mercoledì 21 febbraio 2018

ALTRE PROVE DEI RAPPORTI TRA NAZISTI ED EBREI SIONISTI



di Yakov M. Rabkin (*)

Il genocidio nazista non servì che a rafforzare la determinazione dei leader sionisti a ottenere uno Stato ebraico: e anzi, fornì loro un argomento dotato di singolare potenza.
In una certa misura, tra il movimento sionista e il nazionalsocialismo esisteva un’affinità concettuale, anche se non politica: entrambi consideravano gli ebrei come un popolo straniero che non si sarebbe mai assimilato e per il quale non vi era posto in Europa. Il rabbino Joachim Prinz, militante sionista in Germania, salutò l’ascesa dei nazisti al potere celebrando «la fine del liberalismo» nel suo libro Wir Juden («Noi ebrei»), pubblicato a Berlino nel 1934.  In seguito, dalla sicurezza del suo rifugio britannico, confermò che i nazisti riservavano un trattamento di favore ai sionisti, in netto contrasto con quello inflitto agli altri ebrei.  Dopo essere emigrato negli Stati Uniti portò avanti tanto la sua vocazione rabbinica quanto il suo coinvolgimento nel movimento sionista, fino a ricoprire la carica di presidente di diverse organizzazioni ebraiche negli anni Sessanta.
Per assicurarsi la cooperazione delle autorità naziste, in Germania i sionisti esibivano orgogliosamente la propria devozione per la loro forma di nazionalismo. Fu in questa prospettiva che Kurt Tuchler, membro della Federazione Sionista Tedesca, invitò il barone Leopold Edler von Mildenstein, alto ufficiale delle SS, a redigere un articolo filo-sionista per la stampa nazista. Il barone, «un fervente sionista»  che partecipava ai congressi sionisti e che in seguito avrebbe reclutato Adolf Eichmann nel Dipartimento Ebraico del Sicherheitsdienst (SD, il servizio di sicurezza nazista), accettò la proposta – a condizione di poter prima visitare le colonie sioniste in Palestina. I due, accompagnati dalle loro consorti, partirono pochi mesi prima della conquista del potere da parte di Hitler: 

Ciò che li aveva spinti a intraprendere insieme questo viaggio in Palestina era il loro desiderio comune, benché motivato da obiettivi diversi, di rendere la Germania «ripulita dagli ebrei» – o, secondo l’espressione usata dai nazisti, judenrein. Se i nazionalsocialisti non avevano ancora escogitato una soluzione per la «questione ebraica», i sionisti, con la loro aspirazione a creare una patria ebraica e il loro impulso all’emigrazione ebraica in Palestina, avevano la risposta. (1)

Il barone fu di parola; dopo la sua visita, nell’autunno del 1934, una serie di articoli fece la sua comparsa sul quotidiano Angriff («l’assalto»), fondato da Joseph Goebbels nel 1927 (che cessò le pubblicazioni nel maggio 1945, letteralmente sotto il fuoco dei carri armati sovietici nelle strade di Berlino), che aveva svolto un ruolo cruciale per l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti.  Dopo la guerra Tuchler – che si era stabilito in Palestina alla fine degli anni Trenta – e von Mildenstein riallacciarono la loro amicizia e trascorsero insieme le vacanze estive sulle Alpi. I sionisti conclusero inoltre un accordo con Hitler per il trasporto in Palestina di decine di migliaia di ebrei tedeschi e dei relativi capitali, in violazione dell’embargo economico comminato contro la Germania nazista.  
Se durante il conflitto la leadership sionista non ebbe alcuna fretta di riconoscere le proporzioni delle stragi naziste, l’insegnamento che ne trasse fu semplice e immediato: era indispensabile ottenere uno Stato a qualunque prezzo, rafforzarlo e popolarlo di ebrei contro ogni forma di resistenza araba. La Dichiarazione d’Indipendenza israeliana è esplicita: «La catastrofe che ha recentemente colpito il popolo ebraico – il massacro di milioni di ebrei in Europa – ha costituito un’ulteriore chiara dimostrazione dell’urgenza di dare soluzione al problema della sua mancanza di una patria, ripristinando in Eretz-Israel lo Stato ebraico». Per citare lo storico israeliano Moshe Zimmerman:

La Shoah è uno strumento di cui ci si serve con frequenza. Con un certo cinismo, si è tentati di aggiungere che il genocidio nazista è uno degli oggetti che meglio si prestano alla manipolazione dell’opinione pubblica, e del popolo ebraico in particolare, sia in Israele sia all’estero. Nella politica israeliana, l’insegnamento che viene opportunamente tratto dalla Shoah è che un ebreo disarmato equivale a un ebreo morto.  (2)

(*) Questo brano è tratto dal libro Capire lo Stato di Israele Ideologia, religione e società, di prossima pubblicazione prtesso l'editore ZAMBON. 

(1) Jacob Boas, «A Nazi travels to Palestine», History Today, vol. 30, n. 1, 1980, pp. 33-39.

(2) Moshe Zimmerman, cit. in Leibowitz, Peuple, Terre, État, cit., p. 61.

domenica 18 febbraio 2018

IL BUGIARDO NETANYAHU


di Yakov M. Rabkin

Nel 2010, in un discorso ufficiale pronunciato a Washington, il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu respinse l’accusa secondo cui «gli ebrei sono colonialisti stranieri nella loro stessa patria [come] una delle grandi menzogne dei tempi moderni»: 

Nel mio ufficio c’è un anello con sigillo che ho avuto in prestito dal Dipartimento Israeliano delle Antichità. L’anello è stato rinvenuto vicino al Muro Occidentale, ma risale a qualcosa come 2800 anni fa, duecento anni dopo che re Davide fece di Gerusalemme la nostra capitale.
L’anello reca il sigillo di un funzionario ebreo, e su di esso è inciso in ebraico il suo nome: Netanyahu. Netanyahu Ben-Yoash. È il mio cognome. Il mio nome, Beniamino, risale a 1000 anni prima – a Beniamino figlio di Giacobbe.  

Molti osservatori fecero notare, tuttavia, che il cognome originale della famiglia del primo ministro era Mileikowsky. Suo padre, nato nell’impero russo nel 1910, come molti sionisti adottò lo pseudonimo «Netanyahu» (Dono di Dio), in origine come nom de plume.  Negli anni Settanta, che trascorse negli Stati Uniti, il futuro primo ministro abbreviò il suo cognome in «Nitai», un altro pseudonimo letterario utilizzato da suo padre che sarebbe risultato più facile da pronunciare per gli americani. Ma è la sostanza dell’argomentazione, e non le sottigliezze dei mutamenti di nome, a evidenziare l’uso politico e astorico dell’archeologia – così come della Bibbia – nel discorso sionista. 
Riguardo allo stesso tema, l’intellettuale israeliano Amnon Raz-Krakozkin ha messo in luce in modo calzante e conciso il paradosso professato dai fondatori del sionismo: «Dio non esiste e ci ha promesso questa terra».
Ma il richiamo alla promessa divina è stato ed è tuttora efficace dinanzi a un pubblico di fede protestante. Se Ben-Gurion, brandendo la Bibbia, riuscì ad accattivarsi le simpatie della Commissione Peel nel 1936,[1] Binyamin Netanyahu, appellandosi alla promessa divina, è riuscito a strappare una standing ovation in entrambe le camere del Congresso USA nel 2011.





La citazione è tratta dal libro di Rabkin "What is modern Israel?"

giovedì 15 febbraio 2018

Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale


di Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.





Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina.


Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.


Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

Una balbettante risposta ad un rifugiato palestinese


di Gideon Levy

4 febbraio 2018,Haaretz

Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione di Israele ed i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia.

AMMAN – A me è sembrato che l’uomo tremasse quando ha chiesto di parlare. Sembrava agitato. Voleva solo chiedere: “Come vi sentite vivendo in Israele, sulla nostra terra e nelle nostre case?” Una kefiah sulle spalle (il solo nella stanza ad indossarla), è il proprietario di un’agenzia giordana di pubbliche relazioni, un uomo anziano con i capelli brizzolati. Gli organizzatori avevano esitato ad invitarlo. È conosciuto come l’estremista del gruppo. Io ero felice che fosse venuto. Dice che non aveva mai incontrato un israeliano nella sua vita. Sua moglie non c’era; non aveva trovato il coraggio di venire.

La sera di martedì scorso l’ampia sala dell’appartamento nel quartiere occidentale Al Rabieh di Amman era gremito di rifugiati palestinesi – quelli nati sull’altro lato del fiume Giordano. Si incontrano una volta a settimana, ogni volta in una casa diversa, anziani cittadini borghesi invecchiati comodamente nel loro esilio. Alcuni sono stati espulsi o sono fuggiti dal loro Paese da bambini nel 1948; altri lo hanno dovuto fare nel 1967. Da allora si sono fatti una loro vita; sono gente che si è costruita una vita da benestanti. Alcuni di loro leggono Haaretz in inglese. Per la maggior parte hanno dato un taglio al passato e sono andati avanti.

Ma nessuno ha dimenticato e forse nessuno ha neppure perdonato. In Israele non hanno mai capito la forza di questi sentimenti e quanto siano profondi. Si possono accusare i palestinesi di crogiolarsi nel passato, si può sostenere che hanno avuto un ruolo nel decidere del proprio destino – ma non si possono ignorare i loro sentimenti.

Non sono possibili paragoni storici: è difficile paragonare l’espulsione di nativi centinaia di anni orsono all’espulsione di un popolo che ricorda ancora la propria casa in cui ora vivono degli stranieri. Gli ebrei d’Europa e dei Paesi arabi hanno ottenuto una nuova patria ed alcuni di loro hanno ricevuto addirittura un risarcimento. Non vale nemmeno la pena di discutere il maldestro confronto con una manciata di coloni evacuati.

La domanda è sorta nella sala del defunto “artista nazionale” palestinese Ismail Shammout e della sua vedova, l’artista Tamam al-Akhal, risuonando tra i muri coperti di quadri. Per un attimo la cruciale domanda resta là, messa a nudo: Com’ è vivere sulla terra rubata ad altri?

Un penoso silenzio è caduto nella stanza. Alcuni si sono sentiti a disagio. Non è bello mettere così in imbarazzo i propri ospiti.

Non so se ci sia una risposta. Bisogna riconoscerlo. Per la destra israeliana, i nazionalisti e i razzisti, per quelli che credono che questa terra appartenga agli ebrei perché Abramo è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha promesso, non è un problema rispondere. Si può anche sostenere che gli ebrei hanno sempre sognato questa terra, ma il fatto è che non si sono mai preoccupati di stanziarsi qui in massa. Si potrebbe dire – giustamente – che gli ebrei non avevano dove fuggire durante l’Olocausto. Ma queste non sono risposte per l’artista Akhal, nella cui casa d’infanzia a Jaffa vive un’artista israeliana, una donna che molti anni dopo l’ ha cacciata via e non le ha neanche permesso di vedere la casa.

Chi ha posto la domanda l’ ha ribadita: “Voglio capire come vi sentite vivendo in Israele.” Io ho risposto che mi sento molto in colpa verso il suo popolo, e provo anche vergogna. Non solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione del 1948 e che non è mai cessata.

Poi gli ho parlato di mio padre, che è stato gettato tra le onde in una barca illegale di migranti e di mia madre, che è venuta in Israele attraverso ‘Youth Aliyah’ [organizzazione sionista che ha salvato migliaia di bambini ebrei durante il nazismo portandoli in Palestina, ndtr.]. Non avevano altro luogo in cui fuggire se non questo Paese, che all’epoca non era il loro. Ed io non ho dove andare, perché questo Paese è oggi anche il mio Paese. “Ma voi tutte le mattine nuotate in una piscina su una terra che non vi appartiene”, ha insistito l’uomo. Io sono stato zitto.

Quale dovrebbe essere la risposta? Per loro questa è la loro terra che gli è stata tolta con la forza. Non si può negarlo. Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione dello Stato, anche se ciò era inevitabile e persino giustificato. Dobbiamo imparare a convivere con questo. E soprattutto dobbiamo trarre l’unica conclusione che ne emerge con forza: i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia, attraverso l’inizio di un nuovo capitolo, costruito interamente sull’uguaglianza in questa terra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

mercoledì 14 febbraio 2018

BRASILE: O CARNEVAL CONTRO IL GOVERNO



di Livio Zanotti

Brasile, Carnevale 2018

Specchio dell’umore popolare, il carnevale brasiliano lo è sempre stato. E non mancava certo l’irriverenza verso il potere. Il suo sincretismo declinava però soprattutto religione e magia, desideri di favelas con sfoggi e sfavillii da quartieri alti, favola e realtà. Il carattere sovversivo del carnevale risale alle sue antichissime origini nell’Oriente mesopotamico. Tuttavia i samba, colonna sonora dei cortei mascherati che a ogni febbraio scendono dalle colline coperte di lamiere e mattoni fin giù per la città asfaltata, con luci e marciapiedi, cantavano l’allegria e la tristezza, l’amore e il tradimento, non la questione sociale. Era l’innata dolcezza del carattere brasiliano in vacanza dalle sofferenze della vita quotidiana!


Quest’anno, alto come un altro dei grattacieli di San Paolo, un carro mostra draghi fiammeggianti che sembrano divorare ballerini in tuta operaia, mentre nessuno li difende come la leggenda medievale racconta che abbia invece fatto San Giorgio con i popolani del suo tempo. Se a qualcuno sfuggisse il riferimento alla cosiddetta flessibilizzazione del lavoro compiuta dall’attuale governo del presidente Michel Temer, i ballerini invocano come in una giaculatoria il “sacro-santo Lavoro”. E denunce dell’inflazione, della corruzione che investe Presidente e ministri riecheggiano ancor più corrosive in migliaia delle feste di strada (400 solo a Rio) che percorrono il Brasile intero, dal Nordeste al Paranà.

Ballerina CarnevaleA Rio, l’immagine del governo, sia nazionale sia locale, non era mai entrata tanto malridotta sulle piste del Sambodromo, affollatissimo ma solo nei posti meno costosi. Un gigantesco vampiro assetato e lordo di sangue umano, ha il volto del presidente Temer. Avvertito per tempo e timoroso di fare la medesima fine, il sindaco Marcelo Crivella, un politico proveniente dalla destra evangelica, della cui chiesa è stato in passato anche vescovo officiante, ha disertato l’apertura del Carnevale e tagliato i fondi municipali che concorrono a finanziarlo. E’ peggio che se il sindaco di Milano non si facesse vedere all’inaugurazione della Fiera. Quella del travestimento carioca, è la più famosa, richiama per due settimane masse di turisti da ogni continente e costituisce un affare valutato un miliardo di euro.


La escola da Mangueira, di straordinario prestigio, ha risposto scegliendo di tornare all’antico e al risparmio, rinunciando alle costose tecnologie che negli ultimi tempi hanno trasformato in uno spettacolo hollywoodiano la festa più popolare del Brasile. “E’ giunta l’ora di cambiare/ Alta la bandiera del Samba/ Illuminiamo le coscienze…”, recita il refrain delle note che accompagnano e identificano la sfilata dei suoi carri. E’una scelta culturale e una rivendicazione d’identità non solitarie. Altrettanto, più o meno, hanno fatto le non meno famose Beija Flor e Portela, questa ultima vincitrice della scorsa edizione. Entrambe caricando di messaggi drammatici contro la xenofobia, le nuove schiavitù, le violenze a donne e bambini, le acrobazie da Cirque du Soleil e gli sgargianti piumaggi dei loro stupendi corpi da ballo.

Ballerina al Carnevale“Mostro è colui che nega l’amore, che abbandona i propri figli…”, cantano allo Stato-Frankstein che compie 200 anni. I neri che disperati si dibattono vanamente per liberarsi dalle catene dei loro bisogni, mimano gli ebrei olandesi cacciati nel 1600 dal Pernambuco. Ma alludono a tutti i migranti di oggi, ai quali il governo vuole adesso chiudere le porte del gigantesco paese sudamericano: haitiani, venezuelani, angolani, siriani, iracheni. Sono i malanni dell’attuale Brasile, e non solo suoi. Né a metterli in musica è esclusivamente il samba, che pure domina e non potrebbe essere diversamente la rassegna musicale. Anche Rock, Pop, Funk trovano posto nello spartito di queste sfilate che non rinunciano a esibire le pelli tirate a lucido delle sue affascinanti mulatte, al bacio saffico, all’esaltazione dei corpi. Ma la cui anima si esprime oggi essenzialmente nello spirito di protesta dei comitati di quartiere, nuovi custodi del Carnevale brasiliano.

Israele ha creato una nuova categoria di terrorismo


di Amira Hass

FEBBRAIO 4, 2018

|30 gennaio, 2018 | Haaretz

Sul sito della Knesset compare una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore.” Quelli condannati in anticipo comprendono l’Autorità Nazionale Palestinese, i beduini e l’Unione Europea.

Coerenza esige che durante il loro viaggio a Bruxelles questa settimana, i delegati israeliani presentino alla responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, una convocazione al commissariato di polizia di Ma’aleh Adumim per essere interrogata su una sospetta attività terroristica.

Con una mano i rappresentanti israeliani, per via dei loro subappaltatori palestinesi, riceveranno un lauto assegno dall’UE per compensare l’ingente taglio di Donald Trump al finanziamento all’Autorità Nazionale Palestinese e all’UNRWA. (Vedi sotto: “Il taglio al finanziamento dell’ANP indebolisce il coordinamento della sicurezza”). Con l’altra mano consegneranno la convocazione per indagare su una sospetta attività e aiuto al terrorismo.

Per via di Auschwitz o a causa dei legami scientifici e militari con Israele, i rappresentanti europei accetteranno la convocazione con un sorriso. “Abbiamo sempre saputo che gli ebrei hanno uno sviluppato e alto senso dell’umorismo” diranno.

Ma si sbagliano. Questo non è uno scherzo. Si preparano altre espulsioni. Sul sito della Knesset è comparso una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore”. Quelli condannati in anticipo comprendono l’ANP, i beduini e l’Unione Europea. Il pubblico ministero, il giudice ed esecutore è il parlamentare Moti Yogev di Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, il partito di estrema destra dei coloni ndt] che è anche presidente della sottocommissione del Comitato per la politica estera e la difesa della Knesset per l’espulsione dei palestinesi, anche conosciuta come sottocommissione per gli affari civili e la sicurezza nella Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania ndt]

Egli ha dichiarato che la costruzione palestinese nella Cisgiordania costituisce “terrorismo” quando avviene nel territorio che Israele con scaltrezza ha trasformato in un altro macigno sulla nostra esistenza – l’area C, nella quale ogni tenda, recinto per animali e condotto dell’acqua richiede un permesso israeliano di costruzione che non è mai concesso. Chiunque voglia alloggiare una giovane coppia in una stanza di sua proprietà, o ricostruirne una in pessime condizioni, [sostituire] una tenda fallata, o costruire un’aula di un asilo, è costretto a violare le leggi del padrone.

Giovedì scorso, la sottocommissione per le espulsioni era fuori di sé per la gioia: nel 2017 ci sono stati progressi nelle demolizioni di strutture palestinesi nell’area C, alcune delle quali costruite con finanziamento europeo. Nelle audizioni della commissione i parlamentari non si sono mai stancati di sottolineare la faccia tosta europea di finanziare strutture. Creando una realtà immaginaria con la loro terminologia, hanno definito le strutture “caravillas” [assente nel vocabolario inglese da assimilare a baracche ndt]. Le comunità palestinesi vengono chiamate “avamposti” e la loro presenza per decenni in questo territorio, “una sopraffazione”. Il territorio occupato [da Israele] è definito “territorio dello Stato”.

Abbiamo inventato il termine “terrorismo popolare” per descrivere le manifestazioni dei civili contro i nostri soldati armati. Abbiamo criminalizzato il BDS come terrorismo anche se il boicottaggio è lo strumento più antico nella storia della lotta nonviolenta contro i regimi oppressivi. Abbiamo chiamato “atto di guerra l’uso di istanze legali ”, quando i palestinesi hanno osato presentare il loro caso ai tribunali internazionali. Ora abbiamo anche accusato di terrorismo chiunque costruisca una scuola o una latrina. Presto li accuseremo di terrorismo per la loro tenace insistenza a respirare.

La riunione di giovedì scorso era incentrata sulla comunità [beduina] Jahalin che ha costruito una scuola con vecchi copertoni in un’area dove vivono da decenni, ma che la colonia di Kfar Adumim desidera [incamerare]. L’Amministrazione Civile [è l’istituzione israeliana che sovrintende al posto del potere militare, ndt] è determinata a deportare con la forza la comunità in un’area assegnata a loro a Abu Dis contro il parere di Abu Dis.

L’oratore più esplicito nella riunione è stato probabilmente il vice sindaco di Ma’aleh Adumim Guy Yifrah. Nell’interesse di espandere la sua colonia negli anni novanta , durante i negoziati di Oslo, i nostri soldati e burocrati hanno espulso centinaia di appartenenti alla tribù Jahalin dalle terre su cui hanno vissuto fin da quando furono espulsi dal Negev dopo il 1948.

Sono stati scaricati su una terra accanto alla discarica di Abu Dis. Ora, il vice sindaco ha detto che dare persino più terra nella stessa area a un altro clan della stessa tribù sarebbe un errore. “ Potrebbe far pensare ai Jahalin che stanno vicino a Ma’aleh Adumim , che lo Stato si è riconciliato con la loro residenza lì.”

Cosa stava dicendo esattamente? Che in effetti lo Stato non si è riconciliato con la loro presenza anche a Abu Dis. Il signor Yifrah ci sta dicendo che l’espulsione pianificata deve essere un altro passo verso l’espulsione finale in una località ignota.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

martedì 13 febbraio 2018

A chi sono utili le «inutili guerre»?


di Manlio Dinucci

il manifesto, 13 febbraio 2018

La canzone meritoriamente vincitrice del Festival di Sanremo è accompagnata da un videoclip che mostra drammatiche scene di guerra e attentati in un mondo in cui la vita, nonostante ciò, deve andare avanti «perché tutto va oltre le vostre inutili guerre». Proviamo a sostituire al videoclip un docufilm degli ultimi fatti.

In Europa la Nato sta schierando crescenti forze (comprese quelle italiane) sul fronte orientale contro la Russia, presentata quale minacciosa potenza aggressiva. Nel quadro di un riarmo nucleare del costo di 1.200 miliardi di dollari, gli Stati uniti si preparano a schierare dal 2020 in Italia, Germania, Belgio e Olanda, e probabilmente anche in Polonia e altri paesi dell’Est, le nuove bombe nucleari B61-12, di cui saranno armati i caccia F-35.

Alle esercitazioni di guerra nucleare partecipa l’Aeronautica italiana, che lo scorso settembre ha inviato un suo team presso il Comando strategico degli Stati uniti.

Gli Usa accusano inoltre la Russia di schierare sul proprio territorio missili a raggio intermedio con base a terra, in violazione del Trattato Inf del 1987, e si preparano a schierare in Europa missili analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta.

Si crea in tal modo un confronto militare analogo a quello della guerra fredda, che accresce l’influenza Usa in Europa e ricompatta gli alleati nella comune strategia mirante a mantenere la supremazia in un mondo che cambia.

Ciò comporta una crescente spesa militare: l’Italia la porterà da 70 a 100 milioni di euro al giorno; la Spagna a 50 milioni con un aumento del 73% entro il 2024; la Francia la accrescerà del 40% superando i 135 milioni al giorno. Per potenziare il proprio arsenale nucleare la Francia spenderà 37 miliardi di euro entro il 2025.

Affari d’oro per le industrie belliche: il rendimento azionario della maggiore del mondo, la statunitense Lockheed Martin, è aumentato dell’84% in tre anni.

Funzionali ai potenti interessi che alimentano l’escalation Usa/Nato sono le formazioni neonaziste ucraine, addestrate da istruttori Usa trasferiti da Vicenza. L’Ucraina di Kiev, dove convergono militanti da altri paesi, è divenuta il «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa (ma di questo in Italia praticamente non si parla).

In Medioriente, fallito in seguito all’intervento russo a sostegno di Damasco il piano Usa/Nato di demolire lo Stato siriano come già fatto con quello libico, è in corso il tentativo, coordinato con Israele, di balcanizzare il paese strappandogli pezzi del territorio nazionale.

In una audizione al Congresso Usa, il 6 febbraio scorso, l’ambasciatore (a riposo) Robert Ford ha dichiarato che, per le operazioni militari e «civili» in Siria, nella cui parte orientale operano oggi circa 2.000 militari Usa, gli Stati uniti hanno speso dal 2014 12 miliardi di dollari (in gran parte per armare e sostenere movimenti jihadisti allo scopo di scardinare lo Stato dall’interno).

In Asia orientale – sottolinea la «National Defense Strategy 2018» del Pentagono – gli Stati uniti hanno di fronte «la Cina, un competitore strategico che usa una economia predatoria per intimidure i suoi vicini, mentre militarizza sotto diversi aspetti il Mar Cinese Meridionale». Il Pentagono sta esaminando un piano per inviare in Asia Orientale una forza di reazione rapida del Marines, pesantemente armata.

Perdendo terreno sul piano economico rispetto alla Cina, gli Stati uniti mettono in campo la loro forza militare. Creano così nuove tensioni nella regione, non a caso nel momento in cui vi sono segnali distensivi tra le due Coree. Lo sbocco può essere un’altra guerra, non «inutile» ma utilissima alla strategia dell’impero.

sabato 10 febbraio 2018

UN'ALTRA GUERRA NON NECESSARIA


di Idan Landau 

Un evento terribile sta per accadere: Israele lancerà presto un'operazione militare in Libano. Non un attacco mirato su un convoglio o una fabbrica di armi, ma un attacco simultaneo alla produzione di missili e ai siti di lancio di Hezbollah. L'operazione avverrà contemporaneamente o immediatamente dopo una serie di omicidi di noti agenti di Hezbollah. Questa organizzazione reagirà, naturalmente, lanciando una massiccia raffica di missili nei centri abitati in Israele, e Hamas potrebbe contribuire con la sua quota nel sud. La settimana scorsa siamo stati informati che i sistemi di intercettatori missilistici sono già stati dispiegati in tutto il paese come parte di una "esercitazione" congiunta tra l'esercito israeliano e l'esercito americano. Washington ha già dato il via libera, o almeno così apprendiamo dall'ultimo articolo di Thomas Friedman, fedele portavoce della politica estera americana. 



In questo evento ben orchestrato, i portavoce di Israele suonano una sola melodia: l'Iran e gli Hezbollah hanno attraversato una linea rossa, e se il loro protettore russo non li trattiene (il nocciolo del coordinamento di sicurezza Israele-Russia), Israele colpirà duramente (e lo farà perché i russi non possono trattenerli). Il ministro della difesa Liberman promette che "tutta Beirut si nasconderà nei rifugi antiaerei", mentre il ministro Naftali Bennett ha promesso che) "i libanesi pagheranno il prezzo" (una esplicita minaccia per commettere crimini di guerra). Naturalmente questa è anche l'ora più bella dei generali in pensione che ora possono parlare liberamente. "L'Esercito Israeliano userà molta forza. Questi luoghi saranno distrutti quasi completamente, "promette il Gen. Noam Tibon. Il Gen. Amiram Levin ha gettato benzina sul fuoco: "Il Libano sarà distrutto". 

Quale "linea rossa" è stata attraversata questa volta? Secondo Israele, è stata la creazione di una fabbrica di missili iraniana nel territorio libanese. Per quanto ricordo, Israele ha almeno tre fabbriche che producono missili guidati con precisione (Rafael, IAI ed Elbit), ma questo non è apparentemente un pretesto sufficiente per un attacco libanese. Tali pretesti sono solo un privilegio israeliano. Israele ha a lungo messo in guardia il suo vicino contro l'acquisto di armi (missili a lungo raggio e guidati con precisione), e sta attento a distruggere i convogli che trasferiscono tali armi in Libano. 

Questo è, a dir poco, orwelliano. Non esiste un "equilibrio" tra la precisione dei missili israeliani e quelli nelle mani di Hezbollah. Le armi "rimuovendo gli equilibri di potere" nelle mani dell'organizzazione ristabiliscono l'equilibrio. Ma un vero equilibrio tra la capacità di deterrenza di Hezbollah e quella dell'IDF è un pensiero intollerabile per i vertici di comando della difesa israeliana. Pertanto, è necessario bombardare qualsiasi segno di armi che "rimuova l'equilibrio del potere" - un attacco progettato per distruggere l'equilibrio tra le due parti. Questo ciclo è autodistruttivo per Israele. I commentatori vedono ancora chiaramente che questa è una guerra di scelta. "Israele sta scalando un cavallo alto", scrisse Alex Fishman a Yedioth Ahronoth il mese scorso, "e si sta avvicinando con passi da gigante a una ‘ guerra di scelta’: senza parole minatorie, è una guerra iniziata in Libano." Si è scritto sul rischio putativo di Hezbollah che spara per primo, come ha commentato Edelist Ran di Maariv: "Non c'è pericolo di guerra, Hezbollah non ha alcun motivo o intenzione di andare in guerra contro un nemico che lo travolgerà facilmente dopo alcuni giorni di battaglia." Ben Caspit ha anche scritto su una giusta prospettiva di una "guerra di scelta", mentre un editoriale di Haaretz ha scritto quanto segue: 

Il governo israeliano deve quindi ai cittadini israeliani una spiegazione precisa, pertinente e persuasiva del motivo per cui una fabbrica di missili in Libano ha cambiato l'equilibrio strategico fino al punto di giustificare l’entrata in guerra. Deve presentare valutazioni all’opinione pubblica israeliana in merito al numero atteso di vittime, danni alle infrastrutture civili e al costo economico dell'andare in guerra, rispetto al pericolo rappresentato dalla costruzione della fabbrica di missili. 

Prestate attenzione a questo tono diffidente. Ricordatelo e confrontatelo con il tono dei commentatori dopo che il primo missile è atterrato e ne ha provocato la causalità. Quando Israele è sul  "piede di guerra", i giornalisti indossano i loro giubbotti da battaglia e salutano la bandiera. Anche coloro che dubitavano del ragionamento iniziale dell'operazione lo giustificherebbero apertamente di fronte alle vittime. Siamo sempre stati in guerra con la fabbrica di missili iraniana, ci diranno a denti stretti. E naturalmente, quando i cannoni ruggiscono, devi stare zitto. Perché? Per non fermare il flusso di vittime. 


Un messaggio contro la guerra di "Yesh Gvul", un'organizzazione di soldati israeliani che si è rifiutata di prestare servizio nella prima guerra del Libano: 

vieni qui, aereo 
portaci in Libano, 
lotteremo per Sharon
e torneremo in una bara 

Israele ha una lunga storia di fabbricazione di "motivi di guerra". La cospirazione israelo-britannico-francese (il Protocollo di Sèvres) che ha portato alla campagna del Sinai è stato nascosto al pubblico per molti anni; invece il governo ricorse alla scusa di "prevenire l'infiltrazione di terroristi dal Sinai". Il piano di battaglia di Oranim per la prima guerra del Libano, che cercava di sostituire il governo a Beirut, era nascosto al pubblico. Invece il pretesto per l'invasione sarebbe stato la rimozione di Fatah dall'area a 40 chilometri a nord del confine. 



L'escalation che portò alla Guerra dei Sei Giorni fu in gran parte il frutto dell'aggressione israeliana contro la Siria - come dimostrano le dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa Moshe Dayan e David Ben Gurion nelle settimane prima della guerra (documentate nel libro di Tom Segev, 1967, e nella ricerca di Guy Laron). La causa ufficiale fu la chiusura dello stretto di Tiran da parte di Nasser. Ma il capo di gabinetto dell'IDF Rabin ha rivelato al governo di Eshkol che Nasser aveva promesso di consentire alle navi israeliane di attraversare lo stretto accompagnato da navi da guerra americane, e ha sottolineato ai membri del governo che si trattava di informazioni "top secret" che non dovevano essere trapelate , poiché avrebbero minato in larga misura le "basi" della guerra. 

Torniamo alla menzogna della "deterrenza" contro Hezbollah. Nel suo articolo Fishman osserva: "La deterrenza classica è quando minacci un nemico per non farti del male nel tuo territorio, ma qui Israele richiede che il nemico si astenga dal fare qualcosa nel suo territorio, altrimenti Israele lo danneggerà. Dal punto di vista storico e dal punto di vista della legittimità internazionale, le probabilità che questa minaccia venga accettata come valida, portando alla cessazione delle attività nemiche nel proprio territorio, sono scarse. "Ho già scritto sulla distorta percezione della" deterrenza israeliana ": 

Quale altro paese al mondo vede l'armamento dei suoi rivali come pretesto per un attacco militare? Non c'è quasi nessun esempio nella storia militare israeliana prima degli anni 2000. Per molti anni, gli eserciti arabi si sono equipaggiati fianco a fianco assieme all'armamento israeliano (a volte grazie alle tasche gonfie dello zio Sam). Israele non ha mai considerato questo un pretesto per bombardare il Cairo o Damasco. Solo Hamas e Hezbollah devono accontentarsi di archi e frecce contro la tecnologia letale dell'esercito israeliano. I paesi che si sentono minacciati dall'armamento dei loro nemici fanno questo: o si armano meglio (e Israele non deve affrontare concorrenti in questo senso) o riducono il livello di rischio attraverso accordi di riconciliazione e non aggressione (a questo riguardo, siamo ignoranti.) L'audacia di esigere che il nemico non osasse armarsi è un'imprevedibile insolenza israeliana.   

Direte: missili a lungo raggio che mettono in pericolo la popolazione civile hanno cambiato le regole del gioco e il nostro livello di tolleranza. Ma ancora una volta, questo gioco è reciproco, e Israele possiede anche tali armi - spesso più efficaci e letali di quelle dei suoi avversari. In qualche modo, l'acquisizione da parte di Israele di armi che mettono in pericolo la vita di ogni arabo in Medio Oriente non è percepita dai paesi arabi come un "capovolgimento del potere" che giustifica il lancio di missili all'aeroporto di Ben-Gurion o nel quartier generale della difesa Kirya nel cuore di Tel Aviv. 

Considerate il seguente pensiero sovversivo: in assenza di un accordo di non belligeranza tra Israele e Hezbollah, il consolidamento militare di quest'ultimo riduce il rischio di guerra nel nord. La logica semplice deriva dalla teoria dei giochi. Finché c'è un enorme divario tra l'esercito israeliano e Hezbollah, Israele può permettersi di attaccare obiettivi in Siria e in Libano dozzine di volte senza temere di mettere in pericolo il fronte interno. 

Questa è un'illusione, una rigidità strategica i cui limiti sono stretti come i mirini di un fucile. Questi attacchi aumentano il livello di ostilità e alimentano la motivazione del nemico a vendicarsi - un fattore che non viene mai capito abbastanza bene dall'istituzione della difesa. L'aggressiva "deterrenza" di Israele, l'assoluto disprezzo per la sovranità libanese, semina la futura calamità. E così, abbiamo raggiunto questa situazione esplosiva in cui Hezbollah ha tutte le ragioni per contrattaccare. E quindi, naturalmente, è necessario un nuovo colpo preventivo, questa volta molto più grande, che rischia di portare alla guerra. D'altra parte, in uno scenario in cui Hezbollah acquisisce capacità per minacciare realmente il fronte interno israeliano - centinaia e migliaia di missili di precisione a lungo raggio - l'esercito israeliano avrà paura di colpire per primo. La leggerezza insopportabile di violare la sovranità libanese attraverso attacchi aerei e bombardamenti si fermerà. Infine, Israele sarà scoraggiato. Per inciso, lo stesso Hezbollah avrà meno motivi per attaccarci, e i sentimenti di ostilità e rappresaglia non bruceranno così intensamente come fanno oggi. Ci sono  due scenari che affrontiamo in questo momento:

1. Nello scenario attuale, Hezbollah ha già circa 130.000 missili, di cui solo poche decine sono guidati con precisione. L'inarrestabile provocazione di Israele (circa 100 attentati in cinque anni) ha incoraggiato un aspro nemico attraverso il confine che sta cercando un'opportunità di vendetta. Se scoppia la guerra, l'esercito israeliano ha in programma di lanciare un "attacco preventivo" su tutte le concentrazioni note di missili. Il comandante della Forza aerea israeliana ammette che "non finirà tra tre ore". Il ministro della Difesa mormora qualcosa sulle "vittime". Permettetemi di tradurre: per diverse ore, forse qualche giorno, migliaia di missili saranno lanciati in Israele. Secondo le valutazioni, si ritiene che Hezbollah abbia la capacità di lanciare 1200 razzi al giorno. Non esiste un sistema di difesa in grado di rispondere a una tale minaccia. Sì, ci saranno molte perdite. Quanti? Le stesse valutazioni parlano di centinaia di israeliani uccisi. Sì, dal lato libanese ci saranno ancora più perdite, i villaggi saranno schiacciati, ma questo è molto piccolo conforto per le nostre famiglie in lutto. Ci spiegheranno, ancora e ancora, che ciò era necessario per impedire a Hezbollah di acquisire missili accurati. Sono sicuro che chiunque sia stato colpito da un missile "non-guidato", nel suo ultimo respiro, tirerà un sospiro di sollievo, sapendo che nella loro morte hanno impedito al nemico di acquisire missili guidati con precisione. 
2. Nel secondo scenario, che è completamente immaginario, Israele scende dal suo alto cavallo e smette di dettare quali armi i suoi vicini sono e non sono autorizzati ad avere - proprio come i nostri vicini non si intromettono negli arsenali israeliani. Di conseguenza, ogni stato e gruppo armato nella regione sapranno che finché si asterranno dal violare la sovranità del loro vicino, quel vicino farà lo stesso. Questa è la deterrenza classica tra i rivali la cui reciproca capacità distruttiva è così orribile da non passare nemmeno per la testa a premere il pulsante. 

Dopo tanti anni di accumulo di mezzi militari, che esaurisce l'intero bilancio civile e serve solo per la "dissuasione", i politici dal volto nuovo appaiono da entrambi i lati del confine con la strana idea che, forse, è possibile ottenere la stessa tranquillità con un esercito più piccolo. Forse è possibile firmare un patto di non aggressione e conservare tutti quei missili luccicanti nel museo? 

Uno scenario immaginario, ovviamente. Il suo principale svantaggio è che i civili non vengono sacrificati. Non c'è inutile fuoriuscita di sangue, niente fuoco e fumo, il sangue non corre alla testa, e in breve: non c'è niente per nascondere l'impiallacciatura della dirigenza politica. Il pubblico non è portato al massacro, non è chiamato alla bandiera, non è tenuto a unirsi contro un nemico immaginario e può ancora chiedere ai suoi capi di rendere conto delle proprie azioni. Se questa è la scelta, la guerra lo è. 

Idan Landau è un professore di linguistica all'Università "Ben-Gurion". Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico sul suo blog. Tradotto da Yoni Molad per il Middle East News Service, edito da Sol Salbe, Melbourne, Australia. Ristampato, con il permesso, da +972 Magazine. Foto: parata degli Hezbollah (Haitham Moussawi).

(Trduzione dall'inglese di Diego Siragusa)

mercoledì 7 febbraio 2018

Bashar al Assad, abile stratega antimperialista


di Stefano Zecchinelli

6 febbraio 2018 


La destabilizzazione imperialistica della Siria baathista ha costretto il presidente siriano, Bashar al Assad, a tirar fuori la stoffa dello stratega, peraltro davvero eccezionale. La Siria ha resistito ad una offensiva combinata di più forze reazionarie: l’imperialismo israelo-statunitense; le vecchie potenze coloniali – Francia e Gran Bretagna – intenzionate a ripristinare l’infame Accordo Sykes-Picot; la duplice sovversione islamista guidata dalla Fratellanza Musulmana e da Casa Saud. In tutte le diverse fasi del conflitto, Assad ha analizzato i rapporti di forza neutralizzando le mosse di chi, fedele all’ “etno-sionismo”, vorrebbe balcanizzare il paese.

Il neo-imperialismo e l’etno-sionismo hanno caratteristiche diverse rispetto al colonialismo britannico e all’imperialismo analizzato da Lenin; vanno ben oltre il mero sfruttamento delle risorse (colonialismo) e la duplice appropriazione indebita di risorse e forza lavoro (imperialismo). Lo stratega Thomas P. M. Barnett, con il libro The Pentagon’s New Map, ha teorizzato la distruzione integrale dei paesi non occidentali in modo da dividere il globo in nazioni capitalistiche ed il caos. Si tratta della versione, ancora più pericolosa, della dottrina di Huntington sullo ‘’scontro di civiltà’’, un balordo – in realtà – scontro fra ignoranze.

Compreso alla perfezione il piano etno-sionista, Assad ha coalizzato le forze più progressiste della regione: antimperialisti turchi, Hezbollah e le fazioni patriottiche della Resistenza palestinese, in più ha affiancato all’Esercito Arabo Siriano una guerriglia popolare d’estrazione sociale prevalentemente contadina. In questo modo, una volta portata dalla sua parte la sinistra palestinese (FPLP, Commando-Generale e Jihad islamica), ha obbligato la socialdemocrazia occidentale  a schierarsi tracciando una netta linea di demarcazione fra i ‘’collaborazionisti’’ ed i nemici di classe dell’imperialismo israelo-statunitense. La ‘’sinistra europea’’ si è rivelata quello che – senza mezzi termini –  più volte ho denunciato: invertebrata e succube dell’imperialismo USA.

Una volta salvata la ‘’Siria utile’’, il Partito Ba’th ha isolato gli islamisti facendogli trovare soltanto deserto, terre incolte e popolazioni ostili. Le città sono state messe al sicuro e le risorse alimentari ridistribuite equamente. I ‘’ribelli stranieri’’ (come ci ha spiegato Thierry Meyssan) sono – da lì a poco – diventati un piede di porco delle ONG occidentali, degli USA e di Israele. Belli e pronti per essere gettati nella ‘’spazzatura della storia’’. Già nel 2012, Assad ritenne necessario redigere una nuova Costituzione pensando, da acuto statista, alla ricostruzione della nuova Siria. La stupidità occidentale è stata inchiodata da Meyssan: ‘’All’epoca gli occidentali si sono burlati del presidente Assad che pretendeva convocare elezioni in piena guerra. Oggi la totalità dei diplomatici coinvolti nella risoluzione del conflitto, compresi quelli delle Nazioni Unite, sostiene il piano Assad’’ 1. Che cosa è rimasto della sovversione islamista ed etno-sionista? Nulla, i ‘’ribelli’’ non possono più muovere un passo e la stessa CIA ha consumato una umiliante sconfitta.

In preda ad una vera e propria crisi di nervi la Turchia prima ha invaso illegalmente il distretto siriano di Afrin e poi ha mandato i suoi agenti al Congresso per il Dialogo Nazionale Siriano di Sochi cercando di boicottare il piano siro-russo. Foraggiati da Trump i nazionalisti curdi dell’YPG hanno boicottato il Congresso e l’ex marxista-leninista Ocalan si è dichiarato favorevole alla costituzione d’uno Stato curdo nel Nord della Siria, contribuendo alla balcanizzazione di uno Stato laico e non integrato nel Comando NATO. L’YPG si è dimostrato, ancora una volta, un piede di porco dell’etno-sionismo; un tempo, oramai molto lontano, antimperialisti, ora collaborazionisti delle forze reazionarie. Dovrebbero farsi un esame di coscienza, proprio in Europa, gli arlecchineschi sostenitori dei voltagabbana curdi. Opportunisti e senza principi.

Assad, spiazzando i suoi avversari, ha negoziato una formula elettorale che consentirà ai cittadini di scegliere la forma di governo che più gli aggrada. Nel mentre ha condannato la sconsiderata offensiva di Erdogan, elaborando una complessa ed inaspettata strategia militare per contrastarla. I nazionalisti curdi si dividono in pro-USA e pro-Russia. Cconsapevole di questa divisione (con una netta prevalenza, almeno in questo momento, della fazione pro-USA) il presidente siriano ha deciso di sostenere l’YPG contro l’espansionismo neo-ottomano. In questo modo (1) libererà il territorio siriano dalle orde islamiste ‘’turche’’, (2) potrebbe dividere i nazionalisti curdi riconquistando l’appoggio della fazione filo-russa. Una mossa perfetta, degna d’uno statista lucido e capace di fare previsioni nel lungo periodo. Una cosa è certa: la fazione filo-USA dell’YPG dovrà essere condannata per alto tradimento, oltre ad incassare il rigetto della sinistra rivoluzionaria mondiale. Assad negozierà la creazione, dal basso, di una confederazione curda? Non sonon in grado di dirlo, decideranno democraticamente i popoli della regione, ma uno Stato etnico curdo non potrebbe che essere – come disse Khomeini – ‘’un secondo Israele’’. Una catastrofe.

Per ora la collaborazione è soltanto militare e non politica. Di che cosa si tratta, lo leggiamo: ‘’I curdi permettono al governo di avere accesso limitato alle sacche di Qamishli e Hasaqah, in cambio il quartiere di Shaiq Maqsud detenuto dai curdi ad Aleppo, gode di diritti simili. Anche l’anno scorso Damasco permise ai combattenti delle YPG di Ifrin di unirsi all’offensiva YPG-USA su Raqqa. L’ironia è che nella lotta contro la Turchia, i curdi siriani, solitamente sostenuti dagli Stati Uniti, ricevono più aiuto dal governo siriano contro cui sono in rivolta. Nel frattempo, Damasco si ritrova ad impiegare combattenti addestrati ed equipaggiati dagli Stati Uniti contro la Turchia, entrambi membri della NATO e potenze che avevano cercato di distruggere assieme lo Stato siriano. Naturalmente il governo siriano non vuole un’altra zona di occupazione turca nel nord della Siria, non più dei curdi, anche se per ragioni diverse’’ 2. Il progetto del Rojava deve essere rigettato, è una protesi dell’imperialismo USA, mentre questa mossa, tanto diplomatica quanto militare, di Assad la dice lunga sulle doti del leader siriano: uno statista d’alto livello, in grado di ricostruire un paese distrutto dalla fitna e dalla sovversione neocolonialista. Un garante, di fatto, della legalità internazionale.

Il Partito comunista siriano contestò al Ba’th la privatizzazione di alcuni settori strategici dell’industria di Stato e lo stesso Assad ha, a più riprese, condannato il neoliberismo. La Siria di domani deve rigettare la strada delle privatizzazioni, al contrario – dando più potere alle forze socialiste e comuniste, in prima fila nella Resistenza all’islamismo – dovrebbe recuperare gli aspetti più propositivi dell’esperienza patriottica degli anni ’70 coniugandola con una maggiore apertura democratica. Bashar al Assad ha la stoffa del grande statista, un patriota amato dai ceti popolari e proletari urbani e che ha saputo anche conquistare il consenso dei contadini della periferia. Tutte cose che hanno fatto scrivere al giornalista Thierry Meyssan: ‘’La rivoluzione di Bashar al-Assad è principalmente una lotta di liberazione contro l’oscurantismo religioso, che le monarchie wahhabite dell’Arabia Saudita e del Qatar incarnano nel mondo arabo. Essa intende garantire il libero sviluppo di ciascuno, indipendentemente dalla propria religione, e si afferma dunque come laica, il che vale a dire che si oppone al conformismo religioso. Enuncia che Dio non sostiene alcuna religione in particolare, bensì la Giustizia comune a tutti. In realtà, restituisce la fede in Dio alla sfera privata, per renderla la fonte della forza che permette a tutti di lottare contro un nemico superiore in forze e di vincerlo insieme’’ 3. Laicità, pluralismo e democrazia, valori giacobini che, dal 2001, l’occidente ha smarrito passando dalla Repubblica all’Impero. Si tratta di un nichilismo distruttivo ed ultra-capitalistico; gli etno-sionisti, accecati dal fondamentalismo religioso di derivazione evangelica, vorrebbero esportarlo gettando il mondo nel caos. La Resistenza, oggi più che mai, è un dovere morale incondizionato.

http://www.voltairenet.org/article197505.html

https://aurorasito.wordpress.com/2018/02/03/la-siria-aiuta-le-ypg-contro-i-turchi-ad-ifrin/

http://www.voltairenet.org/article184893.html