giovedì 31 maggio 2018

Medio Oriente. Morti di Gaza come numeri


di Michele Giorgio


Il Manifesto, 27 maggio 2018

Nomi e volti dei palestinesi uccisi dai soldati israeliani a Gaza girano nei social ma l'Europa non li nota. Passata la reazione per la strage del 14 marzo, la routine di morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia. Vendeva gelati e bibite fredde Hussein Abu Aweida. Alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno andava per guadagnare qualche soldo per sopravvivere. Sulla sua vecchia bicicletta aveva fissato due frigoriferi portatili e pedalando per la strade malandate di Gaza portava dolcezza e ristoro a piccoli e grandi. Un colpo sparato da un tiratore scelto dell'esercito israeliano durante le dimostrazioni della scorsa settimana l'ha colpito alla colonna vertebrale ed è spirato ieri all'alba all'ospedale Shifa. Hussein Abu Aweida è il 116 palestinese di Gaza ucciso dai militari israeliani da quando sono cominciate, lo scorso 30 marzo, le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Qualche ora prima erano morti altri due giovani feriti, di 23 e 21 anni.


(Cecchini israeliani che si esercitano nell'arte di uccidere 
o mutilare i palestimesi disarmati)

Nomi e volti degli uccisi di Gaza girano sui social. L'Europa non li nota. Passata la reazione per la strage del 14 marzo - circa 70 vittime tra quelli uccisi subito e i feriti deceduti nei giorni successivi - la routine di morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia. E regna l'indifferenza verso i motivi delle manifestazioni lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele. Prevale la narrazione del governo Netanyahu che descrive la Grande Marcia del Ritorno come una copertura per gli attacchi di Hamas. La responsabilità di tutti quei morti sarebbe solo del movimento islamico anche se a sparare su manifestanti disarmati sono i soldati israeliani. Anzi, la reazione di Israele è stata "moderata", spiegava qualche settimana fa alle Nazioni Unite l'ambasciatrice Usa Nikki Haley.

Anche i giudici israeliani ritengono legittima la risposta data sino ad oggi dall'esercito alle manifestazioni palestinesi. La Corte Suprema israeliana ha respinto all'unanimità due petizioni presentate da gruppi per i diritti umani che chiedevano alle forze armate di non usare più cecchini e munizioni vere contro dimostranti disarmati a Gaza. Secondo la Corte quei manifestanti costituivano un pericolo reale per i soldati e i cittadini israeliani. A nulla è valso il dato che quel "pericolo", in due mesi di proteste con decine di migliaia di persone, non ha causato il ferimento di alcun israeliano, civile o militare. Inutili le testimonianze di alcuni delle migliaia di feriti e la recente risoluzione di condanna di Israele votata dal Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani. Tutto regolare, tutto lecito.

Domani a Bruxelles, in occasione del Consiglio Affari Esteri, Avaaz depositerà 4.500 paia di scarpe vicino alla sede della riunione, un paio di calzature per ciascuna vittima di Gaza negli ultimi anni. Oggi pomeriggio al Circo Massimo a Roma la campagna "CambiaGiro", in occasione della tappa finale del Giro d'Italia colorerà la zona di verde, rosso, bianco e nero, i colori della bandiera della Palestina, per protestare contro la scelta degli organizzatori della Corsa Rosa di far partire il Giro da Gerusalemme ignorando lo status internazionale della città e le rivendicazioni dei palestinesi sulla zona Est occupata da Israele.

martedì 29 maggio 2018

A GAZA GLI ISRAELIANI SPARANO PURE SUI MEDICI!!!


di Amira Hass 



Un'ambulanza al minuto, 1.300 persone sparate in un giorno: L'ospedale Shifa di Gaza deve far fronte a crisi che sommergerebbero i migliori ospedali del mondo


8 maggio 2018 2:13 AM

Fonte: Haaretz

Qualsiasi sistema sanitario in Occidente crollerebbe se dovesse curare tante ferite da arma da fuoco in un solo giorno come nella Striscia di Gaza il 14 maggio, dicono i medici internazionali. Eppure il sistema medico di Gaza, che per anni è stato sull'orlo del collasso a causa del blocco israeliano e del conflitto interno palestinese, ha affrontato la sfida in modo sorprendentemente positivo. In Israele, gli eventi del 14 maggio sono già storia. Nella Striscia, le loro conseguenze sanguinose influenzeranno la vita di migliaia di famiglie per gli anni a venire.

E' stato il numero di persone ferite da pallottole, più che l'elevato conteggio dei corpi, a essere così scioccante: quasi la metà delle oltre 2.770 persone che hanno cercato assistenza di emergenza ha subito ferite da armi da fuoco. "Era chiaro che i soldati sparavano soprattutto per ferire e mutilare i manifestanti". Questa è stata la conclusione che ho ascoltato dai miei interlocutori, alcuni dei quali avevano una buona esperienza in sanguinosi conflitti internazionali. L'obiettivo era quello di ferire, non di uccidere, di lasciare il maggior numero possibile di giovani con disabilità permanenti.

(La giornalista israeliana Amira Hass)

preparativi nelle 10 stazioni di triage e stabilizzazione traumi sono stati impressionanti. Ciascuna delle stazioni erette vicino ai siti di protesta era composta da paramedici e studenti volontari di medicina. In media, in sei minuti, sono riusciti a esaminare ogni paziente, a determinare il tipo di lesione, a stabilizzarlo e a decidere chi doveva essere curato in ospedale. A partire da mezzogiorno circa, ogni minuto è arrivata un'ambulanza all'ospedale Shifa di Gaza City. Le sirene non hanno smesso di ulularei. Ogni ambulanza trasportava quattro o cinque persone con ferite.
Dodici sale operatorie hanno lavorato senza sosta. I primi a essere curati sono stati i soggetti con lesioni ai vasi sanguigni. Centinaia di persone con lesioni meno critiche hanno aspettato nei corridoi dell'ospedale per il loro turno, in preda a lamenti e vertigini. Gli unici antidolorifici disponibili erano pensati per mal di testa al massimo, non per ferite da sparo. Anche se il Ministero della Salute dell'Autorità Palestinese in Cisgiordania non ha ridotto le sue spedizioni di medicinali nella Striscia di Gaza nell'ultimo anno, seguendo le direttive dei vertici politici palestinesi, è dubbio che l'ospedale avrebbe avuto gli antidolorifici e gli anestetici necessari per curare i circa 1.300 pazienti con ferite da arma da fuoco e per effettuare le centinaia di operazioni eseguite il 14 maggio.
Nessun ospedale al mondo dispone di chirurghi vascolari e ortopedici sufficienti per operare su centinaia di vittime di colpi di arma da fuoco in un solo giorno. Sotto la guida degli specialisti sono stati introdotti chirurghi di altre specializzazioni. Nessun ospedale dispone di un numero sufficiente di équipe mediche per curare così tanti pazienti. Dopo le 13.30, quando le famiglie dei feriti cominciarono a precipitarsi nell'ospedale già sovraffollato, le cose cominciarono a crollare. Un gruppo della sicurezza armata del Ministero dell'Interno, sotto il controllo di Hamas, è stato chiamato per imporre l'ordine ed è rimasto lì fino alle 20.30. Di notte, 70 manifestanti feriti attendevano ancora un trattamento, mentre altri 40 hanno aspettato la mattina seguente. Una settimana dopo è arrivato il momento della chirurgia ortopedica e della riabilitazione della terapia fisica, ma la Striscia non dispone di fisioterapisti, chirurghi ortopedici e attrezzature mediche sufficienti.
 Dal 30 marzo al 22 maggio, un totale di 13.190 persone, tra cui 1.136 bambini, sono rimasti feriti nelle manifestazioni lungo il confine con Israele, secondo un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità  rilasciato il 22 maggio. Di questi, 3.360 sono stati feriti da munizioni vere sparate dai nostri eroici - e ben protetti - soldati; 332 sono ancora in condizioni critiche (due persone sono morte per le loro ferite durante il fine settimana). Sono state effettuate cinque amputazioni agli arti superiori e 27 agli arti inferiori. Solo nella settimana del 13-20 maggio, i soldati israeliani hanno ferito 3.414 cittadini di Gaza. Di questi, 2.013 sono stati curati negli ospedali e nelle cliniche gestite da organizzazioni non governative, di cui 271 bambini e 127 donne; 1.366 hanno subito ferite da arma da fuoco.
I nostri coraggiosi soldati sparano anche alle squadre mediche che si avvicinano alla recinzione per salvare le vittime. Gli ordini sono ordini, anche quando si tratta di sparare ai paramedici. Di conseguenza, i medici lavorano in squadre di sei: se uno è ferito, altri due lo porteranno via per il trattamento e i tre che rimangono continueranno a lavorare, pregando che non vengano colpiti essi stessi.

Il 14 maggio, un paramedico della Protezione Civile Palestinese è stato ucciso, ucciso a colpi di arma da fuoco sulla strada per salvare un manifestante ferito. Per circa 20 minuti, i suoi colleghi hanno cercato di raggiungerlo, ma non sono riusciti, spaventati dal fuoco pesante. Il paramedico è morto di collasso polmonare. Nella settimana del 13-20 maggio, altri 24 membri del personale medico sono rimasti feriti: otto con munizioni vere, sei con schegge di proiettile, uno con granata di gas lacrimogeni e nove con esposizione a gas lacrimogeni. Dodici ambulanze sono state danneggiate. Tra il 30 marzo e il 20 maggio sono rimasti feriti 238 operatori sanitari e sono state danneggiate 38 ambulanze.
Il 23 maggio, a seguito di una visita a un ospedale e a un centro di riabilitazione a Gaza, il commissario generale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione, Pierre Krähenbühl, ha sottolineato lo svolgimento dei recenti eventi: "Credo veramente che gran parte del mondo sottovaluti completamente l'entità del disastro in termini umani che si è verificato nella Striscia di Gaza dall'inizio delle marce il 30 marzo. ... Durante sette giorni di proteste sono state ferite molte persone, o anche solo un po' di più, di quante ne siano state ferite durante l'intera durata del conflitto del 2014. E' davvero sconcertante. Durante le visite sono rimasto colpito non solo dal numero di feriti, ma anche dalla natura delle lesioni. ... Il modello di piccole ferite d'ingresso e di grandi ferite d'uscita indica che le munizioni utilizzate hanno causato gravi danni agli organi interni, al tessuto muscolare e alle ossa. Sia il personale degli ospedali del ministero della Sanità di Gazan che quello delle ONG e delle cliniche dell'UNRWA stanno lottando per affrontare ferite e cure estremamente complesse".             

venerdì 25 maggio 2018

Giornalisti assassinati in Equador. Cronache di un massacro



di Livio Zanotti

17 Aprile 2018

Gli ultimi li hanno uccisi il 7 aprile scorso a Mataje, lungo la frontiera dell’Equador con la Colombia: Javier Ortega, 36 anni, cronista, Paulo Rivas, 45, fotoreporter, Efrain Segarra, 60, autista, tutti del quotidiano El Comercio di Quito, Equador. Andavano a fare il lavoro d’ogni giorno, raccontare ai lettori le vicende del paese, insanguinate in quella regione dai delitti dei trafficanti di cocaina e di ribelli armati passati al banditismo. Il 26 marzo dovevano constatare gli effetti dell’attentato a un commissariato di polizia, assaltato da un gruppo che ha disertato dalle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), quando i suoi massimi comandanti hanno scelto di accordare la pace con lo stato e trasformarsi in forza politica legale.
Alla testa del gruppo dissidente c’è un meticcio nato e noto nella zona, poco oltre i trent’anni, un fisico imponente e uno sguardo insondabile: Walter Arizula Vernaza, uno inseparabile dal suo mitragliatore FN2000 che spara 850 colpi al minuto a oltre 300 metri. Lo chiamano Guacho, un soprannome che ha diversi significati ma nel suo caso vuol dire “scalmanato”. E’ lui che Ortega e Riva volevano incontrare, riuscire a fargli dire qualcosa della storia di tradimenti che avrebbero permesso alla DEA, l’agenzia degli Stati Uniti che combatte il narcotraffico, di localizzarlo nelle scorse settimane e tentare di catturarlo vivo o morto. Si sarebbe salvato fortunosamente, deciso a vendicarsi. Qualcuno (forse una donna che Guacho frequenta da tempo in un paesino non lontano), gli avrebbe attaccato indosso un microchip senza che lui se ne accorgesse in tempo.
Quei giornalisti così audaci da andarlo a cercare nella sua tana devono essergli apparsi le esche che cercava per arrivare a chi l’aveva tradito. Ha ordinato di sequestrarli e fatto poi sapere di essere disposto a rilasciarli, se le autorità avessero soddisfatto una serie di sue richieste che a tutt’oggi nessuno ammette di conoscere. Lo ripete ancora adesso che li ha fatti ammazzare senza neppure riconsegnarne i corpi. Attribuisce ai militari dell’Equador e colombiani la responsabilità di aver impedito lo scambio. Ma polizia ed esercito d’entrambi i paesi stanno presidiando l’intera zona da una parte e dall’altra del confine con migliaia di uomini. Ritengono che Guacho e i suoi siano semplicemente la punta di diamante del sistema di autodifesa dei narcotrafficanti della regione, la trattativa solo un pretesto e i giornalisti uccisi perché avevano raccolto prove di quella piena complicità.
Certo è che questo ulteriore e triplice assassinio è avvenuto in una sempre più luttuosa geografia che si estende dal Messico alla Colombia e all’Equador. La smisurata violenza dei narcotrafficanti, il loro potere di corruzione, vi s’incrociano con residui politici e umani di guerriglie sociali ormai contaminate da un bandolerismo senza bandiere e con la denigrazione del giornalista da icona della testimonianza civile a innocua figura sacrificale. Si tratta di una frontiera che corre parallela all’emarginazione sociale e politica, ma soprattutto culturale. Segue un degrado epocale in cui anche valori antichi come il rispetto per l’avversario indifeso ha cessato di essere lo specchio del più forte, del suo onore personale. L’attenzione del lettore è la maggiore protezione del giornalista che scrive per lui.

domenica 20 maggio 2018

Gaza. Qualcosa si muove. Ma in che verso?


di Patrizia Cecconi

20.05.2018 


Forse le fucilazioni in diretta di dimostranti disarmati da parte degli snipers israeliani hanno mosso la coscienza giuridica del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHCR) perché, nonostante le manipolazioni mediatiche basate su veline israeliane, le testimonianze documentate in diretta non lasciavano dubbi.

Infatti alcuni giorni fa i 47 membri del Consiglio si sono espressi a larga maggioranza condannando i crimini israeliani e chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta per indagare sulle violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste di massa in Cisgiordania e lungo i confini della Striscia di Gaza.

La Risoluzione ha visto 2 voti contrari, tra cui quello degli USA, come ovvio visto che con le sue dichiarazioni e con le sue azioni il presidente USA si è posto non più come ipotetico arbitro ma come rivendicato “goodfather” di Israele.

Sebbene la sentenza di questa Commissione non avrà alcun potere dirimente sull’operato futuro di Israele, così come mostrano le esperienze passate, lo Stato imputato di crimini ha respinto la Risoluzione con sdegno e il ministro Lieberman, uno dei falchi ancor più a destra del premier Netanyahu, nella sua indignazione ha addirittura toccato il ridicolo chiedendo che il suo Stato esca dal Consiglio dei diritti umani, dimenticando che non ne fa parte e quindi non può uscirne!

Un breve ripasso sulla struttura del Consiglio è d’obbligo per comprendere, al di là del contingente, il senso di questo rifiuto. Dunque, il Consiglio per i diritti umani, è stato costituito nel 2006 in sostituzione della Commissione per i diritti umani istituita nel 1946 e più debole in quanto ad efficacia per garantire, o tentare di garantire, il rispetto dei diritti umani nel mondo. I membri che lo compongono sono 47, estratti a sorte nel rispetto del peso numerico dei vari continenti. Alla sua costituzione, nel 2006, non tutti i paesi membri dell’ONU votarono a favore, infatti USA ed Israele si dichiararono contro.

Il loro voto contrario all’istituzione di un organismo basato sui criteri fondamentali della Dichiarazione universale dei Diritti Umani, emanata nel 1948 – pochi mesi dopo la proclamazione della nascita dello Stato di Israele – non è certo un buon segnale, pur tuttavia è un dato storico che viene regolarmente sottaciuto, ma che noi riteniamo sia bene tener presente. E’ pure bene tener presente che aver votato contro non pone uno schermo contro la supervisione delle eventuali violazioni in quanto questa riguarda tutti gli stati facenti parte delle Nazioni Unite.  Va pure precisato che la Risoluzione che deriva dalla Commissione d’inchiesta autorizzata ad indagare sulle violazioni osservate, per quanto significativa, non è vincolante in quanto non prevede sanzioni per i paesi accusati di violazioni dei diritti umani. In realtà si limita ad una funzione informativa dell’opinione pubblica mondiale così come successo per la Birmania, il Congo, la Corea del Nord ed altri paesi tra cui lo stesso Israele, più volte ma inutilmente condannato per violazione dei diritti umani, producendo come unica risposta quella di fornire un ulteriore attacco difensivo da parte degli Usa e dello stesso Israele con la dichiarazione pubblica che il Consiglio dei diritti umani ha “un’ossessione patologica contro Israele”.

Il passaggio da oppressore ad oppresso (rispetto ai palestinesi) da parte di Israele è ormai una costante e lo si è visto anche nei giorni scorsi a Ginevra dove la dura accusa pronunciata dall’Alto commissario per i diritti umani ha avuto la replica scontata della rappresentante israeliana Aviva Raz Shechter la quale – buttandosi dietro le spalle i circa 110 morti palestinesi fucilati a freddo al momento della sua dichiarazione, nonché gli oltre 6000 feriti compresi ben 110 giornalisti e 200 paramedici con unica funzione di osservatori i primi e di soccorritori i secondi – ha accusato l’organismo delle Nazioni Unite di “voler sostenere Hamas e la sua strategia terroristica”. Negando sia l’evidenza, sia le dichiarazioni del portavoce dell’IDF (le forze armate israeliane), la signora Shechter ha persino dichiarato che Israele ha fatto di tutto per evitare vittime tra i civili palestinesi, il che in fondo è in linea con le dichiarazioni del “falchi” israeliani i quali avevano dichiarato che non ci sono civili tra i palestinesi. La conclusione quindi, nella narrazione israeliana, risulta persino logica.

Ma mentre il Consiglio dei diritti umani si esprimeva chiedendo una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni dei palestinesi lungo i confini della Striscia di Gaza, indagine che già nella sua definizione ha una involontaria e macabra ironia, anche paesi non certo ascrivibili alla categoria democratica si esprimevano contro Israele, sia per l’uso delle armi sia, soprattutto, per il tentativo di espropriazione di Gerusalemme al di fuori di ogni legittimità e di ogni legalità internazionale.

Il presidente Erdogan da Istanbul, non certo paladino dei diritti umani nel suo Paese, esprimeva una forte condanna verso Usa e Israele, in sintonia con l’OCI, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica i cui 57 stati membri si sono riuniti in assemblea a Istanbul per condannare verbalmente in modo durissimo (più di quanto fatto dalla Lega araba al Cairo) il tentativo di appropriazione di Gerusalemme e il massacro di Gaza.

Nonostante queste dure condanne, molti palestinesi temono che restino parole in quanto la richiesta di ritirare tutti gli ambasciatori arabi da Washington non ha avuto adeguata risposta.

Intanto la diplomazia sta lavorando. Forse la marcia, che è stata prolungata fino al 5 giugno, si spegnerà gradualmente grazie al raggiungimento di alcuni compromessi tra il governo della Striscia e il Cairo con la forte impronta anche del Qatar. Non si parla solo di apertura del valico di Rafah, cosa che comunque toglierebbe forza alle richieste palestinesi, lasciando intatto l’assedio israeliano. Si parla anche di miglioramenti delle condizioni di vita dei gazawi, quali la fornitura di acqua e di elettricità e la presa in carico da parte del Qatar degli stipendi che l’Anp ha smesso di pagare. Tutto questo sarebbe di sicuro un miglioramento a breve della vita all’interno della Striscia, ma sarebbe la vittoria di chi, fin dal primo momento e in totale negazione della verità, ha attribuito ad Hamas la paternità di quest’immensa manifestazione popolare, distorcendone il significato e, in ultima analisi, rischiando di farne fallire l’obiettivo primario, cioè l’applicazione della Risoluzione Onu 194 per il ritorno dei profughi e la fine dell’assedio.

Ma Gaza riserva sempre sorprese e poi, in chiusura è bene ricordarlo, Gaza non è soltanto Hamas. Hamas è la forza politica che governa la Striscia ma non è l’unica forza politica della Striscia. Questo la grande marcia del ritorno l’ha abbondantemente dimostrato, nonostante i media mainstream abbiano fatto di tutto per nasconderlo, finendo per regalare ad Hamas la paternità di questa grande iniziativa che il partito al governo, consapevole o meno della trappola mediatica, ha fatto propria provando a gestirla sia all’interno sia negli accordi diplomatici che si stanno concretizzando.

Fonte: https://www.pressenza.com/it/2018/05/gaza-qualcosa-si-muove-verso/

GAZA VINCE AL FESTIVAL DI CANNES: “La strada dei Samouni” di Stefano Savona



FuoriCircuito - Associazione per una libera fruizione dei filmati fuori distribuzione
INFORMA

Cannes 8-19 maggio 2018

“La strada dei Samouni” di Stefano Savona
vince l'Oeil d'Or come miglior documentario
Presentato in concorso alla Quinzaine Des Réalisateurs il film del regista palermitano, con le animazioni di Simone Massi, si porta a casa il prestigioso premio

http://palermo.repubblica.it/societa/2018/05/19/news/il_palermitano_savona_vince_a_cannes_per_il_miglior_documentario-196825144/?refresh_ce

http://www.repubblica.it/speciali/cinema/cannes/festival2018/2018/05/19/news/_la_strada_dei_samouni_di_stefano_savona_vince_a_cannes_l_oeil_d_or_come_miglior_documentario-196811766/

La strada dei Samouni (Samouni Road), il film di Stefano Savona con le animazioni di Simone Massi, ha vinto il premio Oeil d'Or come miglior documentario. Pesentato in concorso alla Quinzaine Des Réalisateurs, il lungometraggio si è aggiudicato il prestigioso premio, lo stesso che lo scorso anno è stato assegnato a Visages Villages di Agnès Varda. La Cineteca di Bologna - che ha sostenuto il film fin dalla fase di sviluppo - distribuirà il film nelle sale italiane nella prossima stagione. 
Il film è il racconto della piccola Amal che, tornata nel suo quartiere, ricorda solo un grande albero che non c’è più. Un sicomoro su cui lei e i suoi fratelli si arrampicavano. Si ricorda di quando portava il caffè a suo padre nel frutteto. Dopo è arrivata la guerra. Amal e i suoi fratelli hanno perso tutto. Sono figli della famiglia Samouni, dei contadini che abitano alla periferia della città di Gaza. È passato un anno da quando hanno sepolto i loro morti. Ora devono ricominciare a guardare al futuro, ricostruendo le loro case, il loro quartiere, la loro memoria. Sul filo dei ricordi, immagini reali e racconto animato si alternano a disegnare un ritratto di famiglia, prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno stravolto le loro vite. 
Stefano Savona, documentarista pluripremiato in Italia e nel mondo, palermitano trapiantato a Parigi, archeologo e antropologo, che dal 1999 realizza installazioni video (tra cui D-Day, presentato nel 2005 al Centre Pompidou) e gli apprezzati documentari Primavera in Kurdistan (2006), candidato al David di Donatello, Piombo fuso (2009), Premio speciale della giuria Cineasti del presente a Locarno, Palazzo delle aquile (2011), insieme ad Alessia Porto ed Ester Paratore, vincitore del Grand Prix di Cinéma du Réel e Tahrir Liberation Square”(2011), vincitore del David di Donatello e del Nastro d’Argento.
Le animazioni sono invece di Simone Massi, https://www.youtube.com/watch?v=fBLOXqwaIaY uno dei più affermati animatori indipendenti italiani riconosciuto a livello internazionale, noto per disegnare a mano ogni singolo fotogramma dei suoi cortometraggi che hanno girato in più di 60 paesi del mondo dove hanno raccolto più di 200 riconoscimenti, già autore di cinque edizioni della sigla e del manifesto del Festival di Venezia.

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Nota:  l'ANSA non cita nemmeno il film di Savona e il premio ricevuto

sabato 19 maggio 2018

IL COMPLOTTO DEGLI STATI UNITI CONTRO IL VENEZUELA

(L’ammiraglio Kurt W. Tidd, comandante in capo del SouthCom)


di Stella Calloni

FONTE: VOLTAIURENET.ORG


Stella Calloni rivela il piano segreto del SouthCom per rovesciare la Repubblica Bolivariana di Venezuela. Il documento, che noi abbiamo pubblicato, contraddice l’impegno del presidente Trump di mettere fine ai sovvertimenti di regime che hanno caratterizzato la politica imperialista degli Stati Uniti. Il documento conferma che l’immagine caotica del Venezuela che si vuole accreditare a livello internazionale è totalmente artefatta ed è frutto esclusivamente dalla propaganda anglosassone.


Gli Stati Uniti e i loro alleati preparano in silenzio un piano brutale per «mettere fine alla dittatura» in Venezuela. La prima parte di questo «colpo da maestro» (Masterstroke), già predisposta, dovrebbe essere messa in atto prima delle prossime elezioni. Se l’esito di questa offensiva, che sarà sorretta dall’intero apparato propagandistico e mediatico, nonché da azioni violente “in difesa della democrazia”, non sarà la cacciata del presidente Nicolas Maduro, il piano B è già pronto, coinvolgerà molti Paesi per riuscire a imporre una “forza multilaterale” che intervenga militarmente.

(Scrittrice e giornalista argentina. Ultimo libro pubblicato: 
Operación Cóndor, pacto criminal)

Panama, Colombia, Brasile e Guyana, appoggiati dall’Argentina e da “altri amici”, sono il fulcro dell’operazione, con la regia del Pentagono. Tutto è pronto: le basi militari, i Paesi confinanti che forniranno aiuto diretto mettendo a disposizione ospedali e riserve di viveri per i soldati.

Ecco il contenuto di un documento di 11 pagine, non ancora divulgato, che porta la firma dell’ammiraglio Kurt Walter Tidd, attuale comandante in capo del SouthCom degli Stati Uniti [1].

Nel documento si analizza la situazione attuale, si ratificano la guerra contro il Venezuela e lo schema perverso di una guerra psicologica che utilizzerà mezzi come la persecuzione, le molestie, le infamie, non solo per farla finita con i dirigenti politici, ma anche per prostrare la popolazione.

Il rapporto afferma che «la dittatura chavista traballa per i problemi interni, per la grave penuria alimentare, per l’esaurimento del filone dell’esportazione del petrolio, per una corruzione sfrenata. Il sostegno internazionale, ottenuto a colpi di petrodollari, si sta affievolendo e il potere d’acquisto della valuta nazionale è in caduta libera».

Questa situazione, che [i golpisti] ammettono di aver loro stessi creato, favoriti da una sconvolgente impunità, non cambierà. Ritengono quindi giustificate le loro azioni, poiché il governo venezuelano, pur conservare il potere, adotterà nuove misure «populiste».

Nel documento, può meravigliarci il trattamento riservato all’opposizione, un’opposizione manipolata, guidata e pagata dagli Stati Uniti. Vi si legge infatti: «Il governo corrotto di Maduro crollerà, ma, purtroppo, le forze di opposizione che difendono la democrazia e il livello di vita della popolazione, non posseggono le capacità per mettere fine all’incubo venezuelano», a causa di dispute interne e di una «corruzione paragonabile a quella dei loro rivali, con i quali hanno in comune lo scarso senso di appartenenza» che «non permette loro di sfruttare al meglio la situazione e di prendere le decisioni opportune per rovesciare lo situazione di penuria e precarietà in cui il gruppo di pressione, che esercita la dittatura di sinistra, ha sprofondato il Paese».

Nel documento si legge che ci troviamo di fronte a «un’azione criminale, senza precedenti in America Latina». Al contrario, il governo del Venezuela non ha mai agito per ostacolare i vicini, anzi ha sempre dato prova di un’intensa solidarietà regionale e mondiale. Il piano statunitense sostiene che «la democrazia si sta diffondendo in America, continente che sembrava destinato a cadere sotto il controllo del populismo radicale. Argentina, Ecuador e Brasile ne sono esempi. Questa rinascita della democrazia si fonda su scelte coraggiose ed è propiziata dalle condizioni della regione. È venuto il momento per gli Stati Uniti di mostrare di essere implicati in questo processo, in cui la caduta della dittatura venezuelana segnerà un punto di svolta per il continente».

E il presidente Donald Trump deve essere pronto agire: «Si tratta della prima opportunità per l’amministrazione Trump di portare avanti la propria visione della democrazia e della sicurezza. Dimostrare un attivo impegno è cruciale, non solo per l’amministrazione, ma anche per il continente e per il mondo intero. È il momento di agire».

Questo implica, oltre all’eradicazione definitiva dello chavismo e all’espulsione del suo rappresentante, lavorare per «incoraggiare l’insoddisfazione popolare, favorendo maggiore instabilità e penuria dei beni fondamentali, per rendere irreversibile la sconfessione del dittatore al potere».

Se si vuole andare più a fondo nell’arte della perversione contro-rivoluzionaria, basti leggere la parte del documento in cui si raccomanda di «diffamare il presidente Maduro, di ridicolizzarlo e presentarlo come esempio di goffaggine e incompetenza, un fantoccio agli ordini di Cuba».

Si suggerisce anche di esacerbare le divisioni tra i membri del gruppo al potere, di rivelare le differenze fra il loro livello di vita e quello dei loro sostenitori, di fare in modo che queste differenze si accentuino.

Il piano è portare a termine azioni folgoranti, come quelle di Mauricio Macri in Argentina e di Michel Temer in Brasile, due maggiordomi agli ordini di Washington. Personalità corrotte, diventate, per grazia imperiale, «esemplari esponenti di trasparenza», che hanno preso provvedimenti che in poche ore, con la precisione di un missile, hanno distrutto gli Stati nazionali.

Il documento, firmato dal capo del SouthCom, chiede di rendere il Venezuela ingovernabile, per costringere Maduro a esitare, per indurlo a negoziare o a fuggire. Il piano, che dovrebbe portare in tempi brevi alla fine della cosiddetta dittatura del Venezuela, prevede che venga «incrementata l’instabilità interna, fino a un livello critico, intensificando la de-capitalizzazione del Paese, la fuga dei capitali esteri e favorendo il tracollo della moneta nazionale, applicando nuove misure inflazionistiche».

Altro obiettivo: «Ostacolare ogni forma d’importazione e, nello stesso tempo, demotivare gli eventuali investitori stranieri, per contribuire così a rendere più critica la situazione della popolazione».

In questo documento di 11 pagine ci si appella anche «agli alleati interni e alle altre persone, ben inserite nel panorama nazionale, con l’obiettivo di provocare manifestazioni, disordini e insicurezza, saccheggi, furti e attentati, sequestro di battelli e altri mezzi di trasporto, mettendo così a repentaglio la sicurezza dei Paesi limitrofi». È utile anche «causare vittime, addossandone la responsabilità al governo, aumentare agli occhi del mondo le proporzioni della crisi umanitaria». Tutto questo richiede un uso corrente della menzogna. Occorre parlare di corruzione generalizzata all’interno delle istituzioni, «collegarle al narcotraffico per degradarne l’immagine sia sul piano interno sia davanti al mondo intero». Questo senza disdegnare di «incoraggiare lo sfinimento dei membri del Partito Socialista Unificato del Venezuela (PSUV), accrescerne l’irritazione per indurli a rompere clamorosamente con il governo e a rifiutare quelle misure restrittive che li opprimono, come opprimono il resto della popolazione; […] L’opposizione è così debole che bisogna rafforzarla suscitando frizioni tra il PSUV e Somos Venezuela».

E non è tutto, bisogna «strutturare un piano per incrementare la diserzione dei quadri più preparati, per privare il Paese dei professionisti più altamente qualificati; la situazione interna si aggraverà ulteriormente e anche questa colpa ricadrà sul governo».

Come in un thriller, questo piano esorta a «utilizzare gli ufficiali dell’esercito come un’alternativa per una soluzione definitiva» e a «rendere ancora più dure le condizioni all’interno delle forze armate, per creare le condizioni per un colpo di Stato prima della fine del 2018, qualora la crisi interna non portasse al crollo della dittatura, o se il dittatore si rifiutasse di farsi da parte».

Prendendo in considerazione l’ipotesi che il piano di destabilizzazione interna non abbia successo, con evidente disprezzo per l’opposizione, il documento invita ad «alimentare in continuazione la tensione lungo il confine con la Colombia, incentivando il traffico di combustibile e altre merci, i movimenti dei paramilitari, le incursioni armate e di trafficanti di droga, per provocare incidenti con le forze di sicurezza di confine venezuelane »; chiama a «reclutare paramilitari, soprattutto nei campi di rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander, vaste zone popolate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora vogliono rientrare nel loro Paese per fuggire da un regime che ha permesso l’incremento delle attività destabilizzanti alla frontiera fra i due Paesi, sfruttando lo spazio lasciato vuoto dalle FARC [Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, ndt], la belligeranza dell’ELN [Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, ndt] e le attività [paramilitari] del Cartello del Golfo».

Ed ecco la pianificazione del colpo finale: «Preparare il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio degli ufficiali [ribelli] dell’esercito o per controllare la crisi interna, qualora esitino a prendere l’iniziativa, […] Fissare un termine breve per impedire al dittatore di allargare il proprio consenso e di continuare ad avere il controllo dello scacchiere interno. Se necessario, agire prima delle elezioni del prossimo mese di aprile».

Le elezioni si svolgeranno in realtà il 20 maggio, ma gli Stati Uniti e i loro alleati hanno già fatto sapere che non ne riconosceranno l’esito. Il punto cruciale è «ottenere l’appoggio e la cooperazione delle autorità dei Paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana). Organizzare l’approvvigionamento delle truppe, l’appoggio logistico e sanitario da Panama. Fare buon uso dei vantaggi della sorveglianza elettronica e dei segnali intelligenti, degli ospedali e degli equipaggiamenti sanitari del Darién (giungla panamense), dell’equipaggiamento in droni del Piano Colombia, come anche dei campi delle vecchie basi militari di Howard e Albroock (Panama) e di quelle lungo il Rio Hato. Approfittare anche nel Centro Regionale Umanitario delle Nazioni Unite, attrezzato per situazioni catastrofiche e di urgenza umanitaria, dotato di pista d’atterraggio e di riserve proprie».

Siamo di fronte a uno scenario d’intervento che prevede di «Promuovere il posizionamento di aerei di combattimento e di elicotteri, di blindati, di stazioni d’intelligence, di unità militari speciali per la logistica (poliziotti, responsabili militari, prigioni)». […] Bisognerà che «l’operazione militare venga sviluppata sotto bandiera internazionale, con l’avallo della Conferenza degli Eserciti Latino-Americani, sotto l’egida dell’OSA [Organizzazione degli Stati Americani, ndt] e con la supervisione, in ambito giuridico e mediatico, del suo segretario, Luis Almagro». Sarà opportuno «dichiarare la necessità per il Comando Continentale di corroborare la propria azione utilizzando gli strumenti della democrazia interamericana, per evitare uno strappo della democrazia». E, soprattutto, bisognerà operare per «un’unità d’intenti di Brasile, Argentina, Colombia e Panama, affinché contribuiscano a incrementare le truppe, per poter sfruttare la loro vicinanza geografica e la loro esperienza in operazioni in zone di foreste e nella giungla. A rafforzare la dimensione internazionale dell’operazione contribuirà la presenza di unità di combattimento degli Stati Uniti e delle nazioni prima menzionate, sotto il comando dello Stato Maggiore Congiunto, controllato dagli Stati Uniti».

Stupisce che questo piano abbia potuto essere impunemente architettato, a danno delle popolazioni e nell’illegalità più assoluta. Esso chiarisce la ragione delle recenti manovre militari degli Stati Uniti nella regione, lungo la frontiera tra Brasile e Venezuela (Brasile, Perù, Colombia), nell’Atlantico del Sud (Stati Uniti, Cile, Regno Unito, Argentina); nel caso argentino le manovre sono state fatte in ottobre-novembre 2017, senza alcuna autorizzazione del Congresso Nazionale.

«Utilizzare le strutture del territorio panamense per le retrovie e le capacità dell’Argentina per garantire la sicurezza dei porti e delle posizioni marittime […], 
- Appoggiarsi su Brasile e Guyana per servirsi della situazione migratoria, che si intende incoraggiare alla frontiera con la Guyana; 
- Coordinare l’appoggio a Colombia, Brasile, Guyana, Aruba, Curaçao, Trinidad e Tobago e ad altri Stati, per gestire il flusso di migranti venezuelani provocato dall’evoluzione della crisi».

Il piano prevede anche di «promuovere la partecipazione internazionale a questo sforzo, facente parte di un’operazione multilaterale cui contribuiscono Stati, Organizzazioni non governative, corpi internazionali, fornendo adeguata logistica, servizi d’intelligence, supporto per sorveglianza e controllo. Occorrerà precorrere gli avvenimenti, in particolare nei punti più vulnerabili, ad Aruba, Puerto Carreño, Inirida, Maicao, Barranquilla e Sincelejo in Colombia, e a Roraima, Manaos e Boavista in Brasile». Ecco disegnata la mappa di una guerra d’ingerenza annunciata.

Informazione strategica
In quanto alla prospettiva strategica, bisognerà soffocare «la simbolica presenza di Chavez, emblema dell’unità e del supporto popolare», continuare a molestare il dittatore, «additandolo come unico responsabile della crisi in cui è precipitata la nazione», e i suoi più stretti collaboratori, altrettanto corresponsabili della crisi e dell’impossibilità di uscirne.

In un altro paragrafo del documento si invita a «intensificare il malcontento contro il regime di Maduro, […] a mettere in luce l’inefficienza dei meccanismi d’integrazione, voluti dai regimi di Cuba e del Venezuela, in particolare dell’ALBA (Alleanza Bolivariana dei Popoli della nostra America) e di Petrocaribe.

In quanto alla propaganda mediatica, il piano vuole incrementare la diffusione nel Paese, nei media locali e stranieri, di messaggi costruiti su testimonianze e pubblicazioni dal Venezuela, usando qualunque mezzo, inclusi i social network, per disseminare messaggi che «veicolino attraverso i media la necessità di mettere fine a questa situazione, ormai insostenibile».

In uno degli ultimi paragrafi del documento si parla di garantire, o addirittura di mostrare, l’uso da parte della dittatura di mezzi violenti, per acquisire l’appoggio internazionale, utilizzando «tutte le competenze dell’esercito degli Stati Uniti nella guerra psicologica».

In altri termini si tratta di costruire scenari fondati su menzogne, montaggi di notizie, foto e video truccati, insomma di utilizzare tutti i mezzi già usati nelle guerre coloniali del XXI secolo.

Altro punto, «Gli Stati Uniti dovranno sostenere sul piano interno gli Stati americani che li sostengono», risollevare la loro immagine e mettere in evidenza «il carattere multilaterale delle istituzioni del sistema interamericano, strumenti per la soluzione di problemi regionali; infine promuovere l’idea della necessità dell’intervento militare dell’ONU, per imporre la pace dopo che la dittatura corrotta di Nicolas Maduro sarà stata spazzata via».

Stella Calloni
Traduzione 
Rachele Marmetti
Il Cronista

Israele, 200 armi nucleari puntate sull’Iran


di Manlio Dinucci

Fonte: Marx21

La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano – stipulato nel 2015 da Teheran con i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania – provoca una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente.
Per capire quali implicazioni abbia tale decisione, presa sotto pressione di Israele che definisce l’accordo «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran», si deve partire da un fatto ben preciso: Israele ha la Bomba, non l’Iran.
Sono oltre cinquant’anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con l’aiuto soprattutto di Francia e Stati Uniti. Esso non viene sottoposto a ispezioni poiché Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente, non aderisce al Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto cinquant’anni fa.
Le prove che Israele produce armi nucleari sono state portate oltre trent’anni fa da Mordechai Vanunu, che aveva lavorato nell’impianto di Dimona: dopo essere state vagliate dai maggiori esperti di armi nucleari, furono pubblicate dal giornale The Sunday Times il 5 ottobre 1986.
Vanunu, rapito a Roma dal Mossad e trasportato in Israele, fu condannato a 18 anni di carcere duro e, rilasciato nel 2004, sottoposto a gravi restrizioni.
Israele possiede oggi (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce plutonio e trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia.
Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici, come il Jericho 3, e su cacciabombardieri F-15 e F-16 forniti dagli Usa, cui si aggiungono ora gli F-35. Come confermano le numerose ispezioni della Aiea, l’Iran non ha armi nucleari e si impegna a non produrle sottoponendosi in base all’accordo a stretto controllo internazionale. Comunque – scrive l’ex segretario di stato Usa Colin Powell il 3 marzo 2015 in una email venuta alla luce – «quelli a Teheran sanno bene che Israele ha 200 armi nucleari, tutte puntate su Teheran, e che noi ne abbiamo migliaia».
Gli alleati europei degli Usa, che formalmente continuano a sostenere l’accordo con l’Iran, sono sostanzialmente schierati con Israele. La Germania gli ha fornito quattro sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare. Germania, Francia, Italia, Grecia e Polonia hanno partecipato, con gli Usa, alla più grande esercitazione internazionale di guerra aerea nella storia di Israele, la Blue Flag 2017.
L’Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare (Legge n. 94, 2005), vi ha partecipato con caccia Tornado del 6° Stormo di Ghedi, addetto al trasporto delle bombe nucleari Usa B-61 (che tra non molto saranno sostituite dalle B61-12). Gli Usa, con F-16 del 31st Fighter Wing di Aviano, addetti alla stessa funzione.
Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del «Programma di cooperazione individuale» con Israele, paese che, pur non essendo membro della Alleanza, ha una missione permanente al quartier generale della Nato a Bruxelles. Secondo il piano testato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran.
Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 a Osiraq in Iraq. In caso di rappresaglia iraniana, Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.

giovedì 17 maggio 2018

Uno spettacolo grottesco a Gerusalemme



di Michelle Goldberg

Opinionista

14 Maggio 2018

Fonte: New York Times

Lunedì, Ivanka Trump, Jared Kushner e altri esponenti della destra trampista si sono riuniti in Israele per celebrare il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, un gesto ampiamente visto come uno schiaffo in faccia ai palestinesi che immaginano Gerusalemme est come la loro futura capitale.

L'evento è stato grottesco. È stata una consumazione della cinica alleanza tra i falchi ebrei e gli evangelici sionisti che credono che il ritorno degli ebrei in Israele inaugurerà l'apocalisse e il ritorno di Cristo, dopo di che gli ebrei che non si convertiranno bruceranno per sempre.

Le religioni come "il Mormonismo, l'Islam, l'Ebraismo, l'Induismo" conducono le persone "all'Inferno per l'eternità  separate da Dio ", disse una volta Robert Jeffress, un pastore della megachiesa di Dallas. Lui è stato scelto per tenere la preghiera di apertura alla cerimonia dell'ambasciata. John Hagee, uno dei più importanti predicatori americani della fine dei tempi, una volta disse che Hitler fu mandato da Dio a guidare gli ebrei verso la loro patria ancestrale. Ha dato la benedizione di chiusura.

Questo spettacolo, orientato verso la base cristiano-americana di Donald Trump, è coinciso con un massacro a circa 40 miglia di distanza. Dal 30 marzo si sono svolte proteste di massa contro il muro di separazione tra Gaza e Israele. I palestinesi di Gaza, di fronte a una crisi umanitaria sempre più grave, dovuta in gran parte al blocco israeliano, chiedono il diritto di tornare alle loro case in Israele, da cui le loro famiglie sono state costrette a partire dalla fondazione dello stato ebraico. I manifestanti sono stati per lo più, ma non del tutto, pacifici; hanno gettato pietre contro i soldati israeliani e hanno cercato di far volare aquiloni fiammeggianti in Israele. I militari israeliani hanno risposto con spari a ripetizione, proiettili di gomma e gas lacrimogeni. Negli scontri di lunedì, secondo il ministero della Sanità di Gaza, almeno 58 palestinesi sono stati uccisi e migliaia feriti.

(Jared Kushner, miliardario ebreo sionista e genero di Trump, ha pronunciato un discorso durante l'apertura dell'Ambasciata Americana a Gerusalemme)

La giustapposizione di immagini dei palestinesi morti e feriti e quella di Ivanka Trump che sorride a Gerusalemme come una Maria Antonietta sionista, ci racconta molto del rapporto dell'America con Israele in questo momento. Esso non è mai stato più vicino, ma all'interno di quella vicinanza ci sono semi di potenziale allontanamento.

I difensori delle azioni di Israele a Gaza sosterranno che nessun paese permetterebbe a una folla di caricare il suo confine. Diranno che anche se Hamas non ha organizzato le proteste, le ha sostenute. "La responsabilità di queste tragiche morti è di Hamas", ha detto lunedì un portavoce della Casa Bianca, Raj Shah.

Ma anche se si rifiuta completamente il diritto al ritorno dei palestinesi - cosa che trovo più difficile fare ora che la dirigenza israeliana ha quasi abbandonato la possibilità di uno Stato palestinese - non si scusa certo con la violenza sproporzionata dell'esercito israeliano. "Quello che stiamo vedendo è che Israele ha usato, ancora una volta, una forza eccessiva e letale contro i manifestanti che non rappresentano una minaccia imminente", mi ha detto telefonicamente Magdalena Mughrabi, vice direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Gran parte del mondo ha condannato le uccisioni di Gaza. Eppure gli Stati Uniti, il più importante patrono di Israele, gli hanno dato la mano libera per fare ciò che vogliono con i palestinesi. Infatti, trasferendo l'ambasciata a Gerusalemme, Trump ha inviato il messaggio implicito che il governo americano ha rinunciato a qualsiasi pretesa di neutralità.

I resoconti della gratitudine di Israele a Trump abbondano. Una piazza vicino all'ambasciata è stata ribattezzata in suo onore. Beitar Jerusalem, una squadra di calcio i cui tifosi sono noti per il loro razzismo, d'ora in poi si chiamerà Beitar "Trump" Jerusalem. Ma se gli israeliani amano Trump, molti americani - e certamente la maggior parte degli ebrei americani - non lo amano. Più il trumpismo e Israele si intrecciano, più gli americani di sinistra si allontaneranno dal sionismo.

Anche prima di Trump, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha contribuito ad aprire una divisione partigiana su Israele nella politica americana, dove in precedenza c'era stata un'unanimità strenua. "Fino a questi ultimi anni, non avevi mai sentito la parola 'occupazione' o 'insediamenti' o parlare di Gaza", ha detto dei politici americani Jeremy Ben-Ami, presidente del gruppo liberale filo-israeliano J Street. Ma Ben-Ami mi ha detto che dal 2015, quando Netanyahu ha tentato di colpire ai fianchi il presidente Barack Obama con un discorso controverso al Congresso contro l'accordo con Iran, i democratici si sono sentiti più coraggiosi. "Questo ha cambiato le carte in tavola per sempre", mi ha detto.

Gli eventi di lunedì possono aver cambiato ulteriormente la situazione che potrebbe peggiorare ancora. Martedì è il giorno della Nakba, quando i palestinesi commemorano la loro espropriazione, e le proteste alla recinzione dovrebbero essere ancora più ampie. "Le persone non si sentono come se potessero rimanere a casa dopo che i loro cari e vicini sono stati uccisi per aver protestato pacificamente per i loro diritti", mi ha detto via email Abdulrahman Abunahel, un attivista del BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni),  con base a Gaza.

Trump ha rafforzatociò la part peggiore di Israele, e fintanto che sarà presidente, Israele potrà uccidere i palestinesi, demolire le loro case e appropriarsi della loro terra impunemente. Ma un giorno, Trump se ne dovrà andare. Con la speranza che la soluzione dei due Stati sia quasi morta, le tendenze attuali suggeriscono che una minoranza ebraica arriverà a governare su una maggioranza musulmana largamente priva di diritti in tutte le terre sotto il controllo di Israele. Una generazione emergente di americani potrà vedere uno stato di apartheid con una piazza dedicata a Trump nella sua capitale e chiedersi per quiale ragione quello stato sia nostro amico.

(Traduzione di Diego Siragusa)

martedì 15 maggio 2018

Intervista a Vera Yammine, giornalista libanese appartenente a Al Maradah


"Vi invito a leggere la storia della Siria, perché per salvare l’uomo nel mondo moderno è necessario salvare la Siria."   


In visita a Roma la giornalista libanese appartenente a Al Maradah: "È una vittoria storica e fondamentale perché la Resistenza ha protetto e salvaguardato il Libano e il Medio Oriente da diversi pericoli.


di Stefania Russo e Vincenzo Brandi


A Roma per celebrare la liberazione del sud del Libano del 25 maggio 2000, abbiamo incontrato Vera Yammine, membro del movimento libanese Al Maradah, cristiano, appartenente alla coalizione “8 Marzo” con a capo il presidente del Libano, il generale Michel Aoun e Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah.


La vittoria alle ultime elezioni in Libano del Fronte delle forze patriottiche, “Fronte 8 marzo”, che contiene in sé sia la comunità cristiana che quella musulmana, come cambierà gli equilibri politici del Paese?


Yammine: La vittoria del Fronte della Resistenza è chiaramente l’elemento più importante per il futuro del Libano, dopo le elezioni di questo maggio. È una vittoria storica e fondamentale perché la Resistenza ha protetto e salvaguardato il Libano e il Medio Oriente da diversi pericoli. Pensiamo alla Siria, per non parlare della difesa dell’identità libanese dal pericolo sionista. Ora, dopo le elezioni, ci sarà un governo con un progetto politico che dovrà tener conto dei principi cardine della Resistenza.



È preoccupata per le continue minacce di Israele, che non gradisce questa vittoria elettorale del Fronte della resistenza libanese? Anche perché ricordiamo che ci sono dei combattenti libanesi in Siria che fronteggiano i terroristi sostenuti da Israele, dall’Arabia Saudita, dall’Occidente.


Y.: Quando noi siamo felici e Israele no, per noi va sempre bene. Salvando la Siria, la Resistenza non solo ha salvato quel Paese e la sua identità all’interno del mondo arabo, ma anche il Libano. Quindi non posso che apprezzare la Resistenza rappresentata dal partito di Hezbollah. La salvaguardia di tanti luoghi sacri della comunità cristiana in Siria dalla furia terrorista resterà un’impresa storica.


È però preoccupata dall’avanzata della destra cristiana all'interno delle elezioni? Come mai questa destra cristiana non sostiene la Resistenza in Siria contro i terroristi di origine wahabita, salafita che perseguitano i cristiani in Siria e in Iraq?


Y.: Non è detto che un cristiano debba necessariamente essere a favore della presenza cristiana in Medio Oriente. Alcune forze politiche sono in qualche modo legate a un altro disegno o fanno parte di un altro progetto. Per questo motivo tanti partiti, ad esempio, non hanno sostenuto la causa palestinese. L'estremismo si assomiglia, anche se di provenienza diversa o rappresentato da gruppi politici diversi. Ci sono partiti islamici, ad esempio, che non salvaguardano la comunità islamica, la sua l'immagine, il suo vero spirito.


Il Libano è un piccolo Paese con un grande debito estero. Fino a oggi ha dato assistenza a mezzo milione di palestinesi e adesso a quasi un milione e mezzo di profughi siriani. Come fate ad affrontare questa emergenza?

Y.: Il problema è molto complesso. Per la sua posizione geografica, così strategica, il mio Paese ha subito le conseguenze della questione palestinese. Poiché in Libano si giocano importanti interessi delle maggiori potenze internazionali, la questione dei profughi palestinesi è stata usata per destabilizzarlo e quindi indebolirlo.

 Riguardo ai profughi siriani, è essenziale che il governo libanese e quello siriano dialoghino tra loro, altrimenti come possiamo parlare della sovranità di questi due Paesi? Per il bene del Libano, i profughi siriani dovrebbero poter tornare nella loro terra. Mentre per la Siria potrebbe essere un bene che una parte dei profughi siriani rimanga in Libano. Per questo è necessario il dialogo. Molti siriani oggi in Libano sono arrivati da zone non coinvolte dal conflitto. La questione dei profughi è stata usata per colpire il governo e lo Stato siriano. Molte immagini che circolano sui profughi provengono dalla Giordania, dall’Iraq, e non dal Libano. Tanti hanno approfittato di questa questione, anche molte Ong. C’è da dire che storicamente, senza la mano d’opera siriana, molte opere in Libano non si sarebbero potute realizzare. Adesso diversi Paesi europei vorrebbero fare lo stesso usando i profughi siriani.

Il presidente Trump ha rotto l’accordo nucleare con l’Iran. Israele ogni giorno bombarda la Siria e in particolare le basi dove sono presenti militari iraniani. L'Arabia Saudita continua ad aggredire il popolo dello Yemen. Pensa si possa arrivare a una nuova guerra aperta in Medio Oriente?

Y.: Ovviamente tutti gli scenari sono possibili. Io, personalmente, escludo una guerra aperta perché l'equilibrio delle forze è cambiato. Israele non è in grado oggi di portare avanti una guerra. Colpisce le basi iraniane in Siria perché in realtà vuole offuscare il successo del governo siriano. Gli alleati, Iran, Hezbollah e la Russia, aiutano la Siria, a fronte di ben 82 Paesi che hanno contribuito alla guerra contro la Siria. Ma nessuno Stato riesce a sopravvivere se non ha dalla sua la forza della vittoria. E questo merito è dell’esercito siriano. Speriamo che l'Occidente, e l'Europa soprattutto, riescano ad approfittare, anche dal punto di vista economico, di questa rottura da parte degli Usa dell’accordo nucleare con l’Iran.


Lei dichiara che Israele non è in grado di portare avanti una guerra, ma in tanti temiamo invece che l’entità sionista sia davvero molto pericolosa, pronta a tutto. Uno Stato che alimenta e sostiene al suo interno il fanatismo e l’estremismo sionista/ebraico. Inoltre non dimentichiamo che Israele possiede centinaia di testate nucleari.

Y.: La vostra preoccupazione è comprensibile. Qualsiasi Stato così potente quando perde potrebbe reagire in modo violento. Ma questo vostro timore è proprio la reazione che Israele vuole provocare con i suoi attacchi. Non posso sapere con certezza quello che accadrà. Ma per la prima volta io mi sento tranquilla perché siamo passati dalla reazione all’azione. Questo per noi è un grande passo in avanti. Io vi invito a leggere la storia della Siria, perché per salvare l’uomo nel mondo moderno è necessario salvare la Siria.


Netanyahu è andato a Mosca. Putin troverà il modo di placare il primo ministro israeliano?

Y.: Nella politica non ci sono affetti. Ma il politico che conosce bene gli interessi del proprio Paese sa anche riportare il suo Paese nella sfera d’influenza della comunità internazionale. Ed è quello che Putin è riuscito a fare. Avendo questa capacità e conoscenza, di sicuro riuscirà anche a consigliare Netanyahu di non fare passi falsi.



Notizia del: 14/05/2018