatico a lasciare Tripoli. In Libia l'Italia è stata costretta a bombardare un autocrate con cui aveva firmato 7 mesi prima accordi economici e di sicurezza stringenti: è puerile pensare che gli altri non si siano accorti della nostra debolezza. Ecco perché forse non sapremo la verità su Regeni. Adesso se vogliamo salvare gli altri due italiani in mano ai jihadisti e non piegarci agli interessi altrui dobbiamo stabilire che cosa vogliamo, altrimenti stiamo a casa oppure interveniamo soltanto con operazioni limitate. Ma forse ci illudiamo che gli egiziani, il generale libico Khalifa Haftar e soprattutto la Francia, il “guardiano del Sahel”, chiederanno il nostro parere su cosa fare in Cirenaica e nel Fezzan? Vogliamo avere una buona politica estera, commisurata ai nostri interessi? Cominciamo dicendoci le cose come stanno, senza aspettare che ce le racconti il nostro “cane sciolto” da Misurata

giovedì 3 marzo 2016

Al Sisi complotta con Israele per mettere Dahlan al posto di Abbas?







di Alan Hart

Non è un gran segreto che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, un megalomane  come Trump e un tiranno con pochi eguali, è felice di fare il lavoro sporco per Israele. E può ora essere quello che sta cercando di preparare il terreno per Mohammed Dahlan, quasi certamente una risorsa dei servizi segreti americani e israeliani (non un agente a tempo pieno), per succedere a Mahmoud Abbas come presidente dell'Autorità palestinese (AP).
Dopo la firma degli accordi di Oslo a Washington D.C. nel 1993, Dahlan fu scelto dagli americani per dirigere la Preventive Security Force (palestinese) (PSF) a Gaza. Armata, finanziata e addestrata dagli americani è diventata una forza di Fatah di 20.000 uomini che fece diventare Dahlan uno dei più potenti capi palestinesi. Le sue forze sono state regolarmente accusate di aver torturato i detenuti di Hamas nel corso del 1990 e durante questo periodo la Striscia di Gaza è stata soprannominata "Dahlanistan" a causa del potere dell'uomo. Come capo del PSF, Dahlan aveva rapporti regolari con la CIA e i funzionari dell'intelligence israeliana.
Lo stesso presidente George "Dubya" Bush ebbe almeno tre incontri con Dahlan e dopo il primo elogiò pubblicamente Dahlan come "un buon dirigente, solido". In privato il presidente descriveva ulteriormente Dahlan come "il nostro uomo".. Il tempo stava arrivando in cui egli avrebbe dimostrato quello che era.
Nel 2007 Dahlan disse "sì" ad una richiesta americana per preparare le sue forze per un attacco a tutto campo su Hamas per distruggerlo con la forza. Per quanto riguarda i politici americani (e molti europei), Hamas doveva essere distrutto a causa della sua vittoria alle elezioni del 2006 per la seconda Assemblea legislativa palestinese. Hamas guadagnò 74 seggi su 132, 29 in più di Fatah che era al governo, e il suo capo, Ismail Haniya, procedette a formare un governo. Per nessuna ragione, naturalmente, l'amministrazione Bush poteva permettergli di sopravvivere.
Sfortunatamente per Dahlan e per i suoi maestri americani, Hamas fiutò l’aria del piano per eliminarlo e lanciò un attacco preventivo, come quelli che fa Israele, che spinse le forze del PSF e il loro capo fuori dalla Striscia di Gaza.
Dopo questi avvenimenti, un'analisi stimolante e onesta fu consegnata da David Wurmser, che aveva servito come principale consigliere in Medio Oriente del vice presidente Dick Cheney.
Disse di aver creduto che Hamas non avesse avuto alcuna intenzione di assumere il controllo della Striscia di Gaza fino a quando Fatah non gli forzò la mano. "Mi sembra", dichiarò, "che ciò che è accaduto non sia stato un colpo di stato da parte di Hamas ma un tentativo di colpo di stato da parte di Fatah che fu preceduto prima che potesse accadere".
Proseguì: "L'amministrazione Bush si è impegnata in una sporca guerra nel tentativo di mettere a disposizione una dittatura corrotta (l'Autorità palestinese guidata dal Presidente Mahmoud Abbas), con la vittoria."
Wurmser disse anche di essere stato soprattutto irritato dall'ipocrisia dell'amministrazione Bush.
"C’è uno sbalorditivo scostamento tra l’appello del presidente per la democrazia in Medio Oriente e questa politica. Una contraddizione palese."
L’umiliante sconfitta di Dahlan nella striscia di Gaza non sminuì il sostegno dell'amministrazione Bush nei suoi confronti. Nel mese di ottobre 2007 Bush sottopose Abbas a forti pressioni nel tentativo di convincerlo a nominare Dahlan come suo vice. I funzionari di Fatah hanno detto che Stati Uniti e alcuni paesi dell'UE avrebbero voluto vedere Dahlan al posto di Abbas come capo della A.P.
Abbas era solo uno dei moltissimi palestinesi che hanno creduto, come me, che sia stato Dahlan che, per conto del Mossad, l'agenzia investigativa nazionale di Israele, abbia messo il veleno (polonium-210 o altro) che uccise Yasser Arafat.
Guidato da questa convinzione e dalla paura che avrebbe potuto benissimo essere la prossima vittima di Dahlan, Abbas diede l’ordine di espellerlo da Fatah. Era il giugno 2011. Tre mesi dopo la casa di Dahlan fu perquisita dalla polizia palestinese e le sue guardie del corpo furono arrestate.
Successivamente Dahlan è stato bandito da ciò che resta della Palestina e si è stabilito a Dubai. (Lui e sua moglie Jaleela e i loro quattro figli hanno la cittadinanza serba e Dahlan stesso ha anche la cittadinanza del Montenegro).
Oggi, avvantaggiato dal fatto che la maggioranza dei palestinesi occupati e oppressi è malata e stanca dell'impotenza e della corruzione dell'A.P., Dahlan sta cercando di ritornare. E il suo principale promotore è il presidente egiziano Al Sisi.
Lo scorso novembre in una riunione al Cairo si è presentato ad Abbas con un "piano d’azione" per ripulire la scena politica palestinese. la principale domanda di Sisi - il suo prezzo per un rapporto continuativo con l'A.P. - era la riconciliazione tra Abbas e Dahlan.
Tutte le indicazioni sono che Sisi vuole che Dahlan sia il successore di Abbas.
Due domande collegate mi sembra che debbano essere fatte.
La prima è - Perché, in realtà, Sisi vuole che Dahlan sia il prossimo presidente della A.P.?
La risposta in breve è - Perché questo è ciò che i capi israeliani vogliono.
La seconda domanda è - Perché, in realtà, i capi israeliani vogliono che Dahlan sia il successore  di Abbas?
La risposta in poche parole è che sperano, e forse anche credono, che egli sarebbe disposto a usare la forza per costringere i palestinesi ad accettare le briciole cadute dal tavolo del sionismo - isolati bantustan sul 30-40 per cento della Cisgiordania, che si potrebbero chiamare uno stato.
La mia ipotesi è che, anche se un complotto arabo diretto da  Sisi con la corruzione desse luogo alla sostituzione di Abbas con Dahlan  come presidente della A.P., egli sarebbe quasi certamente assassinato se cercasse di imporre ai palestinesi le condizioni di resa al sionismo.

(Traduzione di Diego Siragusa)


BASTA GUERRE!




di Vincenzo Brandi


Roma 28.02.2016 


L’Italia, dopo aver occupato, depredato e massacrato la Libia con l’invasione colonialista del 1911; dopo averla nuovamente bombardata , distrutta e ridotta al miserevole stato attuale nel 2011 nell’ambito dell’operazione imperialista e neo-colonialista programmata da USA, Francia, NATO e Qatar, oggi è già di fatto entrata per la terza volta , ancora sotto comando USA, e sotto l’egida della NATO, in una nuova guerra contro il paese nordafricano.
Già partono infatti dalla base siciliana di Sigonella i droni statunitensi che colpiscono la Libia, in attesa che truppe di terra, anche italiane, raggiungano i reparti francesi ed inglesi che già operano sul terreno.
La precedente aggressione della sedicente "comunità internazionale" aveva ridotto una nazione prospera e pacifica in un ammasso di rovine, lacerato da cento fazioni, percorso da bande di predoni, tutti impegnati a depredare i Libici delle loro risorse petrolifere e idriche. Oggi, dopo aver utilizzato, come pretesto per le loro aggressioni, la scusa di voler liberare i popoli da presunti “dittatori” (in realtà dirigenti antimperialisti ed antisionisti come Gheddafi ed Assad), ora i paesi della NATO fingono di voler combattere il jihadismo terrorista dello Stato Islamico o di Al Queda, da loro stessi creato e diffuso dall’Africa al Medio Oriente, dall’Asia all’Europa, in una spaventosa escalation di crimini di guerra e contro l’umanità.
Il parossismo bellico degli USA e della NATO, e dei loro alleati, come Turchia, Qatar e Arabia Saudita, con la regia occulta di Israele, tende alla frantumazione degli ultimi Stati della regione che non accettano la dittatura neo-colonialista, come anche l’Iraq e la Siria, dove è stata raggiunta, nel momento in cui scriviamo, una fragile tregua parziale solo grazie alle vittorie riportate dall’esercito nazionale siriano con l’aiuto determinante della Russia. Dopo aver finto per anni di combattere lo Stato Islamico ed altri gruppi terroristi, rifornendoli segretamente di armi attraverso la Turchia, gli Usa e alleati chiedono ora un cessate il fuoco in Siria per «ragioni umanitarie». Ciò perché le forze governative siriane, sostenute dalla Russia, stanno liberando crescenti parti del territorio occupate dalle formazioni jihadiste, che arretrano anche in Iraq.
Il doppiogiochismo di USA e NATO è dimostrata anche dalla decisione della stessa NATO di dispiegare nel mar Egeo, con la motivazione ufficiale di controllare il flusso di profughi (frutto delle stesse guerre USA/NATO), le navi da guerra del Secondo Gruppo Navale permanente , che ha appena concluso una serie di operazioni con la marina turca.
Contemporaneamente la Nato, sotto comando degli Usa, ha riaperto il fronte orientale, accusando la Russia di «destabilizzare l’ordine della sicurezza europea», e trascinandoci in una nuova guerra fredda, per certi versi più pericolosa della precedente, voluta soprattutto da Washington per spezzare i rapporti Russia-UE dannosi per gli interessi statunitensi.
Mentre gli Usa quadruplicano i finanziamenti per accrescere le loro forze militari in Europa, viene deciso di rafforzare la presenza militare «avanzata» della Nato nell’Europa orientale. La Nato, dopo aver inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Jugoslavia e tre della ex Urss, prosegue la sua espansione a Est, preparando l’ingresso di Georgia e               
Ucraina, spostando basi e forze, anche nucleari, sempre più a ridosso della Russia.
Questa strategia rappresenta anche una crescente minaccia per la democrazia in Europa. L’Ucraina, dove le formazioni  neonaziste sono state usate dalla Nato nel putsch di piazza Maidan, è divenuta il centro di reclutamento di neonazisti da tutta Europa, i quali, una volta addestrati da istruttori Usa, vengono fatti rientrare nei loro paesi con il «lasciapassare» del passaporto ucraino. Si creano in tal modo le basi di una organizzazione paramilitare segreta tipo la vecchia «Gladio».
È il tentativo estremo degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali di mantenere la supremazia economica, politica e militare, in un mondo nel quale l’1% più ricco della popolazione possiede oltre la metà della ricchezza globale, ma nel quale emergono nuovi soggetti sociali e statuali che premono per un nuovo ordine economico mondiale. 
Il governo italiano ci rende corresponsabili di questo immenso oceano di sangue. Le guerre d’aggressione sono il massimo crimine contro l’umanità e la nostra Costituzione (Articolo 11) le rifiuta. Dopo la guerra in Jugoslavia nel 1994-95 e nel1999, in Afghanistan a partire dal 2001, in Iraq dal 2003, in Libia ed in Siria dal 2011, accompagnate dalla formazione dello Stato Islamico ed altri gruppi terroristi funzionali alla stessa strategia, ora è già iniziata una nuova aggressione in Libia. L’Italia, imprigionata nella rete di basi Usa e di basi Nato sempre sotto comando Usa, è stata trasformata in ponte di lancio delle guerre USA/NATO sui fronti meridionale ed orientale. Per di più, violando il Trattato di Non-Proliferazione, l’Italia viene usata come base avanzata delle forze nucleari statunitensi in Europa, che stanno per essere potenziate con lo schieramento delle bombe B61-12 per il first strike nucleare.
Mentre si prospetta l’apocalisse di una nuova conflagrazione mondiale, un apparato mediatico bugiardo, legato alle centrali del bellicismo imperialista e alle sue industrie delle armi, sostiene una serie ininterrotta di aggressioni nel segno di un nuovo e più letale colonialismo che distrugge Stati, stermina popoli, provoca l’immensa tragedia dei rifugiati, volge in distruzione e morte quanto viene sottratto a ospedali, scuole, welfare.
Per uscire da questa spirale di guerra dagli esiti catastrofici, è fondamentale costruire un vasto e forte movimento contro la guerra imperialista di aggressione, per l’uscita dell’Italia dalla NATO, per un’Italia libera dalla presenza delle basi militari statunitensi e di ogni altra base straniera, per un’Italia sovrana e neutrale, per una politica estera basata sull’Articolo 11 della Costituzione, per una nuova Europa indipendente che contribuisca a relazioni internazionali improntate alla pace, al rispetto reciproco, alla giustizia economica e sociale.