mercoledì 23 marzo 2016

TERRORISMO: I BUGIARDI, GLI IPOCRITI E GLI SCIACALLI



di Piotr  

23/3/2016


Vi ricordate Beppe Braida e le sue notizie a Zelig sui contrattempi di Berlusconi, che esposti in un crescendo di esagerazioni dai vari TG finivano col TG5 che decretava immancabilmente: "Attentato! Trattasi di attentato!"?
Il mainstream sta facendo un percorso inverso e partendo da veri, orrendi attentati dove persone reali, come me e come voi, hanno perso tragicamente la vita, in un retro-crescendo di panzane finisce per sminuire, volutamente, l’origine e il significato degli attentati di Bruxelles.

Attentati di questo tipo sono la quintessenza del caos sistemico che stiamo vivendo da decenni e sta avvicinandosi al suo showdown. In essi si intrecciano motivazioni diverse, soggetti diversi, obiettivi diversi. Ma motivazioni, obiettivi e soggetti non hanno tutti la stessa forza.
Lascia esterrefatti che l’Italia delle stragi non arrivi a questa elementare considerazione. Prendiamo la bomba di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969.
Il mainstream di allora, senza ritegno, senza nemmeno un debole accenno di dignità e indipendenza, partì in quarta immediatamente dopo la strage indicando negli anarchici i colpevoli. Ovviamente non si inventò da solo la falsa pista, ma era il megafono di qualcun altro.
Grazie alle controinchieste della sinistra militante (quella che allora si chiamava “sinistra di classe”), in particolar modo il Movimento Studentesco milanese e gli avvocati, i magistrati e i giornalisti democratici che il Movimento “egemonizzava” in senso gramsciano, il castello ufficiale di accuse crollò miseramente ed emersero le responsabilità di alcuni ambienti fascisti e dei cosiddetti “servizi deviati”, quelli che anni dopo si scoprì essere “embedded” alla Gladio, cioè la Spectre internazionale organizzata dalla Nato e dalla CIA.
Non è complottismo, sono atti giudiziari depositati e migliaia di pagine di documentate inchieste parlamentari.
Ora, anche negli anni Settanta c’erano studi seri che cercavano di capire perché esistessero antropologicamente e socialmente, prima ancora che politicamente, i neofascisti. Con ciò si poteva sostenere che le due stragi di Milano (piazza Fontana e Questura), di Brescia, o dell’Italicum (quella di Bologna è ancora poco chiara) fossero spiegabili con le turbe sociali e ideali dei neofascisti? No. Respingere questa spiegazione vuol dire negare che quelle turbe non ci fossero? No. Vuol dire fare un passo più su e cercare di capire la strategia dei “servizi deviati” e dei loro manovratori. Manovratori che non erano fascisti. Stando all’ex presidente Francesco Cossiga che in un periodo fu il sovrintendente di Gladio, in quell’organizzazione segreta i fascisti non erano ammessi, e i suoi padri fondatori in Italia erano ex partigiani, azionisti, socialisti e lamalfiani (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 8 luglio 2008).

Nessuno più nega che Arabia Saudita, Qatar e Turchia siano i principali sponsor e finanziatori dell’Isis. Il presidente Obama ha fatto dimettere il generale John Allen perché invece di combattere l’Isis lo aiutava. Il generale Petraeus, ex direttore della Cia, anch’egli rimosso da Obama, ha dichiarato spudoratamente al Senato che al-Qaida è un alleato naturale degli Usa. Dalla crisi in Afghanistan dell’epoca Brzezinski in poi gli Stati Uniti hanno rispolverato dalla soffitta della Storia il fondamentalismo islamico come problema internazionale. La Casa Saud, oltre che finanziatrice anche ispiratrice ideologica del peggior fondamentalismo islamico, vanta da sempre non solo un’alleanza strategica con Washington ma anche un’amicizia intima con pezzi grossi dell’establishment statunitense, a partire dalla famiglia Bush.
Sono dati di fatto. Di fronte ad essi è una questione di logica elementare fare il secondo passo in più e cercare di capire gli obiettivi dei padrini, ben più importanti delle motivazioni soggettive dei picciotti, importanti per altri versi, per altri ragionamenti (ad esempio quelli sull’integrazione) e in altri contesti, ma che non riescono a spiegare perché un candidato alle rivolte giovanili delle banlieue si ritrovi in Siria, Iraq e Libia con tra le mani un missile anticarro di ultima generazione, un carro armato, un visore notturno da combattimento o si ritrovi in Europa dotato di esplosivo ad alto potenziale, controllatissimo dai Servizi ma guarda caso, come al solito, non nel momento fatale.
Persino Lucia Annunziata sull’Huffington Post è costretta a scrivere apertis verbis: “Qualcuno paga l’Isis in Iraq e Siria così come qualcuno paga la sua rete terroristica in Europa”. Ma evita di dire chi.
Questo passaggio logico-metodologico è obbligatorio e a noi Italiani dovrebbe venire naturale, data la storia di stragi e di misteri che abbiamo sulle spalle. Ma i tempi dei movimenti della “sinistra di classe” sono finiti e assieme si è dissolto quell’ambiente democratico e indipendente di giornalismo e di inchiesta. Si va a spron battuto verso il cervello embedded. Erdoğan che distrugge la stampa non allineata e contemporaneamente le città curde, i Saud che hanno decretato che qualsiasi critica alla famiglia è considerata atto di terrorismo mentre sponsorizzano le maggiori organizzazioni terroristiche di sempre, non fanno altro che battere la traccia.
La civiltà occidentale sta perdendo, non perché vinta da nemici esterni, ma perché le sue élite le hanno stretto attorno una cintura esplosiva e la spingono al suicidio. Ciò che rimarrà della civiltà dell’Occidente forse sopravviverà in Oriente, in Russia, in India, in Cina. Un affascinante paradosso per i futuri storici e i futuri archeologi.

Purtroppo appena facciamo il famoso passo per vederci più chiaro ci imbattiamo nel caos sistemico che caratterizza anche i centri decisionali più importanti del pianeta. Per ora possiamo quindi farci solo due domande sensate.

a) Come mai mentre l’Europa sta discutendo se e come intervenire in Libia "contro l'Isis", il suo centro nevralgico viene provocato con un sanguinoso attentato? Per impaurirci? Per dirci di non provarci? O, al contrario, cosa che io ritengo più plausibile, per spingerci a lasciar perdere la prudenza e intervenire?
Cui prodest? chiederanno in molti. Domanda obbligata, ma ad oggi troppe risposte sono possibili.

b) Come mai i fratelli Bakraoui, oggi indicati come i responsabili dell’attentato all’aeroporto di Bruxelles, erano noti ai servizi segreti ma sono lo stesso riusciti a entrare in zone sorvegliatissime senza nemmeno tentare di camuffarsi? Anzi, stando ad alcuni servizi giornalistici, che considerare scritti da imbecilli rende poco, l’evidenza che siano proprio loro gli attentatori è dovuta proprio al fatto che sarebbero andati a farsi esplodere vestiti di nero e con la barba islamica “come i combattenti Isis” (sic!). Insomma, per questi “giornalisti” velinari sostenuti da una quantità insufficiente di neuroni, mancava poco che gli attentatori non entrassero nell’aeroporto con tutta calma sventolando il drappo nero del Califfato.

Finisco con un accenno agli sciacalli. 
Salvini, evvabbè. Meloni, evvabbè. Le loro raffinate analisi non sono né più né meno che supporti collaterali alla versione ufficiale.

Poi abbiamo il simpaticissimo capo dell’Intelligence ucraina, Vasyl Hrytsak, che ha insinuato che la responsabile degli attentati in Belgio è … la Russia! Opinione  che nemmeno i nostri russofobi hanno osato riportare (ma nemmeno hanno riportato i pestaggi del Gay Pride in Ucraina ad opera di nazionalisti e polizia. Infatti la presenza di omofobia in Europa deve essere registrata esclusivamente in Russia, toh, toh e toh).
Infine c’è lo sciacallaggio dell’epoca dei social network, dove subito sono girate le immagini dell’attentato all’aeroporto di Bruxelles. Peccato che fossero quelle dell’attentato all’aeroporto di  Mosca del 2011. D’altra parte, certi media occidentali spacciano i successi russi contro l’Isis per successi americani.

domenica 20 marzo 2016

Non è mai colpa di Israele: Due bambini di Gaza sono morti e la loro storia va raccontata




di Gideon Levy


Lui aveva 6 anni, lei 10 anni, erano  fratelli di sangue. Sono morti nel sonno? Si sono svegliati  prima che il missile colpisse la loro casa? 


Hanno sentito l'aereo e hanno avuto  paura prima di morire, forse hanno tentato di fuggire?C'era qualche posto dove andare? Che cosa hanno fatto prima di andare a letto nella loro ultima notte di  vita? Hanno sognato qualche cosa nella loro ultima notte?  Il mio amico M. mi ha detto che i suoi figli sono saltati  dal letto per lo spavento. Israele si stava vendicando per il lancio di quattro razzi Qassam avvenuti precedentemente.  I razzi sono atterrati in aree aperte e non hanno  causato danni.  Gli arei hanno colpito quattro obiettivi :  "installazioni terroristiche di Hamas". L'aereo ha sorvolato Beit Lahia e il pilota ha lanciato le bombe  senza che lo schermo mostrasse che Yassin  era morto e Israa   stava morendo.  Uno degli obiettivi  era la casa di Israa e Yassin Abu Khoussa. "Casa" è una esagerazione. Un tetto di amianto cencioso, stracci sul davanzale della finestra, materassi sottili sul pavimento rivestito da coperte a buon mercato, alcune delle quali ormai intrise di sangue. Qui Israa e Yassin sono nati, hanno vissuto qui  e qui sono morti. Sul pavimento della stanza che è stata colpita dormivano i  sette figli della famiglia, da 2 anni a 15anni  e la loro madre. Sono tutti in stato di shock. Le Forze di Difesa israeliane conoscevano   bene questa capanna a Beit Lahia ; l'avevano distrutta un paio di volte,ma  la famiglia ha continuato a vivere qui , dove sarebbe potuta andare ? Ora Suleiman Abu Khoussa, 45 anni , un contadino, sta lì  stordito per la  morte di due dei suoi figli.  La madre si nasconde, non è possibile parlare con lei. La loro casa si trova a circa 300 metri da un campo di addestramento di Hamas.  Yassin è morto sul colpo . Israa è stata ricoverata nell' 'ospedale di Beit Lahia in condizioni critiche e quindi al Shifa Hospital di Gaza City, dove è morta . Essi sono stati sepolti fianco a fianco nel cimitero di al-Salatin, un fratello e una sorella, senza presente e senza futuro.L'incidente è stato segnalato a malapena in Israele. E 'difficile pensare ad una  più  vile e vergognosa disumanizzazione  da parte della maggioranza dei mezzi di comunicazione di Israele. Israel Hayom ha menzionato l'uccisione in una piccola nota con tono sprezzante: "Hamas afferma  che a  seguito dell'attacco due bambini sono stati uccisi" Non è difficile immaginare che cosa sarebbe accaduto se Hamas avesse ucciso due bambini, fratello e la sorella, con un razzo Qassam. Si può immaginare non solo una rappresaglia militare spietata, ma anche i titoli : bestie, Hamas killer  di bambini ,ma i nostri ragazzi -killer sono puri, dopo tutto l'uccisione  non è stata intenzionale. Non lo è mai. Israele non ha  mai pensato  di emettere una condanna, nessuno ha mai pensato di esprimere rammarico, tanto meno di offrire un risarcimento. 

Mi piacerebbe molto visitare la casa di Abu Khoussa per raccontare  agli israeliani ciò che la loro aviazione  ha fatto,ma Israele non  permette ai giornalisti israeliani di recarsi   a Gaza. The Independent era lì questa settimana per riferire ai suoi lettori. 


La disgregazione politica palestinese




di Jamil Hilal – Al Shabaka

20 Marzo 2016 


Il campo politico palestinese, dominato dall’OLP fin dai primi anni ’60, si è disintegrato con l’emergere dell’Autorità Palestinese all’indomani degli accordi di Oslo. Qual è stato il peso dell’OLP e quali le ripercussioni ha generato la sua disgregazione nel corpo politico palestinese? In che modo ha tale frammentazione interessato la sfera culturale e il contributo di quest’ultima alla formazione di un’identità nazionale palestinese? A tali domande proveremo a rispondere nel commento che segue.

Lo strapotere dell’OLP nel campo palestinese ha avuto inizio poco dopo la battaglia di Al-Karameh, nel 1968, che rese possibile il fiorire di una relazione centralizzata con le comunità storiche della Palestina: in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Tali comunità hanno ampiamente accolto l’OLP come unico leader legittimo, a dispetto delle influenze esterne, della sua profonda dipendenza da aiuti stranieri, delle controverse relazioni con il paese di residenza e delle sue relazioni regionali e internazionali. Come risultato, le particolari condizioni e caratteristiche di ogni comunità venivano trascurate, così come venivano ignorate le rispettive responsabilità nazionali, sociali e organizzative.

Da tale posizione dominante, l’OLP era anche in grado di consolidare le pratiche politiche delle élite; pratiche comuni nel mondo arabo e internazionalmente, ma che sarebbe stato meglio se non avessero attecchito nel popolo palestinese; considerata la dispersione territoriale e la loro lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP emerga e funzioni in uno scenario regionale e internazionale che non è amico della democrazia, sia nella teoria sia nella pratica, ha contribuito a questo suo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con ideologie nazionaliste e totalitarie, o in alternativa da monarchie teocratiche e autoritarie; e la democrazia era vista come una formula aliena tanto quanto il colonialismo occidentale. Allo stesso modo, l’OLP e le sue fazioni hanno stretto alleanze con i paesi socialisti e del terzo mondo, pochi dei quali avevano alle spalle esperienze democratiche. La natura ‘rentieristica’ delle istituzioni dell’OLP e la sua dipendenza da aiuti provenienti da paesi arabi socialisti e non democratici non ha fatto che rinforzare un approccio elitario e non democratico alla politica.

Una terza caratteristica dell’egemonia dell’OLP era che le sue fazioni avevano fatto esperienza di un precoce processo di militarizzazione; in parte a causa degli scontri tra la stessa organizzazione e i regimi arabi che la ospitavano, in parte perché era costantemente presa di mira da Israele. Questa militarizzazione formale, contrapposta alla guerriglia, ha aiutato a giustificare una stretta relazione tra leadership politica e membri dell’élite.

Tra gli anni ’70 e gli anni ’90, le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno subito numerosi choc, come conseguenza di vari cambiamenti nello scenario regionale e internazionale. Questi inclusero l’espulsione dalla Giordania a seguito degli scontri armati del 1970-71, la guerra civile divampata in Libano nel 1975, la conseguente invasione israeliana del paese nel 1982, l’esodo dell’OLP dal paese a seguito dei massacri di Sabra e Shatila; e la guerra contro gli stessi campi palestinesi avvenuta tra il 1985 e il 1986. La prima Intifada (insurrezione popolare) contro Israele nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 fu un momento in cui l’Islam invase il campo politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica nel tardo 1989, la prima guerra del Golfo un anno più tardi e il conseguente isolamento politico e finanziario dell’OLP erose infine tanto le sue alleanze tanto le sue fonti di sostentamento.

Gli effetti della disintegrazione

Durante la Prima Intifada, l’élite politica palestinese mancò di comprendere l’importanza di restaurare il movimento nazionale palestinese, così come dell’intessere nuove relazioni tra la leadership centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre, l’OLP fallì nel trovare un modo per neutralizzare l’Islam politico quando questo prese piede nel panorama palestinese – come emanazione della Fratellanza Musulmana – e non integrò Hamas nel processo politico nazionale. Allo stesso tempo, l’organizzazione islamista mancò di ridefinire la propria identità sulla base di un’agenda nazionale. Come conseguenza, il movimento politico palestinese che era stato precedentemente definito come un movimento nazionale o come una rivoluzione, iniziò ad essere chiamato ‘il movimento nazionale e islamico’.

Infatti, la Prima Intifada spinse la leadership politica a centralizzare ulteriormente il processo decisionale e firmò gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali interne ed esterne alla Palestina. Oslo garantì all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa e ideologica necessaria a marginalizzare i rappresentanti delle istituzioni nazionali palestinesi già esistenti, giustificando tale processo con la costituzione di un nucleo statale palestinese. L’Autorità Palestinese fu esclusa dalla trattativa con i palestinesi in Israele e perse molto presto interesse nella causa dei palestinesi giordani. Il suo atteggiamento nei loro confronti, come del resto anche in quelli dei palestinesi presenti in Libano, in Siria, nei paesi del Golfo, in Europa e in America, fu drasticamente ridotto a una serie di formalità burocratiche che rimanevano limitate alle sue ambasciate e ai suoi uffici rappresentativi nei rispettivi paesi.

Quando l’establishment palestinese, in qualità di autorità di auto-governo limitata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, fallì nel prendere le redini dello stato palestinese, le élite politiche furono private del loro potenziale stato sovrano centralizzato; e ciò accelerò la disintegrazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nel 2006 alle elezioni legislative e il suo controllo totale sulla Striscia di Gaza dal 2007 contribuì infine all’attuale spaccatura tra le due autorità, una in Cisgiordania e l’altra a Gaza. Entrambe rimasero sotto occupazione e controllo di uno stato colonizzatore e coloniale che continua ad annettere territori e deportare cittadini palestinesi su entrambi i lati della linea verde.

La disintegrazione del campo politico nazionale ha avuto numerose ripercussioni. Le istituzioni nazionali rappresentative si dissolsero, mentre le élite politiche locali consolidarono il proprio potere. I leader ancorarono la propria legittimità alle loro passate esperienze partitiche o organizzative, così come alla loro interazione diplomatica con altri paesi della regione e istituzioni internazionali. Il discorso dominante, localmente e internazionalmente, ridusse la Palestina ai territori occupati nel 1967 e la gente palestinese al rango di coloro che vivono sotto l’occupazione palestinese; marginalizzando i rifugiati e gli esiliati assieme ai cittadini palestinesi di Israele. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza crebbe esponenzialmente, sia in termini di proporzioni sia di fondi destinati al suo mantenimento. La natura ‘rentieristica’ delle autorità a capo di entrambe le aree fu modulata in base alla dipendenza da aiuti stranieri, remittenze e accresciuta confluenza di capitali privati nelle loro economie.

Si sono verificate anche trasformazioni rilevanti nella struttura sociale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tra le quali l’emergere di una classe media relativamente ampia che è confluita nelle istituzioni dell’Autorità Palestinese in aree quali la formazione, sanità, sicurezza, finanza e amministrazione, così come il nuovo settore bancario e le numerose Ong. Nel mentre, la classe dei lavoratori si è contratta, le ineguaglianze tra i vari segmenti sociali si sono approfondite e la disoccupazione rimane elevata, in particolare tra i giovani e i neolaureati. La mentalità d’ufficio ha preso sempre più piede, scalzando quella di chi lotta per la libertà. Sebbene Fatah e Hamas si definiscano movimenti per la liberazione, sono stati trasformati in strutture burocratiche gerarchiche e sono soprattutto interessate alla propria sopravvivenza.

Le élite politiche ed economiche non si sono dimostrate timide nell’ostentare la propria ricchezza e i propri privilegi, a dispetto di un’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è perfettamente consapevole di come i propri standard e stile di vita dipendano dall’esistenza delle due autorità. Tuttavia, la maggior parte della popolazione rimane soggetta all’oppressione e all’umiliazione dell’esercito israeliano e dei coloni armati; soffrendo non solo la mancanza di condizioni di vita decenti e di un futuro lavorativo, ma anche dell’assenza di ogni tipo di soluzione nazionale all’orizzonte. L’assedio draconiano portato avanti da Egitto e Israele su Gaza è più ferreo che mai, accompagnato dalle guerre distruttive volute da Israele mentre la pulizia etnica perpetrata ai danni dei palestinesi di Gerusalemme continua inesorabile; facendo uso di sfratti, ritiro dei permessi e di un’ampia serie di pratiche analoghe.

Tali condizioni pongono i presupposti per una situazione esplosiva nei territori occupati del 1967. Tuttavia, dal momento che l’OLP, i partiti politici e una buona parte delle organizzazioni della società civile non si mobilitarono, o non poterono mobilizzarsi, contro l’occupazione, gli scontri con l’esercito israeliano e i coloni nell’ondata di rabbia che ha avuto luogo dallo scorso ottobre è principalmente rimasta alla dimensione individuale e locale; mancando di una visione unitaria e di una leadership nazionale.

La disintegrazione del campo politico palestinese ha inoltre condotto a una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in altri luoghi della Palestina e della stessa diaspora. I cittadini palestinesi che si trovano oggi in quella parte di Palestina che diventò Israele nel 1948 devono far fronte a una crescente gamma di leggi discriminatorie. I rifugiati palestinesi in e dalla Siria, Libano e Giordania, così come da altre parti, sono vittime di discriminazioni e abusi. Nel complesso, lo status della causa palestinese ha subito un’involuzione tanto nel mondo arabo quando sul panorama internazionale, una situazione certamente esacerbata dalle guerre interne ed esterne in cui molti paesi arabi si trovano coinvolti.

Eppure la cultura prospera e nutre un’identità nazionale

Oggi, il popolo palestinese non ha né uno stato sovrano né un funzionante movimento di liberazione. Tuttavia, l’identità nazionale palestinese conserva una forza straordinaria, in gran parte a causa del ruolo esercitato dalla sfera culturale nel mantenerne e arricchirne la narrativa. Nel nutrire l’identità e il patriottismo palestinese, la cultura gioca un ruolo di lunga data. Dopo la creazione di Israele nel 1948 e dopo la sconfitta dell’élite politica di allora e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso una fioritura culturale straordinaria – poesia, teatro, musica e film.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani ha catturato tutto questo in un libro straordinario sulla letteratura della resistenza (al-Adab al-Mukawim fi Filistin al-Muhtala 1948-1966), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure chiave, tra le quali il poeta Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il poeta sindaco di Nazareth Tawfiq Zayyad e lo scrittore Emile Habibi – in entrambi i suoi lavori, come The Pessoptimist e il giornale comunista che da lui co-fondato, Al-Ittihad. Negli anni ’50 e ’60 – quando gli israeliani tenevano i cittadini palestinesi sotto controllo militare – letteratura, cultura e arte servivano a rinforzare e proteggere la cultura araba assieme all’identità nazionale palestinese e a una sua narrativa. Questi lavori erano letti in tutto il mondo arabo e non solo, e permettevano ai rifugiati palestinesi in esilio di sostenere la propria identità attraverso continui ponti con la cultura e l’identità della loro terra.

I ‘Palestinesi del 1948’, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo fondamentale nell’introdurre altri palestinesi e arabi al modo in cui l’ideologia sionista influenza le politiche israeliane e i meccanismi di controllo repressivo. Molti studiosi e intellettuali palestinesi hanno lavorato nei centri di ricerca arabi e palestinesi a Beirut, Damasco e altrove; da dove hanno contribuito aincoraggiare tale comprensione.

Da quel momento, la sfera culturale, soprattutto in momenti di crisi, ha offerto più possibilità di quella politica, permettendo ai palestinesi di raggrupparsi attorno ad attività che trascendono i limiti geopolitici, dando vita a varie forme d’espressione culturale e di produzione intellettuale. La letteratura, la filmografia, la musica e l’arte continuano ad essere prodotte – con ritmo crescente– sia da scrittori, direttori e artisti internazionalmente conosciuti, sia da personalità più giovani ed emergenti in Cisgiordania, a Gaza e altrove. Tutto ciò è comunicato in numerosissimi modi – inclusi i social media – e incoraggia legami intra-palestinesi e intra-arabi, così come interazioni transnazionali.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata in una narrativa storica palestinese e attinge dalle esperienze quotidiane delle comunità che fanno fronte dall’esautoramento, all’occupazione, alla discriminazione, all’espulsione e alla guerra. È tale vitalità che forse guida la gioventù palestinese nata soprattutto all’indomani degli accordi di Oslo del 1993 a confrontarsi con i soldati israeliani e i coloni in ogni angolo della Palestina storica. E spiega le immense folle di persone che prendono parte a una processione funebre di giovani palestinesi uccisi da soldati israeliani e coloni; e i tentativi di raccolta fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer palestinesi come punizione collettiva delle famiglie di coloro che sono stati uccisi nell’attuale rivolta.

Tuttavia, sottolineando il significato e la vitalità della sfera culturale non si compensa all’assenza di un efficace movimento politico; con basi solide e democratiche. Dobbiamo imparare dagli errori delle istituzioni del movimento e andare oltre, piuttosto che sprecare energie, tempo e risorse per ripristinare un campo politico disintegrato e defunto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci mostra come fallimentari, come ad un alto grado di centralizzazione. La politica deve soprattutto preoccuparsi della gente.

Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura nazionale dai concetti e dagli approcci che schiavizzano la mente, che paralizzano il pensiero e la libera volontà, che promuovono l’ignoranza, che santificano l’ignoranza e che rovinano i miti. Al contrario, dovremmo promuovere i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una concezione completamente nuova di azione politica. Una concezione che si sviluppi dal linguaggio adottato dai gruppi più giovani nelle relazioni tra palestinesi e forze politiche all’interno della linea verde. Una concezione che rifletta la consapevolezza profonda dell’impossibilità di coesistere con un’ideologia razzista come il sionismo e con un regime colonizzatore e coloniale che criminalizza la narrativa storica dei palestinesi.

Al centro di questa nuova consapevolezza politica devono esserci quelle comunità palestinesi determinate a discutere, tratteggiare e adottare una serie di politiche nazionali inclusive: questo è sia un loro diritto che una loro responsabilità. È altrettanto importante riconoscere il diritto di ogni comunità a determinare la propria strategia nel contrastare le questioni specifiche a cui deve far fronte mentre partecipa all’autodeterminazione dell’intero popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di varie fazioni e a causa della paura di valori e pratiche democratiche. Di conseguenza è necessario incoraggiare le iniziative che mirano a formare leadership locali, con la maggiore partecipazione possibile degli individui provenienti dalla comunità e delle istituzioni; seguendo l’esempio promettente dei palestinesi del 1948, che si organizzarono in Alti Comitati per i cittadini arabi d’Israele per difendere i propri diritti e interessi, e quello dei palestinesi della Striscia e della Cisgiordania nel corso della Prima Intifada. Il Boycott, Divestment and Sanctions Movement (BDS) è un altro esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica. Mette insieme fazioni politiche diverse, unioni e organizzazioni della società civile sotto una strategia e una visione unitaria.

Alcuni potrebbero vedere tale discussione come utopica e idealista, ma abbiamo un disperato bisogno d’idealismo nel caos e nella frammentazione che ci avvolgono. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e creatività culturale dalla quale partire.

*Traduzione a cura di Giovanni Pagani/Nena News


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sabato 19 marzo 2016

CHE SUCCEDE IN BRASILE? PROVE GENERALI DI COLPO DI STATO?




Brasil

18 de março de 2016 - 19h30 

Democracracia enche as ruas do Brasil

  

Começaram desde a manhã desta sexta (18) os atos no Brasil contra o golpe e pela democracia.  Veja aqui no Portal Vermelho como foi a movimentação da militância nas ruas em defesa da legalidade. 



21h - Curitiba, PR"Um, dois, três, Moro no xadrez", cantavam os manifestantes em Curitiba. Os organizadores do ato pró-Dilma em Curitiba estimam em 20 mil o número de manifestantes. A PM, no entanto, afirma que 5 mil pessoas. 


20h56 - Teresina, PI
 “Tem muita gente defendendo a política de ódio e intolerância e estamos aqui defendendo a democracia. Não vamos aceitar golpe. Se alguém quiser assumir o poder do país tem de ser pela Constituição, pela vontade do povo. Quem quiser ganhar a eleição de senador, governador, presidente da República tem de ser no voto, na vontade do povo”, disse o governador Wellington Dias (PI), durante ato em defesa da democracia. A manifestação, reuniu 5 mil pessoas, segundo estimativas da organização e da Polícia Militar.

20h49 - Brasília, DF

Os manifestantes que participam de ato contra o golpe e em solidariedade ao ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva ocuparam todas as faixas do Eixo Monumental, na Esplanada dos Ministérios, no centro de Brasília.

Com gritos de ordem e críticas ao juiz Sérgio Moro, aos partidos de oposição e ao presidente da Câmara dos Deputados, Eduardo Cunha (PMDB-RJ), os manifestantes marcham em direção ao Congresso Nacional.

Muitos já estão no gramado em frente à sede do Legislativo. Antes, por cerca de duas horas, eles ficaram concentrados em frente ao Museu da República, onde foi projetada a frase "Não vai ter golpe!!!". A máquina de laser usada para a projeção estava em um carro de som. À medida que o carro andava, a frase ia sendo projetada em outros prédios da Esplanada.



20h45 - Florianópolis, SC
Cerca de cinco mil pessoas, de acordo com a PM, ocupavam a Avenida Paulo Fontes, em Florianópolis. Organizadores do ato pró-democracia calcularam sete mil pessoas.

20h43 - Vitória, ES
Manifestantes se concentraram em frente à Rede Gazeta, afiliada da Rede Globo, em Vitória , durante ato a favor da democracia e contra o impeachment da presidente Dilma Rousseff. A imagem abaixo foi enviada pelo internauta Felipe Machado Cardoso para o UOL Notícias.




20h37 - São Paulo

Por volta das 19h50, o ex-presidente encerrou o seu discurso: "Talvez vocês não tenham noção do bem que vocês fizeram para a democracia brasileira. A melhor coisa que o Brasil produziu é a sua gente. Não aceitem provocação ao voltar para a casa. Quem quiser ficar com raiva que morda o próprio dedo. Nós não vamos aceitar provocação."


20h25 - Curitiba, PR
Manifestantes se concentraram na praça Santos Andrade, no Centro de Curitiba, no final da tarde desta sexta-feira (18). Batizado de #VemPraDemocracia, o ato reunia, no início da noite, segundo a Polícia Militar, cerca de 3,5 mil pessoas estão no local. Os organizadores do evento, porém, estimam 15 mil manifestantes.

Além de se manifestarem em favor do Governo Federal, os participantes também protestavam contra as decisões do juiz federal Sérgio Moro, que recentemente tornou pública as conversas por telefone da presidente Dilma Rousseff e de Lula, que haviam sido grampeadas. O mote principal do ato é o "Não vai ter golpe".

Também nesta sexta, houve ato em Curitiba contra o Governo Federal e em favor da Lava Jato e do juiz Sergio Moro. Este, contudo, reuniu cerca de 30 pessoas em frente à sede da Justiça Federal. As informações são do BemParaná.

20h20 - Natal, RN
Em Natal, organizadores estimam que cerca de 30 mil pessoas participaram do ato pela democracia. Já a Secretaria de Segurança Pública divulgou que foram 17 mil pessoas nas ruas. 

20h15 - Rio de Janeiro, RJ
A Praça XV no Rio de Janeiro está completamente lotada com shows e intervenções em defesa da democracia. Organizadores estimam que cerca de 50 mil pessoas participam do ato.




20h09 - Recife, PE
De vacordo com o Diario de Pernambucop, o ato convocado pela Frente Popular nesta sexta-feira, reuniu cerca de 200 mil pessoas, de acordo com organizadores. O grupo saiu em caminhada de três quilômetros do Derby até a Praça da Independência, no bairro da Boa Vista. A manifestação ocorreu em clima tranquilo, e não foram registrados incidentes.

O grupo exibiu bandeiras em defesa a programas sociais do PT e também de críticas ao juiz federal Sérgio Moro. Também marcaram presença movimentos sociais que fazem parte da Frente Popular. Em alguns momentos, os manifestantes receberam apoio de moradores do local, que chegaram a jogar papel picado e a aplaudir a movimentação.

Para um dos fundadores do Movimento Mangue Beat, Fred 04, a solução é ocupar as ruas. "O mais irritante são os meios de comunicação quando ficam indignados quando dizem que não vai ter golpe. Não vai ter golpe mesmo. Acho que é continuar na rua, a máscara do golpe na Justiça, Ministério Público, no Congresso, na mídia, caiu. Então a única arma que resta para os democratas, pra quem defende a democracia é ir pra rua", argumenta.





19h55 - São
 Paulo, SP
Alguns trechos da fala do ministro Lula, no ato pela democracia em São Paulo:

"Terça-feira, se não houver impedimento, eu estarei orgulhosamente servindo a minha presidenta Dilma, porque estarei servindo o povo brasileiro, o trabalhador brasileiro. Se eu não acreditasse nisso eu não teria aceito."

"Se tem uma coisa que eu sei fazer é conversar com sem-terra, com empresário e banqueiro. Nunca na história desse país um presidente conversou tanto com eles"
"Eu aceitei fazer parte do governo da Dilma porque ela ainda tem dois anos de mandato e nós ainda podemos mudar a história. Terça-feira eu estarei com a presidenta Dilma".

"Eu entrei para ajudar a presidenta Dilma porque acho que a gente tem que reestabelecer a paz para provar que esse país é maior que qualquer crime no planeta terra, que vai crescer e sobreviver."

"Eles que se dizem pessoas estudadas, sociais democráticas, não aceitaram o resultado. Estão atrapalhando a presidenta Dilma a governar esse país.

Vestem verde e amarelo porque acham que são mais brasileiro do que nós. Corte uma veia para ver se sai sangue vermelho como o nosso? Eles querem viajar para Miami, eu viajo para o Rio Grande do Norte, para a Bahia, eu viajo pelo Brasil."




19h48 - São Paulo, SP

Lula, em São Paulo: "Esse país precisa voltar a crescer, tem que ter uma sociedade harmônica, que democracia é a convivência da diversidade(...). Tem gente que prega a violência contra nós 24 horas por dia. Tem gente nesse país que falava em democracia da boca para fora. Eu pedi eleição em 1989, em 1994, em 1998. Já tinha perdido em 1982 para o governo de São Paulo. Em nenhum momento vocês viram eu ir para a rua protestar contra quem ganhou", disse o novo ministro da Casa Civil.

19h37 - São
 Paulo, SP

Roda de samba no ato de hoje na Avenida Paulista, pela democracia e contra o golpe. Os manifestantes estão ao lado da legalidade, que também é o lado da alegria.




19h30 - São
 Paulo, SP

 "O estado democrático de direito corre riscos. Temos ideologia, ponto de vista, mas o que está em jogo são as garantias individuais de cada um de vocês. De quem está aqui e de quem veio no dia 13. Estamos defendendo a segurança política deles e de todos.", disse o prefeito de São Paulo, Fernando Haddad.

"É a avenida da democracia, da participação. Esse é um ato histórico. Não é um ato em defesa de um governo ou de um partido. Não é em defesa de um homem ou de uma mulher. É um ato em defesa da República Federativa do Brasil", completou, durante o ato na Avenida Paulista.


19h27 - São Paulo, SP
A jararaca está viva e esteve na Paulista. 



19h21 - São Paulo, SP
O ex-presidente Lula demorou a conseguir sair do carro. Mas antes mesmo de aparecer, já era aplaudido pelos manifestantes. 



19h12 - Brasília, DF
"Nessas manifestações é que temos possibilidade de mostrar para o povo, para os indecisos, que existe uma grande parte da população que quer a democracia", afirma ao G1 o administrador Vitorino Murrieta", que levou uma faixa com a inscrição "democracia" ao ato de apoio ao governo Dilma e ao PT. Manifestantes projetaram a frase "Não vai ter golpe" .



19h09 - São
 Paulo
Chico César e Leci Brandão estiveram juntos na Paulista. 
18h56 - Brasília, DFEm ato organizado pela Frente Brasil Popular, mais de 15 mil manifestantes ocupam a Esplanada dos Ministérios, em Brasília, empunhando cartazes com frases de apoio à Dilma e ao ex-presidente – e agora ministro da Casa Civil – Luiz Inácio Lula da Silva e contra o que chamam de “golpe”. O servidor público Pedro Rodrigues disse que Lula está sofrendo uma “injustiça”. “O que me trouxe aqui foi ver a injustiça que está sendo feita com o companheiro Lula. Não estão dando direito de defesa para ele”.

O ministro da Cultura, Juca Ferreira, também marcou presença. "O processo de impeachment pode ter até cara de legal, mas não é legal, é golpe. Estou feliz de ter o Lula como colega de ministério. Ele é um craque, o Pelé da política, vai ajudar a resolver os problemas", disse Juca.



18h54 - Natal, RN
Mais cedo, mais de 10 mil pessoas marchavam pelo centro da capital potiguar.



18h48 - Fortaleza, CE




18h45 - Porto Alegre, RS

"Não vai ter golpe, vai ter luta!", entoam os mais de 20 mil manifestantes que carregam bandeiras e faixas concentrados na Esquina Democrática, no Centro de Porto Alegre.


18h30 - Recife, PE
Organizadores estimam que 200 mil pessoas participam neste momento da passeata da democracia no Recife. Veja no vídeo: 

18h25 - Rio de Janeiro, RJ

Na Praça XV, no Rio de Janeiro, a atriz Letícia Sabatella leu um poema durante o ato em defesa da democracia e contra o golpe. Ela e a colega Bete Mendes são contra o golpe.





18h20 - Aracaju, SE

Em Aracaju, Sergipe, milhares tomam às ruas em uma marcha que percorre os bairros Santo Antônio, 18 do Forte, e encerrar no Terminal da Avenida Maracaju, no Bairro Cidade Nova, na Zona Norte da capital. "Isso demonstra aos que querem dar o golpe que o povo está atento. Vamos defender o estado democrático direito. Se querem derrubar a presidente esperem as próximas eleições. É o momento de passar o Brasil a limpo”, disse o presidente da Central Única dos Trabalhadores de Sergipe, Rubens Marques de Souza.



18h14 - São Paulo, SP
O ator Gregório Duvivier está na Avenida Paulista contra o golpe! <3





18h06 - São
 Paulo, SP
O ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva chegou neste momento à Avenida Paulista para participar do ato.





17h54 - Recife, PE
O vice-prefeito do Recife, Luciano Siqueira (PCdoB), participa do ato contra o golpe no Recife e defende unidade para defender a democracia.


 


17h48 - São
 Paulo, SP
Não há como negar as imagens. A própria TV Globo, que no domingo passado fez uma cobertura em clima de convocação para os atos pró-golpe, acaba de mostrar a Avenida Paulista tomada por um mar de gente e outros tantos militantes ainda se dirigindo ao local. Segundo a organização, há 250 mil pessoas. A PM, imagine só, desta vez ainda não fez estimativas.

 
17h41 - Belo Horizonte, MG
Em Belo Horizonte, terra do líder da oposição Aécio Neves, a manifestação já reúne uma multidão. Apoiadores do governo federal aproveitam para criticar as manifestações despolitizadas dos golpistas.





17h38 - Porto Alegre
Manifestantes contrários ao golpe se reúnem na Esquina Democrática, no Centro de Porto Alegre, na tarde desta sexta-feira (18). Conforme a organização do protesto, a concentração começou às 14h. Marcado para as 17h, o ato público defende também a democracia e os direitos sociais.
De acordo com a organização, já são mais de 5 mil pessoas na rua. "Não vai ter golpe!", entoam os manifestantes, que carregam bandeiras e faixas.




17h29 - Rio de Janeiro, RJ


De acordo com a CUT, cerca de 10 mil pessoas já lotam a Praça XV, na cidade do Rio de Janeiro. Segundo relatos, manifestantes não param de chegar ao local.







17h26 - São Paulo, SP

Lideranças dos movimentos sociais presentes no ato em defesa da democracia em São Paulo denunciam que manifestantes estão sendo impedidos de chegar na Avenida Paulista. De acordo com eles, ônibus de trabalhadores são impedidos de subir a Rebouças. Também há relato de que ônibus que vinha de Santos, litoral sul, foram barrados na estrada.

17h23 - São Paulo, SP
O ator Luís Henrique Nogueira participa de ato em defesa da democracia e contra o golpe em São Paulo. "Vim aqui lutar pelo o que eu acredito, uma democracia legítima", disse ele. "É uma luta pela justiça real, todos queremos o fim da corrupção", completou.



17h09 - Salvador, BA
Manifestantes fazem uma grande manifestação em defesa da democracia e a favor do governo da presidenta Dilma Rousseff na tarde desta sexta-feira (18), em Salvador, cuja saída foi marcada para Campo Grande, região central de Salvador. Por volta das 16h10, o grupo começou a caminhar em direção à Praça Castro Alves. O trajeto tem quase dois quilômetros. Por volta das 16h40, a assessoria da Central Única dos Trablhadores (CUT), uma das entidades organizadoras do protesto, informou que 35 mil pessoas participam do ato.








16h30 - São Paulo, SP
Militantes animam a‬ Avenida Paulista contra o golpe.


16h26 - Salvador, BA
Em Campo Grande, centro de Salvador, 7 mil pessoas se concentram para sair em passeata até a Praça Castro Alves. Todos em defesa da democracia e contra o golpe.




16h18
 - São Paulo, SP

Manifestantes começaram a chegar à Avenida Paulista, em São Paulo, por volta das 15h. Embalados pelo jingle 'Lula lá', empunhando faixas e bandeiras, eles já tomam os dois sentidos da avenida, para dizer que “não vai ter golpe”. Muitos carregam placas com fotos de militantes que combateram o regime militar, onde se lê: “Não vamos deixar que o presente repetir o passado”.

A assessoria de imprensa do ex-presidente Lula disse que o petista ainda avalia se participará do ato. Mas o sindicalista da CUT-SP, Douglas Isso, anunciou que o ato será encerrado por Lula. A previsão é que ele chegue à Avenida Paulista às 18h30.









16h10 - Recife, PE
Centenas de pessoas ocupam a Praça do Derby, na área central do Recife, em Pernambuco. Os manifestantes devem sair em marcha pela Avenida Conde da Boa Vista, com destino à Praça da Independência, no bairro de Santo Antônio.





15h58 - Rondônia
Em Rondônia, manifestantes relatam: "Minha vida melhorou nestes últimos anos". Confira abaixo o depoimento de dona Marlene Ferreira, integrante doMovimento dos Atingidos por Barragens (MAB).


15h49 - Maceió, AL

Nesta sexta-feira (18), manifestantes tomaram a Praça do Centenário, no bairro do Farol, em Maceió, em ato convocado pela Frente Brasil Popular em defesa da democracia. De lá, eles seguiram em caminhada pelas ruas do centro da cidade. Segundo representantes da organização, cerca de 8 mil pessoas participam da marcha.

Empunhando cartazes e faixas que traziam mensagens como “Mexeu com Lula, mexeu comigo”. Os manifestantes também puxavam palavras de ordem: “Não vai ter golpe”, era uma das mais ouvidas. Os carros de som tocavam músicas como a marchinha de carnaval “daqui não saio, daqui ninguém me tira”.

15h34 -  João Pessoa, PB
Manifestantes ocupam a Avenida Getúlio Vargas, em João Pessoa, em defesa da democracia e contra o golpe. Sewgundo os organizadores, cerca de 7 mil pessoas estão no local.





15h25 - Rio de Janeiro, RJ
Advogados, juízes, procuradores, defensores públicos e professores de direito estão reunidos no Rio de Janeiro, em ato em defesa do Estado Democrático de Direito e contra as ilegalidades da operação Lava Jato.

O advogado Antonio Modesto da Silveira, que tem 88 anos, atuou durante a ditadura em defesa de presos políticos e foi ele mesmo uma das vítima repressão, abriu sua fala anunciando: "não vai ter golpe!". Ao criticar a condução das investigações, afirmou que nunca viu "um processo de uma página só: uma sentença".

"Na ditadura não vivemos um clima como o de hoje. Esse juiz (Moro) exerce a judicatura da maneira mais absurda e ilegal do que os piores auditores militares. Ele é 'monocausa', só recebe processos da Lava Jato, o que fere o princípio do juiz natural", disse o advogado Técio Lins e Silva.

O ex-presidente da OAB-RJ e deputado federal pelo PT, Wadih Damous, informou que os participantes do ato divulgarão um manifesto pela democracia. "Seja golpe militar ou midiático ou com participação do sistema judiciário, golpe é golpe. Uma representação contra o juiz Sérgio Moro será feita no Conselho Nacional de Justiça", infomou. O ato acontece no auditório da Caixa de Assistência dos Advogados do Rio (CAARJ).


15h - Sobral, CE

Em Sobral, no Ceará, manifestantes foram às ruas logo cedo, para apoiar a presidenta Dilma Rousseff, o ex-presidente Lula e a democracia brasileira. A concentração da atividade começou às 8h na Praça de Cuba, no Centro da cidade, e seguiu em caminhada até o Beco do Cotovelo, onde houve discursos de participantes. Estiveram presentes estudantes, centrais de trabalhadores rurais, comerciários, lideranças políticas e comunitárias.
"Precisamos defender a democracia, os direitos, as regras constitucionais. Entendemos que há uma movimentação para um golpe no país, construído por movimentos reacionários que estão contra as conquistas obtidas ao longo do tempo", disse o prefeito de Sobral, Veveu Arruda (PT). "Acreditamos que os responsáveis pelos maus feitos devem ser punidos na forma da lei, mas não seletivamente", apontou.

Do Portal Vermelho, com G1

giovedì 17 marzo 2016

Deportateli a Gaza, colonia penale di Israele



Di Gideon Levy 

A un’ora di macchina da Tel Aviv c’è un ghetto, forse il più grande del mondo, con circa due milioni di abitanti. Questi gli ultimi dati diffusi da Gisha, Legal Centre for Freedom of Movement (ONG israeliana): il tasso di disoccupazione a Gaza è pari al 43%; il 70% della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria; il 57% vive a rischio di insicurezza alimentare.
E poi c’è l’inquietante rapporto delle Nazioni Unite, diffuso nell’agosto 2015, dal titolo: “Gaza in 2020: a liveable place?” [Gaza nel 2020: sarà ancora un posto vivibile? Ndr] Perché in quella data, i danni alle infrastrutture idriche saranno irreversibili e comunque anche oggi l’acqua non è potabile.
Il PIL pro capite è di $1,273, persino più basso rispetto a 25 anni fa; probabilmente, in nessun’altra zona del mondo si registra un simile calo costante del PIL. Servirebbero altri 1.000 medici e 2.000 infermieri per un sistema sanitario al collasso; da dove arriveranno? Dalla facoltà di medicina di al-Nuseirat? Dagli studenti che si recano all’estero per studiare a Harvard? L’Egitto ha ristretto ulteriormente l’ingresso e l’uscita dal Valico di Rafah; il mondo ha dimenticato le sue promesse e Israele sfrutta l’intransigenza egiziana e l’indifferenza della comunità internazionale per prolungare l’assedio, agendo di comune accordo con l’Egitto, da cui trae legittimazione e incoraggiamento.
Tre ore di elettricità al giorno. Talvolta sei. Che piova, faccia freddo o caldo, in estate come in inverno. Poi, 12 ore senza energia elettrica, in attesa che torni per tre o sei ore. Ogni giorno. Così vivono circa due milioni di persone; un milione di rifugiati o figli di rifugiati, resi tali dalle politiche israeliane.
Circa un milione sono bambini. Si fa persino fatica a immaginarlo; e solo pochissimi israeliani se ne curano, basta scaricare le responsabilità su Hamas.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha avuto una nuova idea: vuole esiliare in questo posto maledetto le famiglie dei responsabili degli attacchi di questi ultimi mesi.
D’ora in poi non ci si limiterà a giustiziare sul posto ragazze e ragazzi che impugnano un coltello o un paio di fornici, com’è accaduto in questi mesi, anche quando non era strettamente necessario; d’ora in poi, a essere punite saranno anche le loro famiglie. Che dovranno pagare.
Netanyahu ha già consultato il procuratore generale, Avichai Mandelblit, per un parere ufficiale: qualora fosse favorevole, avvalorerebbe la sua posizione. In caso contrario, potrebbe sempre accusare il sistema giudiziario, che gli impedisce di difendere i cittadini dal terrorismo. In ogni caso, riporterebbe una vittoria.
L’opinione pubblica israeliana sostiene apertamente le folli idee del suo primo ministro: la maggior parte della popolazione è concorde con ogni misura draconiana intrapresa contro i “terroristi” e le loro famiglie. Le punizioni collettive contravvengono al diritto internazionale, ma a Israele non interessa: non prende in considerazione questo importante ed equo strumento, che appare ai suoi occhi del tutto irrilevante.
Esiste un problema ben più grave della demagogia spicciola di Netanyahu, che negli ultimi mesi ha tentato in ogni modo e ad ogni costo di accontentare le frange di estrema destra, in un clima di esasperato ultra-nazionalismo. Netanyahu sa che i servizi di sicurezza israeliani non sono in grado di contrastare gli attacchi dei lupi solitari contro l’occupazione.
Le consultazioni con IDF e Shin Bet hanno evidenziato che neanche l’imponente e organizzatissimo esercito israeliano può fare granché contro aggressori che agiscono da soli, che nella maggior parte dei casi sono giovanissimi, non hanno un’infrastruttura logistica o militare alle spalle, né la regia di movimenti o organizzazioni politiche e sferrano attacchi del tutto spontanei e non premeditati. Neanche l’intelligence è in grado di impedirli o sventarli. E non saranno d’aiuto le sofisticate armi israeliane, la tecnologia stealth statunitense,né i sottomarini tedeschi.
Nessun esercito al mondo potrà mai contrastare una adolescente con un paio di forbici o un ragazzo con un coltello da cucina, che una mattina si sveglia e decide di sferrare un attacco. Non esiste una risposta di tipo militare a 50 anni di disperazione (70 anni, ndr). Ma Netanyahu deve comunque dimostrare che “sta facendo qualcosa”, per acquietare l’opinione pubblica; non può dare l’impressione di osservare impotente il balletto di cifre sugli attacchi ormai quasi quotidiani, che non accennano a diminuire, sebbene nella maggior parte dei casi gli autori restino uccisi e il numero di vittime nella controparte israeliana sia relativamente irrisorio.
Quindi, anche in questo caso, si rispolvera la vecchia strategia che consiste nel radere al suolo le case delle famiglie degli attentatori. Secondo B’Tselem, Israele ha già demolito o sigillato 31 abitazioni dall’inizio di ottobre 2015. Tra queste, 14 appartenevano ai vicini dei familiari, ma questo non sembra avere una rilevanza.
Con l’imprimatur del sistema giudiziario, il metodo della punizione collettiva potrebbe essere applicato in ogni caso. Alcuni esperti di sicurezza, ma non tutti sono concordi, sostengono che sia un deterrente al terrorismo, ma in occasione delle varie intifada, questa tesi non è mai stata dimostrata. Anzi, chiunque conosca l’ambiente palestinese, sa che le demolizioni non fanno che motivare ulteriormente i giovani a compiere attacchi, come forma di vendetta. Se una persona è così disperata da essere disposta a pagare con la vita, non sarà certo scoraggiato dalla demolizione della sua casa.
Anzi, intorno alle rovine delle abitazioni rase al suolo, la rabbia non fa che montare. Qualche giorno fa, ho visitato due siti nel villaggio di Dura, a sud di Hebron: la demolizione delle case delle famiglie Harub e Masalma ha lasciato senza tetto 19 persone.
Tra le macerie, si aggirava Khaki Harub, tre anni, il fratello più piccolo di Mohammed Harub, 22enne palestinese che ha ucciso due israeliani in una sparatoria al valico di Gush Etzion, in Cisgiordania, ed è stato arrestato dalle forze israeliane. “Voglio uccidere un soldato israeliano”, mi ha detto il piccolo. Quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto: “Perché mi hanno distrutto la casa”. Khaki, il cui nome in arabo significa “È un mio diritto”, non dimenticherà mai quelle macerie. Crescerà accompagnato da quel ricordo.
Adesso Netanyahu vuole usare ancora di più il pugno di ferro, confinando le famiglie a Gaza. Ci sono dei precedenti. Durante la prima e la seconda intifada, Israele ha confinato attivisti palestinesi in Giordania, in Libano, a Gaza e in altri Paesi. La più massiccia espulsione ebbe luogo sotto il governo di Yitzhak Rabin.
Il 17 dicembre 1992, dopo il rapimento e l’uccisione di un poliziotto di frontiera israeliano, Rabin ordinò la deportazione verso il Libano di almeno 415 attivisti di Hamas e del Jihad Islamico. Il sistema giudiziario israeliano non fu unanimemente concorde con questo gesto estremo e lo dichiarò illegale, ma l’Alta Corte lo avallò e i 415 attivisti furono effettivamente, espulsi. È proprio qui, a Marj al-Zuhur, montagna libanese in cui le temperature spesso scendono sotto lo zero, che si è formata la classe dirigente di Hamas, che tuttora è a capo dell’organizzazione. L’espulsione non presenta criticità solo a livello giuridico: non ha mai dimostrato una reale efficacia dal punto di vista di Israele e non c’è alcuna certezza che sia utile a contrastare il terrorismo.
Tuttavia, Netanyahu vuole compiere un ulteriore passo avanti (o indietro, dipende dai punti di vista): gli oggetti del provvedimento non sarebbero gli esecutori materiali dell’attacco, ma i loro familiari, su cui non pesa alcuna accusa. Se il sistema giudiziario dovesse consentirlo, e in genere si piega a ogni capriccio dei servizi di sicurezza, tutti i familiari di chi ha arrecato danno a Israele, compresi gli anziani, le donne e i bambini, sarebbero cacciati dalle loro case ed esiliati a Gaza.
Una simile deportazione viola palesemente i principi basilari di una legge equa, i fondamenti stessi del diritto naturale. Persone innocenti sarebbero sradicate dalle loro case, dalle loro comunità, dalle loro attività produttive e dai loro affetti, e trasformate in rifugiati per la seconda o terza volta nella storia delle loro famiglie.
Inoltre, questo provvedimento sarebbe praticamente inutile nella lotta al terrorismo. Si aggiungerebbe alle tante azioni eclatanti destinate a fare colpo sull’opinione pubblica interna: servirebbe solo a dimostrare a un popolo affamato di vendetta che il governo è pronto ad accontentarlo. L’azione potrebbe essere reiterata a più riprese, senza limiti.
Tra l’altro, c’è un altro particolare che merita la nostra attenzione: in questo modo, Israele ammetterebbe per la prima volta in via ufficialeche Gaza è una prigione, la più grande del mondo. Spedire le famiglie degli aggressori a Gaza è una forma punitiva, e la scelta di farne una colonia penale di Israele, una sorta di “Isola del Diavolo”, significa ammettere che Gaza è concepita come un campo di prigionia, un’immensa gabbia a cielo aperto. Israele, dichiarando la fine dell’occupazione su Gaza, dimostra in realtà che una prigione resta tale, e che i carcerieri hanno semplicemente preferito controllarla dall’esterno.
Il piccolo Khaki Harub adesso cammina sconvolto tra le macerie della sua casa di Dura, nelle colline a sud di Hebron. Quando gli ho fatto visita, suo padre gli ha dato uno shekel per comprare delle caramelle, come se questo potesse bastare per fargli dimenticare la rabbia e la frustrazione.
Se dipendesse da Benjamin Netanyahu, Israele non dovrebbe limitarsi a distruggere l’abitazione del piccolo Khaki: il bambino sarebbe mandato a Gaza, in una città sotto totale assedio, senza energia elettrica, senza acqua potabile, che tra quattro anni potrebbe essere del tutto invivibile. Il nome “Gaza”, in ebraico, ha una radice comune con “Azazel”, il luogo in cui, secondo la tradizione biblica, un capro espiatorio fu sacrificato e gettato da una montagna.
Traduzione di Romana Rubeo
© Agenzia stampa Infopal
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