venerdì 29 settembre 2017

Né Guerra né Pace: da Aleppo il racconto dei Maristi Blu



Lettera da Aleppo n. 31 (24 settembre 2017)

  Né Guerra né Pace. È così che posso definire la situazione attuale in Siria in questo settembre 2017, sei anni e mezzo dopo gli eventi che hanno causato la morte di più di 350.000 persone, distrutto gran parte del Paese, sfollato un terzo della popolazione, spinto all'esilio oltre 3 milioni di persone e distrutto i sogni e il futuro dei giovani e di più generazioni di Siriani.
Attualmente, tutte le parti (governo siriano e poteri mondiali) hanno un solo obiettivo: sradicare Daech in Siria dopo averlo sconfitto in Iraq. Gli ultimi bastioni di Daech sono due città a Est: Raqqa, la capitale del sedicente Stato Islamico in Siria e Deir El Zor dove metà della città, la sua gente e la sua guarnigione furono circondati dai jihadisti per oltre 3 anni e riforniti dell'essenziale con ponti aerei. La prima è stata per metà liberata dalle truppe kurde sostenute dagli Stati Uniti. La seconda è sul punto di esserlo; l'esercito siriano, nonostante le pesanti perdite, è riuscito a liberare la città e villaggi nella provincia di Deir El Zor e ha rotto l'assedio della città raggiungendo gli abitanti circondati. I Siriani delle altre città siriane hanno prematuramente manifestato la loro gioia per la liberazione di Deir El Zor, che però non lo è ancora del tutto. Tuttavia, quando Daech sarà definitivamente battuto in queste due città e nei villaggi circostanti, sarà la sua fine in Siria.
Nel resto della Siria, non è "né guerra né pace". Sotto l'egida della Russia e della Turchia e dell'Iran, ad Astana dove si sono svolti negoziati per molti mesi, sono stati conclusi diversi accordi per l'evacuazione dei ribelli dalle enclaves da loro occupate in varie regioni e permesso il loro trasporto nella provincia di Idlib, bastione di Al Nosra. Inoltre, diversi accordi di de-escalation hanno consentito di fermare i combattimenti e congelare la situazione in varie regioni: Damasco, Homs, Idlib ...
I Siriani, pur felicitandosi per la cessazione dei combattimenti qua e là, prendono atto che il congelamento della situazione non durerà e porterà a un caos prolungato, alla divisione o alla suddivisione in aree di influenza, se il congelamento non è accompagnato da importanti progressi nei negoziati per raggiungere un accordo politico definitivo del conflitto.
Quello che ci rende un po' ottimisti è che la maggior parte dei governi arabi, occidentali e turco, che fin dall'inizio hanno sostenuto, finanziato e addirittura armato i ribelli, per la maggior parte terroristi, finalmente hanno capito che il governo siriano non sarà rovesciato dalle armi come pensavano e desideravano, e che una soluzione politica può esistere solo confermando al potere il presidente , largamente sostenuto dalla popolazione, dall'esercito siriano e dall'alleato russo. Da qui le mutate dichiarazioni di alcuni leaders del mondo occidentale indicanti la loro priorità a combattere Daech e il terrorismo (cosa sempre ripetuta dal governo siriano da 6 anni a questa parte) e non la caduta del regime.
Ad Aleppo, dalla fine del 2016 (data dell'evacuazione degli ultimi terroristi verso Idlib e della liberazione della città), la situazione a tutti i livelli è notevolmente migliorata. Come prima del luglio 2012, non esistono più una Aleppo Est e una Aleppo Ovest, ma una sola città: l'Aleppo multimillenaria. Alcune parti di Aleppo, quelle più occidentali, continuano purtroppo a ricevere proiettili di mortaio quotidianamente lanciati dai ribelli installati a 10 km dalla città sul lato di Idlib.
Ma la stragrande maggioranza dei quartieri è sicura e gli Aleppini possono circolare e vivere senza la paura di un obice o del proiettile di un cecchino. Uno straniero che avesse seguito gli avvenimenti e il martirio di Aleppo, se venisse a trovarci adesso, sarebbe stupito dalla densità del traffico, dall'illuminazione degli incroci, dai bar affollati, dalle strade prima chiuse e ora riaperte al traffico, dai giardini pubblici pieni di bambini che giocano, dagli autobus per il trasporto scolastico in funzione, dai marciapiedi liberati delle migliaia di bancarelle che funzionavano come negozi e per la riapertura di molti negozi chiusi durante la guerra. L'acqua corrente ci viene nuovamente fornita almeno due giorni alla settimana e l'elettricità è fornita 12 o 15 ore al giorno.
(foto Pierre Le Corf)
Tuttavia, il quadro non è poi così roseo. Questa situazione "né di guerra né di pace" non incoraggia le centinaia di migliaia di Aleppini, rifugiati o sfollati, a tornare. L'Organizzazione Internazionale per la Migrazione (IOM) ha affermato di recente che 600.000 persone, la maggior parte della provincia di Aleppo, sono tornate nelle loro case. Questo numero deve essere un po' sfumato perché la maggior parte di queste persone erano sfollati interni che si erano trasferiti in un'altra zona della città o in un'altra città siriana. Questa situazione non aiuta nemmeno la ricostruzione -perché ricostruire se non c'è pace?- nè la ripresa economica, perchè gli investitori restano in attesa. Il costo della vita e la disoccupazione sono ancora molto alti e perciò la povertà. La maggioranza delle famiglie degli Aleppini ha ancora bisogno di aiuto per sopravvivere.
Di fronte a questa situazione e a questi nuovi sviluppi, noi Maristi Blu vogliamo favorire la ricostruzione, concentrarci sullo sviluppo umano e lavorare per ricostruire il futuro dei Siriani e della Siria. Dall'inizio del conflitto, nei momenti peggiori della guerra di Aleppo, quando i programmi di soccorso assorbivano le nostre risorse umane e materiali, abbiamo mantenuto i nostri progetti educativi e ne abbiamo iniziato di nuovi. E ora, pur continuando i nostri progetti di soccorso, abbiamo deciso di rafforzare i nostri programmi di sviluppo umano. Crediamo fermamente che far crescere l'umano contribuisca ad implementare la pace e a preparare il futuro. Tuttavia, non intendiamo fermare i nostri programmi di soccorso, la gente ne ha ancora bisogno.
In quest'ottica abbiamo iniziato un nuovo progetto che abbiamo chiamato JOB, Job per lavoro in inglese e Job (Giobbe) per il profeta famoso per la sua pazienza, qualità necessaria per il successo del nostro progetto. Esso implica l'individuazione di posti di lavoro per i nostri giovani, favorire la creazione di piccoli progetti e incoraggiare la formazione professionale; ciò per rendere le famiglie finanziariamente indipendenti dagli aiuti ricevuti ormai da più di 5 anni e che un giorno dovranno naturalmente finire, per incoraggiare i giovani a rimanere nel paese e, infine, per partecipare alla ricostruzione della Siria. Un team di volontari è responsabile del progetto. Redige gli elenchi delle offerte e delle richieste di impiego e fa in modo che offerta e richiesta s'incontrino. Aiuta i giovani a immaginare e a realizzare i propri progetti di lavoro e li supporta finanziariamente. Forma altri giovani ai mestieri, inviandoli a nostre spese a centri di apprendistato e infine crea dei workshop di produzione per creare posti di lavoro garantendo la redditività dell'impresa. In questa ottica inizieremo presto una bottega di riciclaggio di abiti usati che fornirà lavoro a una dozzina di donne.
Il nostro centro di istruzione per adulti, M.I.T., inaugurato alla fine del 2013, ha celebrato i suoi 4 anni di esistenza due settimane fa con un incontro a cui abbiamo invitato tutti i responsabili delle associazioni caritative e per lo sviluppo di Aleppo. In 4 anni abbiamo organizzato 77 workshop di 3 giorni ciascuno con 1404 persone guidate da 28 istruttori. Inoltre, abbiamo organizzato due sessioni di 100 ore per insegnare a 35 giovani adulti "come avviare il tuo progetto". Abbiamo sostenuto finanziariamente i 6 migliori progetti in termini di fattibilità e creazione di posti di lavoro. Continueremo queste lunghe sessioni sullo stesso tema per dare al maggior numero possibile di giovani la possibilità di imparare a creare la propria attività e, quando necessario, li finanzieremo.
In collaborazione con il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), apriremo un laboratorio di abbigliamento per bebè e bambini che fornirà lavoro a 24 persone, laboratorio guidato da un Marista Blu. Per due mesi, su richiesta dell'UNDP, condurremo anche tre progetti con l'obiettivo di rinnovare i legami, spesso problematici e tesi e talvolta spezzati dalla guerra, tra le varie parti della popolazione di Aleppo, per guarire le ferite e per riparare il tessuto sociale della Siria di domani.
Tutti gli altri progetti educativi continuano. I due progetti per i bambini dai 3 ai 6 anni "Imparare a crescere" e "Voglio imparare" riprendono le loro attività con i bambini il 2 ottobre, dopo che le 24 insegnanti hanno trascorso tutta l'estate creando i nostri programmi educativi. La squadra di "Skill School" per gli adolescenti ha lavorato duramente per preparare il programma per l'anno. "Taglio e cucito" continua con le mogli, le madri e le figlie, "Lotta contro l'analfabetismo", "Speranza" e "Douroub" riprenderanno presto le loro attività.
Stiamo provando con tutti questi programmi ad emancipare le persone, preparare il loro futuro e dare loro strumenti per avere un'attività professionale che permetterà loro di vivere.
I nostri programmi di soccorso continuano. Riteniamo, dopo una profonda riflessione e un dialogo all'interno del nostro team, che sia sempre necessaria l'assistenza alla popolazione e che il momento per ridurre il volume del nostro aiuto o per fermarlo non sia ancora arrivato. Soprattutto perché molte delle nostre famiglie sono di nuovo senza risorse, perchè il marito è stato richiamato a servire la patria come riservista.
  Continuiamo a distribuire pacchi alimentari e sanitari ogni mese a circa 1000 famiglie. Aiutiamo le famiglie sfollate a pagare l'affitto delle loro case, distribuiamo l'acqua a chi ne ha bisogno. All'inizio dell'anno scolastico, abbiamo dato a tutti i bambini delle nostre famiglie buoni per l'acquisto di materiale scolastico. Il nostro programma "Goccia di latte" è al suo 29°mese di distribuzione del latte ai bambini di età inferiore ai 10 anni.
 Per quanto riguarda i nostri due programmi medici, siamo lieti di annunciare che il progetto "Civili Feriti di Guerra" è, grazie a Dio, rallentato per la diminuzione dei feriti dopo la liberazione di Aleppo.  Viceversa, il nostro programma medico per aiutare i malati finanziariamente incapaci di prendersi cura di se stessi o di farsi operare si amplia moltissimo, visto il numero delle persone in grande difficoltà.   
   [ N.D.R.: A questo proposito, ricordiamo ai lettori italiani che il progetto 'Aiutiamo Mahmoud' promosso dai Maristi di Aleppo ha ottenuto tramite la trasmissione Tv LE IENE pieno successo: il piccolo Mahmoud ha le sue due gambette nuove e un ortopedico gli fa riabilitazione per le protesi 3 giorni alla settimana; da ottobre anche Mahmoud al mattino potrà partecipare al progetto dei Maristi Blu 'Voglio imparare' ed inserirsi in un percorso scolastico]
In estate abbiamo organizzato nel nostro Centro un club estivo dove le famiglie e i loro figli sono venuti nei pomeriggi per rilassarsi, giocare e trascorrere momenti piacevoli sorseggiando un caffè o una bibita con i loro amici.
Negli ultimi 6 anni abbiamo attraversato periodi diversi che abbiamo dovuto gestire con mezzi differenti. La situazione attuale di "Né guerra né pace" è una delle più difficili, perché le nostre risposte alla situazione non sono scontate. E' un momento che richiede a noi riflessione e adattamento costante alle nuove esigenze, e alle famiglie beneficiarie una rieducazione alla pace tanto desiderata. Vogliamo seminare la Speranza tra le persone e vederla espandersi nella fiducia, nella serenità e nell'amore.
I Fratelli Maristi, nostri partner in seno ai Maristi Blu, il cui carisma e spiritualità condividiamo, in Colombia stanno tenendo attualmente il loro 22° Capitolo Generale, durante il quale i fratelli partecipanti definiranno gli orientamenti della congregazione per gli anni a venire ed eleggeranno la nuova dirigenza. La scelta di tenere il Capitolo in Colombia, al posto di tenerlo presso la casa generalizia di Roma dove si è sempre fatto, è significativa della volontà della congregazione di aprirsi verso "nuovi orizzonti" e di sottolineare la pace che si sta preparando in quel Paese, vittima di una guerra che dura da decenni.
Anche noi, i Maristi Blu, sogniamo di andare verso nuovi orizzonti, verso un nuovo inizio di un tempo da costruire, da realizzare nella convivenza, la concordia, la cittadinanza responsabile e la Pace.
"Né guerra né pace" era il titolo di questa lettera da Aleppo n. 31. Che la n. 32 tra 3 mesi vi possa dire: Nessuna guerra ma una pace vera.
Aleppo, 24 settembre 2017
Nabil Antaki,   per i Maristi Blu

    ( trad. dal francese : Gb.P.)
Chi desidera inviare donazioni può contattare:  https://www.facebook.com/MaristesAlep

giovedì 28 settembre 2017

Intervista a Carolus Wimmer, Segretario per le Relazioni Internazionali del Partito Comunista del Venezuela (PCV)


da “Avante!”, Settimanale del Partito Comunista Portoghese 
Traduzione di Marx21.it
Quale analisi della fase attuale sviluppa il PCV?
Per il PCV, l'attuale fase è quella della lotta per la liberazione nazionale. Riconosciamo i grandi progressi sociali e politici realizzati negli ultimi 19 anni, a cui ha dato impulso soprattutto il Comandante Chávez, ma non concordiamo sul fatto che si stia costruendo il socialismo. Uno dei nostri slogan è “difendere ciò che si è conquistato”, ma comprendiamo che il processo debba creare le condizione per avanzare verso un'altra fase, il socialismo. La questione dell'avanguardia è essenziale, e per questo abbiamo creato il Fronte Popolare Antimperialista e Antifascista.


Chi ne fa parte?
Ne fanno parte il PCV e la maggioranza dei partiti del Blocco Bolivariano, senza il PSUV. Abbiamo incluso in questo processo i settori antimperialisti e ora anche quelli antifascisti, poiché l'apparizione di organizzazioni paramilitari fasciste e partiti politici fascisti è un fenomeno nuovo in Venezuela. Nella costituzione del fronte, l'unione civico-militare assume un ruolo importante. Diversi milioni di persone – operai, lavoratori – difendono questo processo, come pure un ampio settore delle forze armate. L'imperialismo ha cercato di dividerci e non ci è riuscito. E' un fenomeno speciale in Venezuela.

Questo fronte ha un'espressione elettorale?
Ha un'espressione tattica, elettorale, e strategica, di lotta per trasformazioni profonde. Viviamo una lotta elettorale continua, a cui il PCV partecipa in quanto essa rappresenta un modo per accumulare le forze per la lotta rivoluzionaria. Nel caso dell'Assemblea Nazionale Costituente, eletta il 30 luglio, il Partito è attivo dentro e fuori di essa, difendendo le sue proposte. Abbiamo promosso una grande marcia delle organizzazioni sindacali di classe fino all'Assemblea per presentare formalmente le rivendicazioni del settore. Faremo lo stesso con le donne, la gioventù, i contadini... Dobbiamo superare la grande debolezza che esiste nel processo politico venezuelano, che è rappresentata dal basso livello di organizzazione della classe operaia.

A che cosa si deve questa fragilità?
Negli anni 80 e 90, quando fu installato in Venezuela il sistema neoliberale, il movimento sindacale e studentesco furono duramente colpiti, attraverso la corruzione dei dirigenti e la repressione delle proteste. Per questo, quando Chávez ha dato inizio al movimento erano assenti la classe operaia e il movimento studentesco organizzati... Il PCV è molto impegnato nella costruzione e nel rafforzamento di questi movimenti, dal momento che non è possibile parlare di socialismo senza la classe operaia e la sua organizzazione.

Le tue impressioni sulla Festa di Avante!?
Ritorniamo rafforzati dalla Festa di Avante! Per trasmettere questa esperienza rivoluzionaria e incorporarla nelle nostre lotte in Venezuela. Ringraziamo la solidarietà del popolo portoghese, del PCP e della Festa di Avante! al processo politico venezuelano. Ne abbiamo bisogno! Siamo certi che la lotta continuerà, indipendentemente dalle difficoltà. Senza illusioni piccolo-borghesi, ma con la convinzione rivoluzionaria che il socialismo è l'unico modo per superare l'ingiustizia e le piaghe sociali del capitalismo e certi che non esiste un modello di socialismo. Dobbiamo imparare dalle esperienze degli altri.

martedì 26 settembre 2017

La Nato boccia il disarmo nucleare

 di Manlio Dinucci

  Il giorno dopo che il presidente Trump prospettava alle Nazioni Unite uno scenario di guerra nucleare, minacciando di «distruggere totalmente la Corea del Nord», si è aperta alle Nazioni Unite, il 20 settembre, la firma del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Votato da una maggioranza di 122 stati, esso impegna a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione.

Il primo giorno il Trattato è stato firmato da 50 stati, tra cui Venezuela, Cuba, Brasile, Messico, Indonesia, Thailandia, Bangladesh,  Filippine, Stato di Palestina, Sudafrica, Nigeria, Congo, Algeria, Austria, Irlanda e Santa Sede (che l’ha ratificato il giorno stesso). Il Trattato entrerà in vigore se verrà ratificato da 50 stati.

Ma il giorno stesso in cui è stato aperto alla firma, la Nato lo ha sonoramente bocciato. Il Consiglio nord-atlantico (formato dai rappresentanti dei 29 stati membri), nella dichiarazione  del 20 settembre, sostiene che «un trattato che non impegna nessuno degli stati in possesso di armi nucleari non sarà effettivo, non accrescerà la sicurezza né la pace internazionali, ma rischia di fare l’opposto creando divisioni e divergenze». Chiarisce quindi senza mezzi termini che «non accetteremo nessun argomento contenuto nel trattato».

Il Consiglio nord-atlantico esautora così i parlamenti nazionali dei paesi membri, privandoli della sovranità di decidere autonomamente se aderire o no al Trattato Onu sull’abolizione delle armi nucleari.

Annuncia inoltre che «chiameremo i nostri partner e tutti i paesi intenzionati ad appoggiare il trattato a riflettere seriamente sulle sue implicazioni» (leggi: li ricatteremo perché non lo firmino né lo ratifichino).

Il Consiglio nord-atlantico ribadisce che «scopo fondamentale della capacità nucleare della Nato è preservare la pace e scoraggiare l’aggressione» e che «finché esisteranno armi nucleari, la Nato resterà una alleanza nucleare». Assicura però «il forte impegno della Nato per la piena applicazione del Trattato di non-proliferazione nucleare».

Esso è invece violato, tra l’altro, dalle bombe nucleari statunitensi B61 schierate in cinque paesi non-nucleari – Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Le nuove bombe nucleari B61-12, che rimpiazzeranno dal 2020 le B61, sono in fase avanzata di realizzazione e, una volta schierate, potranno essere «trasportate da bombardieri pesanti e da aerei a duplice capacità» (non-nucleare e nucleare).

La spesa Usa per le armi nucleari sale nel 2018 del 15% rispetto al 2017. Il Senato ha stanziato, il 18 settembre, per il budget 2018 del Pentagono circa 700 miliardi di dollari, 57 miliardi in più di quanto richiesto dall’amministrazione Trump.

Ciò grazie al voto bipartisan. I democratici, che criticano i toni bellicosi del presidente Trump, lo hanno scavalcato quando si è trattato di decidere la spesa per la guerra: al Senato il 90% dei rappresentanti democratici ha votato con i repubblicani per aumentare il budget del Pentagono più di quanto avesse richiesto Trump.

Dei 700 miliardi stanziati, 640 servono all’acquisto di nuove armi – soprattutto quelle strategiche per l’attacco nucleare – e alle aumentate paghe dei militari; 60 alle operazioni belliche in Afghanistan, Siria, Iraq e altrove.

L’escalation della spesa militare statunitense traina quella degli altri membri della Nato sotto comando Usa. Compresa l’Italia, la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100. Democraticamente decisa, come negli Usa, con voto bipartisan.

(il manifesto, 26 settembre 2017)

domenica 24 settembre 2017

Hebron, Betlemme, viaggio nella Palestina "murata"


di Umberto De Giovannangeli

Huffington Post, 18.09.2017


HEBRON - Le parole non hanno odore. Le parole non hanno occhi. Ma è con gli occhi, attraversando strade dissestate con le fogne a cielo aperto, respirando un'aria fetida, superando reti di sbarramento, check-point sorvegliati da giovani soldati, e soldatesse, in assetto di guerra, incrociando lo sguardo di bambini ai quali è stata rubata anche l'infanzia, che è possibile cogliere appieno il senso del dramma che si consuma a Hebron.
Ottocento coloni "assediati" che tengono in ostaggio 200 mila palestinesi: è il tragico paradosso che si consuma a Hebron, la Città della Tomba dei Patriarchi (la Moschea di Ibrahim, per i palestinesi) secondo luogo sacro dell'ebraismo (dopo il Muro del Pianto a Gerusalemme), quarto, quanto a sacralità, per i musulmani (dopo Mecca, Medina e la Spianata delle Moschee a Gerusalemme). Hebron, seconda città più antica della Palestina (3.500 a.c) dopo Gerico. Hebron (Al Khalil, in arabo) è l'unica città palestinese che, invece di essere circondata dalle colonie, è essa stessa colonizzata.
Ciò che colpisce a Hebron - seconda tappa della visita in Palestina e Israele di Roberto Speranza e Arturo Scotto, coordinatori nazionali di Articolo1-Mdp - è la tensione permanente che si avverte anche in una giornata di relativa calma. La sensazione è quella di un pericolo incombente, che potrebbe fare da detonatore a una polveriera pronta ad esplodere. Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché 800 coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare 200 mila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l'essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché "questa è Eretz Israel", la Sacra Terra d'Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto.
Hebron dove la fine ebbe inizio. Quel 25 febbraio 1994, quando un medico-colono, Baruch Goldstein, si sveglia di primo mattino, indossa la divisa di militare della riserva, esce dalla sua abitazione nell'insediamento di Kiryat Arba (l'antico nome di Hebron), entra nella Tomba dei Patriarchi, luogo di culto sia per ebrei che per i musulmani, irrompe nella moschea e senza dire una parola comincia a sparare con il mitra d'ordinanza contro i fedeli in preghiera: ne uccide 29, ne ferisce altri 300, prima di essere ucciso da una folla inferocita. Quella strage insanguina l'accidentato percorso della realizzazione degli Accordi di Washington, siglati neanche un anno prima (settembre 1993) da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca (presidente era Bill Clinton). Oggi, 23 anni e sette mesi dopo, la tomba di Goldstein, a Kiryat Arba, è meta di pellegrinaggio per l'estrema destra israeliana, che ha in questo insediamento una delle sue roccaforti: Yigal Amir, il giovane zelota che assassinò il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, da studente di giurisprudenza alla facoltà di Legge dell'Università Bar Ilan di Tel Aviv, organizzava visite guidate alla tomba di Baruch Goldtesin, "martire d'Israele", c'è scritto sulla lapide. ""Baruch, re d'Israele", recita un'altra scritta. Quella che incombe su Hebron.
"Hebron – annota Scotto mentre superiamo l'ennesimo check-point che separa la parte palestinese dagli insediamenti ebraici nel cuore della città – è un pugno nello stomaco. La città vecchia e alcune strade ormai hanno acquisito un aspetto spettrale per la chiusura di botteghe e negozi. Gli insediamenti illegali ormai crescono senza soluzione di continuità. La tensione è alta e i nervi possono, nonostante il lavoro straordinario del contingente Tiph, saltare da un momento all'altro. Bisogna che si riaccendano i riflettori". Si riaccendono su una "normalità" che non disegna futuro, che fa crescere i bambini nella paura e nell'odio; una "normalità" che cancella ogni traccia di dialogo e di una pace che a Hebron suona come una parola vuota, come una illusione a cui nessuno più si aggrappa.
Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l'altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una "Fede" che non ammette compromessi. Il 31 agosto l'esercito israeliano ha reso nota la decisione di conferire l'amministrazione dei servizi municipali di Hebron anche ai coloni che vivono nella città. Immediata la reazione del governatore, Kamel Hamid, che ha decritto questa mossa come "la più pericolosa dal 1967 a oggi". Parlando alla radio ufficiale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) "La Voce di Palestina", Hamid ha spiegato che questa decisione servirà a rafforzare ulteriormente il controllo israeliano su Hebron, minando l'Anp in una città che i palestinesi sono già costretti a contendersi con la più alta concentrazione di coloni e di posti di blocco. Per questo, secondo il governatore, il passo compiuto da Tsahal porterà ad uno "stato di confusione e caos tali da minacciare l'ordine e la stabilità dell'area". Un ordine fittizio, imposto con la forza, presidiato da ragazzi in divisa a cui è affidato il compito di garantire la sicurezza degli 800 coloni. Secondo Peace Now, storica organizzazione pacifista israeliana, particolarmente impegnata nel monitoraggio degli insediamenti, "garantendo uno status ufficiale ai coloni di Hebron, il governo israeliano sta formalizzando il sistema di apartheid già vigente in città".
Il rispetto non alberga da queste parti. Il nemico non va solo combattuto, va spregiato. Non basta sbarrare le strade, militarizzare il territorio. L'odio cala anche dall'alto: dai rifiuti che i coloni scaricano dalle finestre delle loro abitazioni sulle strade del vecchio suq percorse dai palestinesi. Nel suq, israeliani e palestinesi vivono letteralmente gli uni sopra gli altri. Tutto il mercato è una serpentina di strane piene di mercanzia e ricoperte da una rete fitta e continua. Oltre la rete, basta alzare poco gli occhi, perché la rete è tanto bassa che i venditori ci appendono i vestiti in vendita, si intravedono finestre di palazzi costruiti su quelle stesse fondamenta. Sui balconi, bandiere israeliane e finestre chiusissime. Per far fronte alla "guerra dei rifiuti" sulle strade bersagliate sono state realizzate delle reti di (precaria) protezione. Alzando lo sguardo vedi vestiti vecchi, bottiglie, avanzi di cibo, scatole e anche di peggio, trattenuti dalla rete.
Vista dal vecchio suq, Hebron assomiglia ad una prigione a cielo aperto. A girare l'angolo, poi, ogni tanto, ci si ritrova la strada sbarrata dal muro e dal filo spinato. Un muro che, a differenza del resto della Cisgiordania, non circonda la città, ma sorge tra due case, o tra altri due palazzi, volto a isolare la parte della città dove abitano le comunità arabofone da quelle dove si sono insediati i coloni ebrei. E poi servono a chiudere Shuhada Street, la strada una volta cuore del mercato e del traffico cittadino, oggi completamente preclusa ai palestinesi. Al check-point, bisogna passare attraverso una porta girevole di pali di ferro e un metal detector. Subito dopo, un soldato armato di giubbotto antiproiettile, elmetto e fucile chiede i documenti da dentro un gabbiotto, mentre un altro decide chi entra e chi no. Qui, nel cuore di Hebron, anche un singolo edificio è oggetto del contendere: su uno di questi, da alcune finestre sporgono bandiere palestinesi, da altre quelle con la stella di Davide: sono quelle issate da un gruppo di coloni che, poco tempo fa, hanno occupato parte dell'edificio, proclamando che era parte di "Eretz Israel". All'ingresso dello stabile, alcuni soldati israeliani si riposano all'ombra, sorseggiando una coca.
Un avamposto di legalità è rappresentato dal TIPH (The Temporary International Presence in Hebron), la missione di osservatori internazionali che monitora, senza poter intervenire, sui fatti di violenza che investono la città. La missione è composta da 63 elementi, tra i quali 14 carabinieri italiani (forte, e non solo nel numero, è la presenza femminile). Sono alcuni di loro ad accompagnarci nella visita del centro di Hebron. I bambini palestinesi li riconoscono, si ricordano di loro, di ciò che hanno fatto (la costruzione di un centro sportivo, grazie anche la contributo della cooperazione italiana) e sorridono. Già questo è una vittoria, un gesto che dà significato ad un generoso impegno quotidiano.
La strada che da Hebron porta a Gerusalemme è un quasi ininterrotto susseguirsi di insediamenti e di un muro che li difende. Il Muro. Una presenza asfissiante che "percorre" per oltre 700 chilometri la Cisgiordania. Ed una delle città più colpite è quella della Natività. Betlemme. Trentamila persone "murate". Un senso di soffocamento che ti attanaglia appena varcato il check-point israeliano che separa Betlemme dalla vicina Gerusalemme (dieci chilometri di distanza). Il muro è alto 6 metri, neanche quello di Berlino si era elevato così tanto. Su una parte del muro due enormi murales mostrano il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. In uno dei due, Trump abbraccia e bacia una vera e propria torre di guardia dell'esercito israeliano incorporata all'interno del muro. Alcuni piccoli cuori rosa escono dalla bocca del presidente degli Stati Uniti. Nell'altro invece, "The Donald" è raffigurato con una kippah ebraica mentre appoggia una mano sul muro. Il disegno riprende una foto del presidente durante la sua visita del maggio 2017 al Muro del Pianto di Gerusalemme. Un fumetto recita: "Ti costruirò un fratello", un chiaro riferimento ai piani ai piani di Trump di costruire un muro anti-migranti tra gli Stati Uniti e il Messico.

Per la cristianità, Betlemme è il luogo della speranza, incarnatasi nel Cristo. Per i palestinesi è il simbolo di una sofferenza che prende corpo negli sguardi tristi dei bambini, che bussa ai vetri dell'auto consolare con la disperazione di venditori ambulanti che chiedono qualcosa per sfamare i loro figli (una media di sei a famiglia). Betlemme è meta dei pellegrini, ma il turismo non basta a ridar vita alla città, che pure con il Giubileo del Duemila aveva sperato di diventare una meta stabile, stanziale, pronta ad accogliere migliaia di pellegrini negli hotel che per quello storico evento erano stati costruiti. Ma l'"Intifada dei kamikaze" ha spazzato via questa speranza e Israele ha fatto il resto, estendendo la Barriera di sicurezza (il Muro dell'apartheid per i palestinesi) ben oltre i confini del '67.
Speranza e Scotto visitano Betlemme in una domenica di festa. La festa per i 25 anni di sacerdozio di padre Ibrahim Faltas, il frate coraggioso che qui è diventato una istituzione, un punto di riferimento non solo per la comunità cristiana ma anche per i musulmani, che sono in maggioranza a Betlemme. La messa che si celebra nella Basilica della Natività è un momento d'incontro che unisce laddove il muro divide. "E il riconoscimento – rimarca Speranza – a una personalità che in questi anni è riuscita a tenere insieme culture diverse, dialogo tra religioni e anche una straordinaria vicinanza alla sofferenza dei palestinesi". Ciò che colpisce di più, a Betlemme come a Hebron, è la sofferenza dei più deboli e indifesi: i bambini. Privati di tutto. Anche della loro scuola. E' quello che accade nel deserto d'Israele, nella "Scuola di gomme" – realizzato con muri rafforzati da 2200 pneumatici – nella quale studiano e si divertono 174 bambini. Bambini israeliani, beduini. "I nostri bambini – racconta Abu Kharmis, rappresentante del villaggio beduino di Khan al Ahmar – vestiti vecchi, bottiglie, avanzi di cibo, scatole... non andavano a scuola, non potevano farlo, perché la scuola più vicina era a 3-4 chilometri di distanza. Alcuni sono morti uccisi dalle auto attraversando la strada. Abbiamo chiesto un bus per i nostri bambini. Ci è stato negato. Da Israele e dall'Autorità palestinese". Ma gli abitanti di Khan al Ahmar non si sono dati per vinti."Abbiamo costruito questa scuola – racconta ancora Abu Kharmis – e l'abbiamo finita anche dopo che le autorità israeliani ci avevano ingiunto di non procedere. Sono venuti i soldati, ma noi abbiamo continuato. Per permettere ai bambini di studiare".
La "Scuola di gomme" è gestita da una Ong italiana, "Vento di Terra", grazie anche col finanziamento della Cooperazione italiana, della Cei e dell'Unione Europea. Tra una settimana, la Corte suprema israeliana emetterà la sentenza definitiva che potrebbe dare il via libera alle ruspe: quel terreno serve per farci passare una strada che unisce due insediamenti ebraici realizzati nell'area. "Ci hanno proposto di abbattere la scuola e rimontarla vicino a una discarica di Gerusalemme – racconta Abu Kharmis – ma qui è la nostra vita, non facciamo del male a nessuno, perché devono farlo ai nostri bambini?". Abu Kharmis non si fa illusione sulla sentenza ma, abbracciando una bambina dai grandi occhi scuri, dice salutandoci: "Noi resisteremo a questa ingiustizia. E un nostro diritto". Ma diritto e giustizia sono beni sempre più introvabili in Terrasanta.

Hamas si impegna a sciogliere il comitato amministrativo e a tenere elezioni

Nella foto: Ismail Haniyeh e Yahiya Sinwar, dirigenti di Hamas a Gaza

Ma’an News, 17.09.2017
 

Betlemme (Ma’an) – Hamas, il partito che di fatto governa la Striscia di Gaza, si è impegnato a sciogliere il proprio comitato amministrativo, che gestisce l’enclave costiera assediata, ed ha affermato di essere pronto a tenere elezioni generali, come passo per la riconciliazione con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Fatah.
Una dichiarazione del movimento Hamas ha affermato che la decisione è una risposta ai recenti sforzi diplomatici dell’Egitto per riconciliare le fazioni rivali, mentre il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha chiesto ad Hamas di porre fine al comitato amministrativo, di restituire il controllo del piccolo territorio all’ANP e di tenere elezioni presidenziali e legislative.
Hamas e l’ANP guidata da Fatah sono stati coinvolti in un conflitto più che decennale dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni legislative palestinesi e scoppiò un sanguinoso conflitto tra i due gruppi.
Nonostante numerosi tentativi di riconciliarli, i dirigenti palestinesi hanno ripetutamente mancato di dare seguito alle promesse di riappacificazione e di tenere le elezioni a lungo attese, in quanto entrambi i movimenti si sono spesso incolpati a vicenda dei numerosi errori politici.
Il movimento Hamas domenica ha affermato di aver sciolto il comitato amministrativo, formato all’inizio di quest’anno con grande indignazione dell’ANP, di accettare per la prima volta dal 2006 di tenere elezioni generali, di iniziare colloqui con Fatah e consentire al governo di riconciliazione nazionale di gestire Gaza.
Nell’aprile 2014 Hamas ha firmato un accordo di riconciliazione con l’OLP, che doveva preparare la strada ad elezioni generali entro la fine del 2014. Tuttavia quell’anno un devastante attacco israeliano di 50 giorni contro Gaza, così come una disputa sul pagamento dei salari a decine di migliaia di [membri delle] forze di sicurezza di Hamas, hanno bloccato subito il proseguimento dell’accordo verso la riconciliazione.
La crisi politica palestinese da allora non ha fatto che continuare a peggiorare, ed Hamas ha detto di aver formato il comitato dopo che il governo di intesa non si era preso la responsabilità dell’amministrazione di Gaza. L’ANP ha sostenuto che Hamas stava cercando di formare un “governo ombra” per rendere Gaza indipendente dalla Cisgiordania.
Negli ultimi mesi l’ANP è stata anche accusata di aver fatto cadere deliberatamente l’impoverita Striscia di Gaza ancor più in una catastrofe umanitaria – tagliando i finanziamenti per il combustibile da Israele, le medicine e i salari degli impiegati civili e degli ex-prigionieri – per strappare ad Hamas il controllo sul territorio.
Lo scorso mese Abbas ha minacciato di intraprendere ulteriori misure repressive contro il territorio impoverito se Hamas non avesse ottemperato senza condizioni alle richieste dell’ANP per porre fine al comitato amministrativo, restituire il controllo dell’enclave all’ANP e tenere elezioni presidenziali e legislative.
In seguito all’accettazione di queste condizioni basilari da parte di Hamas domenica, l’importante dirigente di Fatah Mahmoud Aloul ha detto all’agenzia di stampa Reuters di accogliere favorevolmente ma con cautela la posizione di Hamas. “Se questa è la dichiarazione di Hamas, allora si tratta di un segnale positivo,” avrebbe detto. “Noi del movimento Fatah siamo pronti a mettere in atto la riconciliazione.”
L’agenzia di stampa “Wafa”, dell’ANP, ha detto che anche il membro del comitato centrale di Fatah Azzam al-Ahmed ha plaudito alla decisione di Hamas di sciogliere il comitato amministrativo.
Al-Ahmed, che attualmente si trova al Cairo per i colloqui di riconciliazione con Hamas condotti dall’Egitto, ha detto a “Wafa” che si è tenuta una lunga riunione tra la delegazione di Fatah al Cairo e il capo dei servizi segreti egiziani, il ministro Khaled Fawzi, in cui hanno rinnovato i continui sforzi esercitati dall’Egitto per porre fine alla divisione interna palestinese.
Secondo il reportage di “Wafa” Al-Hamed ha confermato notizie secondo cui la delegazione di Fatah si è incontrata con i dirigenti di Hamas e “ha salutato l’appello di Hamas per un governo di unità che riprenda il suo lavoro normale a Gaza, così come il suo accordo per tenere elezioni presidenziali e legislative.”
Wafa” ha detto che il dirigente di Fatah ha anche affermato che ci saranno incontri bilaterali tra dirigenti di Fatah e di Hamas, seguiti da una riunione di tutte le fazioni palestinesi che hanno siglato l’accordo di riconciliazione del maggio 2011 “al fine di iniziare passi concreti per mettere in atto l’accordo,” ed ha espresso la speranza che nei prossimi giorni si possa “assistere a passi concreti e tangibili.”
Anche Nickolay Mladenov,  coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha rilasciato una dichiarazione in cui ha accolto positivamente l’annuncio di Hamas. “Plaudo al recente comunicato di Hamas in cui annuncia lo scioglimento del comitato amministrativo a Gaza e il consenso a permettere al governo di unità nazionale di prendere il controllo a Gaza,” ha affermato.
Mi congratulo con le autorità egiziane per i loro incessanti sforzi per determinare questa situazione positiva. Tutti i partiti devono cogliere questa opportunità per ristabilire l’unità ed aprire una nuova pagina per il popolo palestinese,” ha proseguito l’inviato dell’ONU. “Le Nazioni Unite sono pronte ad assistere qualunque tentativo a questo proposito. E’ fondamentale che la grave situazione umanitaria a Gaza, in particolare la durissima crisi elettrica, sia affrontata come una priorità.”
Questo sviluppo è arrivato inoltre dopo che la scorsa settimana il capo del comitato centrale del movimento Hamas Ismail Haniyeh ed altri importanti membri di Hamas si sono incontrati con funzionari dell’intelligence egiziana al Cairo, con colloqui centrati sulla disponibilità di lavorare per l’unità nazionale.
La dirigenza di Hamas ha detto agli egiziani di essere disposta a consentire al governo di riconciliazione nazionale palestinese di farsi carico di Gaza e di svolgere le elezioni, purché tutte le fazioni palestinesi tengano una conferenza al Cairo dopo l’elezione di un governo nazionale che si faccia carico della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme est.
Una fonte egiziana vicina ai servizi di sicurezza ha detto al giornale israeliano “Haaretz” che Hamas sta cercando di dimostrare all’Egitto che non sta ostacolando la riconciliazione e sta accogliendo le richieste, sperando di raccoglierne i frutti se e quando i colloqui dovessero essere messi in dubbio da parte dell’ANP.
Negli scorsi mesi Hamas ha cercato di migliorare i rapporti con il Cairo, incrementando la sicurezza sulle frontiere, compresa la costituzione di una zona cuscinetto militare, nella speranza che l’Egitto attenui l’applicazione del brutale assedio decennale israeliano del territorio ed apra il valico di Rafah.
Sabato anche una delegazione di Fatah inviata da Abbas al Cairo ha discusso dei tentativi egiziani per riconciliare i palestinesi.
Nel contempo domenica Abbas è arrivato a New York per partecipare ai lavori della settantaduesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mercoledì, prima del discorso del presidente palestinese giovedì all’ONU, incontrerà il presidente USA Donald Trump.

traduzione di Amedeo Rossi per Zeitun.info

martedì 19 settembre 2017

Il Venezuela si ribella al petrodollaro





di Manlio Dinucci


«A partire da questa settimana si indica il prezzo medio del petrolio in yuan cinesi»: lo ha annunciato il 15 settembre il Ministero venezuelano del petrolio. Per la prima volta il prezzo di vendita del petrolio venezuelano non è più indicato in dollari. 

È la risposta di Caracas alle sanzioni emanate dall’amministrazione Trump il 25 agosto, più dure di quelle attuate nel 2014 dall’amministrazione Obama: esse impediscono al Venezuela di incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti, oltre un milione di barili al giorno, dollari finora utilizzati per importare beni di consumo come prodotti alimentari e medicinali. Le sanzioni impediscono anche la compravendita di titoli emessi dalla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale venezuelana. 

Washington mira a un duplice obiettivo: accrescere in Venezuela la penuria di beni di prima necessità e quindi il malcontento popolare, su cui fa leva l’opposizione interna (foraggiata e sostenuta dagli Usa) per abbattere il governo Maduro; mandare lo Stato venezuelano in default, ossia in fallimento, impedendogli di pagare le rate del debito estero, ossia far fallire lo Stato con le maggiori riserve petrolifere del mondo, quasi dieci volte quelle statunitensi. 

Caracas cerca di sottrarsi alla stretta soffocante delle sanzioni,  quotando il prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi. Lo yuan è entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e Pechino sta per lanciare contratti futures di compravendita del petrolio in yuan, convertibili in oro. 

«Se il nuovo future prendesse piede, erodendo anche solo in parte lo strapotere dei petrodollari, sarebbe un colpo clamoroso per l’economia americana», commenta il Sole 24 Ore

Ad essere messo in discussione da Russia, Cina e altri paesi non è solo lo strapotere del petrodollaro (valuta di riserva ricavata dalla vendita di petrolio), ma l’egemonia stessa del dollaro. Il suo valore è determinato non dalla reale capacità economica statunitense, ma dal fatto che esso costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la moneta con cui si stabilisce il prezzo del petrolio, dell’oro e in genere delle merci. 

Ciò permette alla Federal Reserve, la Banca centrale (che è una banca privata), di stampare migliaia di miliardi di dollari con cui viene finanziato il colossale debito pubblico Usa – circa 23 mila miliardi di dollari – attraverso l’acquisto di obbligazioni e altri titoli emessi dal Tesoro. 

In tale quadro, la decisione venezuelana di sganciare il prezzo del petrolio dal dollaro provoca una scossa sismica che, dall’epicentro sudamericano, fa tremare l’intero palazzo imperiale fondato sul dollaro. Se l’esempio del Venezuela si diffondesse, se il dollaro cessasse di essere la principale moneta del commercio e delle riserve valutarie internazionali, una immensa quantità di dollari verrebbe immessa sul mercato facendo crollare il valore della moneta statunitense. 

Questo è il reale motivo per cui, nell’Ordine esecutivo del 9 marzo 2015, il presidente Obama proclamava «l’emergenza nazionale nei confronti della inusuale e straordinaria minaccia posta alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati uniti dalla situazione in Venezuela». 

Lo stesso motivo per cui il presidente Trump annuncia una possibile «opzione militare» contro il Venezuela. La sta preparando lo U.S. Southern Command, nel cui emblema c’è l’Aquila imperiale che sovrasta il Centro e Sud America, pronta a piombare con i suoi artigli su chi si ribella all’impero del dollaro.

 
 

lunedì 18 settembre 2017

L'ARTICOLO DEL GRANDE GIORNALISTA ROBERT FISK SUBITO DOPO IL MASSACRO DI SABRA E SHATILA



di Robert Fisk 

settembre 1982

Roma, 17 settembre 2014, Nena News – 

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.

Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.


All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.


Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.


Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.

Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.

Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.