giovedì 26 luglio 2018

CON UN ATTO IMMOTIVATO E ARBITRARIO, FACEBOOK HA BLOCCATO LA MIA PAGINA PER 30 GIORNI.



di Diego Siragusa


CON UN ATTO IMMOTIVATO E ARBITRARIO, FACEBOOK HA BLOCCATO LA MIA PAGINA PER 30 GIORNI. NON SI COMPRENDE QUALE SAREBBE LA PUBBLICAZIONE CHE ABBIA VIOLATO I CRITERI DI ACCESSO A FB. QUESTA E' LA SECONDA VOLTA NELL'ARCO DI ALCUNI ANNI CHE FACEBOOK BLOCCA LA MIA PAGINA IN MODO CENSORIO E IN VIOLAZIONE DELL'ART. 21 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA. SI TRATTA, QUASI CERTAMENTE, DELL'INTERVENTO DEGLI EBREI SIONISTI INFASTIDITI DALLE NOTIZIE CHE PUBBLICO E COMMENTO NONCHE' DAGLI ARTICOLI DI ESPONENTI DELLA CULTURA E DEL GIORNALISMO, SPESSO ISRAELIANI, CHE ATTACCANO LA DERIVA RAZZISTA E GENOCIDARIA DELLO STATO DI ISRAELE. NON TROVO ALTRE GIUSTIFICAZIONI. COLORO CHE PENSANO CHE L'ATTUALE GOVERNO SEGNI UNA DISCONTINUIITA' COL PASSATO, ED IO NON SONO FRA QUESTI, DOVREBBERO ADOPERARSI AFFINCHE' L'ATTIVITA' INFAME DI COLORO CHE SOVRINTEDONO A FACEBOOK SIA PERSEGUITA DALLE LEGGI ITALIANE. SONO STATOAPPENA INFORMATO CHE LA PAGINA DELLA SEZIONE DELL'A.N.P.I. DI BRESCIA E' STATA BLOCCATA, PRESUMO CON IDENTICHE, FALSE MOTIVAZIONI.  VI PREGO DI DARE AMPIA DIFFUSIONE A QUESTO MIO MESSAGGIO E VI INVITO A SEGUIRE LE PUBBLICAZIONE NEL MIO BLOG: https://diegosiragusa.blogspot.com/

mercoledì 25 luglio 2018

LA RIFONDAZIONE DEL MESSICO Il presidente Obrador



di Livio Zanotti


Non si tratta di retorica nazionalista, bensì dell’unico orizzonte su cui può operare una politica che pretenda di essere seria e credibile: quello di una rifondazione della più grande nazione di lingua spagnola del mondo, uno dei due maggiori interlocutori economico-commerciali dell’Italia in America Latina. E’ più necessità che ambizione. Le difficoltà da superare sono ciclopiche. Ma in un Occidente percorso da rigurgiti di autarchia e fremiti entropici, il Messico si presenta come un proposito aperto in se stesso e all’esterno, all’Europa in particolare, dove cerca testimoni e partner.  Può divenire un esempio.

E’ il progetto che il sessantaquattrenne Andrés Manuel Lopez Obrador, il leader di centro-sinistra eletto da una maggioranza senza precedenti, sta assemblando pezzo a pezzo per cominciare a porlo in atto nel prossimo dicembre, quando assumerà la presidenza della Repubblica. C’è anche questo richiamo in quel grande ritratto di Benito Juarez, primo Presidente indigeno d’America (1861), che AMLO aveva alle sue spalle nell’ufficio da sindaco di Città del Messico e il solo oggetto che ha portato a casa lasciando l’incarico. L’indio Juarez aveva vissuto negli Stati Uniti, ne aveva studiato il sistema istituzionale e cercato vanamente il sostegno.

La via che si propone d’intraprendere il nuovo Messico è una prova del destino, come nei miti antichi: obbligata e cosparsa di ostacoli mortali.  Solo una visione complessiva e integrata dei fattori di crisi che lo stanno soffocando può consentire di predisporre e portare avanti la sua salvezza. Alle centinaia di migliaia di assassinati, sequestrati, desaparecidos, ai loro familiari e amici che ora rivendicano giustizia, corrisponde una caduta della ricchezza prodotta che solo l’anno scorso è stata del 21 per cento. La paura come stato d’animo quotidiano è sconosciuta a ben pochi dei 130 milioni di messicani e un affare solo per i caciques dei cartelli della droga.

L’aggressivo protezionismo di Trump è l’ultima sciagura. Per la salute dell’economia era già veleno la vertiginosa polarizzazione, che come una faglia a rischio sismico squarcia la società; al punto che 4 pluri-miliardari in dollari hanno sul ciglio opposto del burrone sessantadue milioni di poveri dichiarati tali dall’ufficio nazionale di statistica. Il riformismo di Obrador deve perciò intervenire a 360 gradi e per farlo ha bisogno di un nuovo paradigma, capace di sopportare altezza e densità delle speranze che hanno messo insieme i 25 milioni di voti ricevuti. Una massa di suffragi inevitabilmente eterogenea. Dunque tutt’altro che facile da mantenere unita.



Palacio de Bellas Artes, Città del Messico

AMLO sta promuovendo ampi comitati di esperti convocati dalla società civile e dall’estero (ha preso contatto anche con Papa Francesco), oltre che dal proprio Movimento di Rigenerazione Nazionale (MORENA). Sommati dovrebbero configurare un dibattito generale sulle problematiche più urgenti. Dalla corruzione dello stato alla violenza del narcotraffico, alla recessione economica, all’emarginazione dei popoli originari. E attraverso fasi aperte alternate ad altre ristrette e riservate, aspirano a mobilitare l’opinione pubblica nei 4 mesi e mezzo che mancano all’entrata in funzione del governo. Alcuni ministri potrebbero anche uscire da queste convenzioni, altri vengono designati in questi giorni da Obrador. I primi contrasti interni all’universo popolare scaturiscono però da valutazioni politiche opposte.

Sebbene significativo, il primo non ha sorpreso. L’auto-denominato Esercito Zapatista di Liberazione (EZLN) e il suo Comandane Marcos, storici e vivaci protagonisti del pacifico insurrezionalismo indigeno nel Chiapas, hanno confermato le critiche a Obrador, già espresse in campagna elettorale: “il nuovo Presidente vuole rinnovare le élites che governano, non il capitalismo che praticano”. A sinistra, più di un esponente storico del comunismo messicano (che in un momento fu vicino al cosiddetto Eurocomunismo) pronuncia parole analoghe. Il dissenso più concreto in termini politico-istituzionali, che potrebbe portare a una frattura multipla nella base più militante, è avvenuto invece sul terreno della democrazia sostanziale.

Obrador ha respinto la richiesta del vasto e attivissimo associazionismo (oltre 300 gruppi) che da anni si batte per una riforma costituzionale capace di garantire alla Procura Generale della Repubblica, cioè alla magistratura inquirente, l’assoluta indipendenza dal potere esecutivo. In definitiva -a questo punto- da lui stesso. La questione è di principio. Ma è anche molto diffusa la preoccupazione che la dilagante vittoria del partito del Presidente, MORENA, e della coalizione che lo ha affiancato, possa richiamare nelle sue file i profittatori in fuga dal vecchio regime sconfitto. Il trasformismo politico non conosce frontiere. E il grado di autonomia del potere giudiziario in una situazione compromessa come quella messicana è un dato fondamentale.


Ma la visione di AMLO è d’opportunità oltre che di principio. E’ anche quella di un leader non privo di personalismi. La priorità dichiarata è il riconoscimento dei diritti storici delle dimenticate 68 etnie indigene messicane. Sta intanto trattando un patto con i grandi imprenditori che nella quasi totalità gli sono stati ostili, per rilanciare produzione e occupazione. Intende ridurre il costosissimo e fallimentare impegno militare nella lotta ai cartelli della droga, per concentrarne lo sforzo sulla persecuzione dei loro stratosferici profitti. Prevede una generosa amnistia: offrire una possibilità di riscatto non ai capi e ai killer del narcotraffico e della criminalità comune, bensì alle migliaia di emarginati complici o contigui. E in qualche modo comprendervi i reati minori di corruzione.

Il nuovo Presidente è uno sperimentato esploratore della società e della politica messicane, di cui conosce debolezze e pericolosità. Pertanto ben consapevole d’essere sul punto d’inoltrarsi in un’intricatissima giungla d’interessi contrastanti ma profondamente radicati; popolata da protagonisti potenti e feroci, organizzati per clan e abituati a vedere come una preda lo stato, a sua volta ostaggio delle corporazioni. Egli mira adesso a rovesciargli contro la pratica del dividi et impera da essi finora perseguita attraverso la corruzione e la minaccia. La sua maggioranza controlla il Congresso e 29 dei 31 stati della Federazione, ha fama di abilissimo negoziatore e non rinuncia a nessuna delle sue prerogative, vuole mani libere.

sabato 21 luglio 2018

L'EBREO SIONISTA MAX SIMON NORDAU SUI MATRIMONI MISTI



Vi presento Max Simon Nordau, ebreo sionista. In questa parte di lettera indirizzata a Herzl sono contenute le aberrazioni fondamentali degli ebrei sionisti: il nazionalismo, il rifiuto dei matrimoni misti, e l'esaltazioone della propria razza come superiore alle altre razze. Tutti i crimini di cui si macchiano sono la diretta conseguenza di questa esaltazione suprematista. 


Max Simon Nordau, nato Simon Maximilian Südfeld (in ungherese: Simon Miksa Südfeld; Pest, 29 luglio 1849 – Parigi, 23 gennaio 1923), è stato un sociologo, medico, giornalista e leader sionista ungherese. Cofondatore, insieme a Theodor Herzl, della Organizzazione sionista mondiale, è stato presidente o vicepresidente di numerosi congressi sionisti.

"Mia moglie è una cristina protestante; naturalmente per la mia formazione sono contrario a ogni forma di coercizione in materia di sentimenti e preferisco l'umano al nazionale. Tuttavia oggi ritengo che debba prevalere il principio nazionale e considero i matrimoni misti assolutamente inauspicabili. Se dovessi conoscere mia moglie oggi, o l'avessi conosciuta negli ultimi otto mesi, combatterei strenuamente la mia inclinazione per lei e mi direi che, in quanto ebreo,  non ho il diritto di farmi vincere dalle emozioni (...) Ho amato mia moglie prima di diventare sionista e non ho il diritto di punirla per le persecuzioni che la sua razza ha perpetrato contro la nostra." 

(Lettera di Nordau a Herzl e datata 22 gennaio 1898)

giovedì 19 luglio 2018

ISRAELE APPROVA LA LEGGE DEL TOTALITARISMO EBRAICO


di Gideon Levy

Haaretz, Israele
19 luglio 2018 


Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.

Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
Le proteste contro la proposta di legge erano nate soprattutto come un tentativo di conservare la politica di ambiguità nazionale.

Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata “un’arma nelle mani dei nemici di Israele”, mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue “conseguenze internazionali”. La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge.

Era bello dire che l’apartheid riguardava 
solo il Sudafrica

Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe “scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come stato ebraico e democratico”. Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida “per stati nazionalisti come Polonia e Ungheria”, come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.

Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no).

Ma quanto siamo illuminati. La nostra corte suprema ha stabilito, nel caso dei Kaadan, che una famiglia araba poteva comprare una casa a Katzir, una comunità ebraica, solo dopo anni di dispute. Quanto siamo tolleranti nel consentire agli arabi di parlare arabo, una delle lingue ufficiali. Quest’ultima è chiaramente una menzogna. L’arabo non è mai stato neanche remotamente trattato come una lingua ufficiale, come succede invece per lo svedese in Finlandia, la cui minoranza è nettamente più piccola di quella araba in Israele.

Era comodo ignorare che i terreni di proprietà del Fondo nazionale ebraico, che includono buona parte delle terre dello stato, erano riservati ai soli ebrei, una posizione sostenuta dalla corte suprema, e affermare che fossimo una democrazia. Era molto più piacevole considerarci egualitari.

Adesso ci sarà uno stato che dice la verità. Israele è solo per gli ebrei, anche sulla carta. Lo stato nazione del popolo ebraico, non dei suoi abitanti. I suoi arabi sono cittadini di seconda classe e i suoi abitanti palestinesi non hanno statuto, non esistono. Il loro destino è determinato da Gerusalemme, ma non sono parte dello stato. È più facile per tutti così.

Rimane un piccolo problema con il resto del mondo, e con l’immagine d’Israele che questa legge in parte macchia. Ma non è un grave problema. I nuovi amici d’Israele saranno fieri di questa legge. Per loro sarà una luce che illumina le nazioni. Tanto le persone dotate di coscienza di tutto il mondo conoscono già la verità, e da tempo devono farci i conti. Sarà un’arma nelle mani del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele)? Sicuramente. Israele se l’è guadagnata, e ora ne ha fatto una legge.

(Traduzione di Federico Ferrone)

venerdì 13 luglio 2018

IL QUOTIDIANO LA STAMPA, CHIAMATO DAI TORINESI "LA BUSIARDA", E' IL VESSILLIFERO DEL SIONISMO ITALIANO


di Amedeo Rossi


Per chi non lo sapesse, due giorni fa il consiglio comunale di Torino ha votato una mozione, approvata all'unanimità, tranne il voto contrario del rappresentante della Lega e l'uscita dall'aula della sindaca e dei consiglieri del PD (tranne due, che hanno votato a favore), di condanna delle stragi perpetrate contro i manifestanti di Gaza e si chiede l'embargo delle forniture militari a Israele.
Ciò ha provocato la durissima reazione della comunità ebraica locale, di quella nazionale e dei vari gruppi filo-israeliani più accaniti.
"La Stampa" ha dato ampissimo spazio alle ragioni di questi ultimi, ignorando gli argomenti e le voci a favore della mozione. Ieri è comparso un articolo in questo senso ed oggi le stesse posizioni vengono riproposte con evidenza ancora maggiore, mentre viene quasi del tutto ignorata la posizione favorevole alla condanna di Israele dell'intellettuale ebreo Moni Ovadia, che ovviamente smentirebbe le accuse di antisemitismo. Accludo in allegato l'articolo in questione.
Su questa questione abbiamo avviato l'invio di lettere di protesta alla garante dei lettori de "La Stampa". La garante è già intervenuta in seguito alle proteste di alcuni lettori contro il modo in cui il giornale ha raccontato gli eventi di Gaza. Oltretutto si tratta di un metodo di pressione messo ampiamente in atto dai filo-israeliani, soprattutto in USA ma anche in Italia (vedi il sito "Informazione corretta").
Vi chiediamo quindi di mandare lettere di protesta in cui in sintesi si dice che:

1. L'edizione odierna del giornale riprende  quanto già scritto ieri, ripetendo le stesse argomentazioni degli oppositori alla mozione, mentre anche in questo caso ignora totalmente le ragioni di chi invece è favorevole;
2. Ignora quasi del tutto la presa di posizione a favore della mozione da parte del più famoso intellettuale ebreo italiano, Moni Ovadia, ignorandone le argomentazioni;
3. Riferisce di nuove prese di posizione contrarie alla mozione, in questo caso da parte di Pezzana, che ribadisce opinioni già espresse da altri;
4. Insiste sul concetto, già esternato ieri dagli stessi personaggi, secondo cui la critica contro il governo di Israele rappresenta una manifestazione di antisemitismo, cosa evidentemente falsa, come dimostra ad esempio la presa di posizione di Moni Ovadia.
5. Nella polemica il giornalista ignora totalmente il fatto che innumerevoli rapporti e denunce da parte di organizzazioni terze, tra cui Amnesty International, Human Right Watch, agenzie ONU, ecc. hanno denunciato da tempo il comportamento delle truppe israeliane ed il massacro di civili, come denunciato dalla mozione approvata, e hanno chiesto l'embargo della fornitura delle armi a Israele.

Vi preghiamo quindi di mandare lettere di protesta ed invitare altri posti conoscenti a fare altrettanto al seguente indirizzo della garante dei lettori:


Vi chiediamo anche di informarci delle lettere inviate.
Cordiali saluti

martedì 10 luglio 2018

Wikileaks rivela i garanti politici degli interessi USA in Italia


09 Luglio 2018 

di Francesco Galofaro

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Purgatorio, VI, 76-78.

L'Espresso e Repubblica mantengono da tempo un archivio on line di documenti segreti o riservati “spifferati” da Wikileaks e che riguardano l'Italia [1]. Si tratta per la maggior parte di cablogrammi dell'ambasciata americana. In questo archivio si trova di tutto: dal caso Calipari ai tentativi italiani di salvare gli USA dalle inchieste della corte dell'Aia al rapimento di Abu Omar. Emerge un ritratto a tinte fosche dei protagonisti della storia recente, specie a confronto con le immaginette oleografiche proposte dalla stampa nostrana.

Purtroppo, non tutti i documenti sono tradotti. In questo articolo ne presento tre. Mi sembrano utili per affrontare il problema della sovranità nazionale e del patriottismo da un punto di vista che – è bene che lo dichiari subito  – è quella di un uomo della sinistra. Dai documenti che ho scelto emerge con chiarezza come alcuni personaggi-chiave della politica italiana recente abbiano svolto il ruolo di rappresentante degli interessi statunitensi in Italia, tanto nei governi di centrosinistra quanto in quelli di centrodestra. E' anche molto chiaro come l'interesse nazionale italiano sia stato spesso sacrificato sull'altare dell'amicizia nei confronti dello scomodo alleato.

Marzo 2006: Marco Minniti garantisce 
per Fausto Bertinotti

Due mesi prima della fiducia al secondo governo Prodi, che subentrava al governo Berlusconi, un cablogramma riferisce di un incontro tra diplomatici statunitensi e Marco Minniti, avvenuto il 13 marzo 2006 [2]. Durante l'incontro, Minniti promette continuità in politica estera rispetto al governo di centrodestra su temi come l'impegno militare in Iraq e l'Afghanistan. Si fa sostenitore del programma di sviluppo congiunto di nuovi caccia Joint Strike Fighter, che comprende un trasferimento di tecnologie tra USA e Italia; rassicura sul fatto che i programmi militari della UE non sono in competizione con gli Stati Uniti. Last but not least, garantisce che l'Italia sarà a fianco degli USA contro l'Iran, nonostante i nostri interessi economici nella regione.

Rispetto alla partecipazione al governo di Rifondazione comunista, nel cablo leggiamo: «il leader del Partito della Rifondazione Comunista (RC) Fausto Bertinotti si è impegnato a rimanere nel governo e a non ripetere il suo precedente errore di far cadere il governo di Romano Prodi su una questione di bilancio. Di conseguenza, Minniti ritiene che Bertinotti si concentrerà su questioni interne».

Che cosa spinge un politico italiano a proporsi come esecutore della politica estera USA? Per comprenderlo, occorre calarsi nella psicologia del personaggio. Ecco il ritratto di Minniti che emerge dal cablogramma d'ambasciata. Minniti si fa trovare dall'ambasciatore con una scrivania invasa da bandierine e soldatini: «figlio di un pilota dell'aeronautica italiana, l'ufficio di Minniti era coperto da modellini di velivoli militari e cimeli della NATO, che ha ammesso essergli stati procurati da alcuni dei suoi colleghi più accondiscendenti». Secondo l'autore del cablo, a spingere Minniti è la nostalgia «per i giorni in cui coordinava personalmente l'impegno militare italiano nei Balcani con gli USA e la NATO. Era compiaciuto che il governo USA si interessasse nuovamente a lui». Ecco il ritratto di Minniti: un personaggio ambizioso, che ha visto giorni migliori ed è costretto a un ruolo di secondo piano; un personaggio che spera «in una posizione importante nel futuro governo di centrosinistra».

Alla fine Minniti passa l'esame: «A dire il vero, l'inclinazione europea di Prodi presenta ancora una sfida e la potenziale influenza dell'estrema sinistra rimane sconosciuta, ma il centro-sinistra contiene persone come Minniti con cui possiamo lavorare».

2003: Gianni Letta e il GPS europeo

Come abbiamo visto, Minniti era pronto a sacrificare allegramente le relazioni economiche che nel 2006 il Paese aveva con l'Iran. In cambio, si proponeva come l'uomo del dialogo con gli USA. Questo genere di funzione è molto ambita tanto nei governi di sinistra quanto in quelli di destra. Un cablo del 2003 ci racconta come gli USA chiesero a Gianni Letta, fidato consigliere di Berlusconi, un impegno a modificare il progetto Galileo [3]. Di che si tratta? Occorre sapere che il servizio GPS, il sistema di posizionamento satellitare che fa funzionare telefonini e navigatori, è un retaggio della guerra fredda ed è garantito da una rete di satelliti americani. Per questo motivo, a partire dal 2003 l'Unione Europea, attraverso l'Agenzia Spaziale Europea, ha sviluppato Galileo: una propria rete di satelliti tecnologicamente più avanzata, entrata ufficialmente in funzione solo nel 2016. A preoccupare gli americani sono chiaramente gli utilizzi di Galileo in campo aeronautico e navale, e dunque militare: una rete satellitare autonoma rappresenta una delle condizioni necessarie a ridurre la dipendenza della UE dagli USA in questo campo. Stando al cablo, Letta nomina altri supporter degli interessi americani nel governo Berlusconi, in particolare l'allora ministro della difesa Martino. Maggiori preoccupazioni suscitano negli USA il ministro dell'economia e il generale Tricarico, che allora era consigliere di Berlusconi per l'esercito e la sicurezza.

Maggio 2006: La famiglia Letta

Ritorniamo al 2006 e al governo Prodi. Minniti non è il solo garante degli interessi americani in Italia. Il nipote di Gianni Letta, Enrico, svolge nel centrosinistra le stesse mansioni dello zio nell'esecutivo precedente, come testimonia un cablo datato 24 maggio 2006 [4]. Secondo il resoconto, Letta si dichiara “very pro-US”. L'ambasciatore USA gli spiega che nulla danneggerebbe le relazioni reciproche più di un mandato di cattura per gli agenti CIA responsabili del rapimento di Abu Omar. Ricordiamo che l'imam di Milano fu rapito illegalmente dalla CIA nel 2003, tradotto in Egitto, torturato, e infine liberato nel 2007. Nel 2013 Obama chiese agli Italiani di graziare gli agenti CIA coinvolti. Non passò qualche giorno, e subito Napolitano concesse la grazia al colonnello Joseph Romano; nel 2015 Mattarella graziò Robert Seldon Lady e Betnie Medero; nel 2017 fu la volta di Sabrina De Sousa.

Ma non è tutto: nel cablo l'ambasciatore rimprovera aspramente Romano Prodi per un suo discorso davanti alle Camere sull'Iran: pur consapevole degli interessi economici dell'Italia in Iran, definiti “significativi”, chiede a Letta appoggio sulle sanzioni. Letta assicura la convergenza della posizione italiana con quella della UE, e supporto alle posizioni americane su Israele. Infine, all'epoca era in atto una riduzione di organico alla base militare pisana di Camp Darby. Letta fa presente che la cosa sta causando problemi con l'estrema sinistra, chiede di mitigare la ristrutturazione e al contempo assicura di credere che la presenza di basi militari in Italia sia un bene.

Riflessioni sul patriottismo

I cablogrammi pubblicati da l'Espresso non raccontano solo una storia di asservimento. Raccontano anche le preoccupazioni USA per le posizioni italiane su Iran, Russia, Libia, sui rapporti tra ENI e Gazprom, sull'ostilità della Lega di Bossi alla missione in Afghanistan. La politica estera dei governi italiani è evidentemente frutto della dialettica tra i rappresentanti di interessi diversi, talvolta opposti. Questo vale sempre, e probabilmente si può dire anche del governo in corso.

Esiste un “interesse nazionale”? La prima risposta che darei, parafrasando Hegel, è che ciò che si spaccia per interesse di tutti è di solito semplicemente l'interesse prevalente. Sarebbe molto facile dunque convenire con una semplificazione, per la quale esistono solo gli interessi di due parti della borghesia: la grande borghesia cosmopolita, senza patria, educata al liberalismo in qualche college inglese, sacrifica volentieri gli interessi italiani alla coltivazione dei propri interessi e relazioni internazionali; la piccola borghesia, che parla in dialetto le piccole aziende, gli artigiani, pagano le spese della competizione globale e spacciano per interesse nazionale la tutela dalla rovina, dal fallimento, dalla proletarizzazione. Per questo è più propensa a chiedere che lo Stato si impegni in conflitti commerciali oppure – in altri periodi storici – in guerre vere e proprie. Dunque, alcuni pensano che la sinistra dovrebbe disinteressarsi a questo genere di conflitti. Tuttavia, anche in questo caso la questione non è così semplice. In primo luogo, le contraddizioni sono per elezione il luogo dove esercitare l'azione politica, specie quando le forze sono scarse e vanno economizzate. Inoltre, occorre notare che il proletariato, definito come chi non controlla i mezzi di produzione e l'economia – e quindi: lavoratori tradizionali pubblici e privati, precari, partite IVA, disoccupati ecc. - costituisce pur sempre la maggioranza assoluta del Paese, il famoso 99%. Per questo motivo è possibile parlare di un interesse nazionale che è anche interesse popolare. Perciò, secondo Hegel, la composizione tra l'interesse collettivo, positivo, e quello individuale, negativo, avviene nello Stato: una forza politica che non sia in grado di capire quale sia questo interesse non si presenterà mai con un programma di governo credibile e sarà condannata per forza di cose ad essere minoritaria e testimoniale. Occorre tenerlo presente nel dibattito su come costruire una forza di sinistra autenticamente laburista e popolare, che sappia rientrare in gioco. Una forza che costruisce il proprio punto di vista autonomo criticando quanto c'è da criticare e dialogando quando c'è da dialogare, senza sommare le proprie forze a quelle dei liberali in piena disfatta. Quel che fa impressione è che queste posizioni, che definirei patriottiche, erano parte del DNA stesso della sinistra, e costituivano un ponte tra il modo di pensare di un Partigiano e quello degli attivisti che protestavano contro le basi militari fino agli anni '80. Fa pensare come l'attuale sinistra radicale, globalista, alternativa e un po' world music, abbia finito per considerare “di destra” e addirittura “fascista” ogni tentativo di ragionare seriamente su questi problemi: come inserirsi nella dialettica politica attuale facendo prevalere gli interessi popolari, supportando le forze centrifughe rispetto alla NATO e alle sue cinghie di trasmissione internazionali, finanziarie e militari.

[1]      http://racconta.espresso.repubblica.it/espresso-wikileaks-database-italia/index.php
[2]      http://racconta.espresso.repubblica.it/espresso-wikileaks-database-italia/dettaglio.php?id=85
[3]      http://racconta.espresso.repubblica.it/espresso-wikileaks-database-italia/dettaglio.php?id=67
[4]      http://racconta.espresso.repubblica.it/espresso-wikileaks-database-italia/dettaglio.php?id=84

FONTE: Marx21

lunedì 9 luglio 2018

Spot televisivo della ministra Trenta sugli F-35

(La pentastellata Ministra della Difesa col superfalco americano John Bolton)

di Manlio Dinucci


«Non compreremo altri F-35»: lo ha dichiarato il 6 luglio a Omnibus su La7 la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Parole che hanno fatto sensazione: è arrivato finalmente il governo che «taglierà le ali agli F-35»? Non proprio. La Trenta ha spiegato che, dall’analisi che sta facendo, potrebbe «scoprire che tagliare costa più che mantenere poiché ci sarebbero delle forti penali». In realtà, ricorda GIuseppe Civati, la Corte dei Conti ha già chiarito che la partecipazione al programma dell’F-35 non è soggetta a penali contrattuali. La Trenta fa inoltre presente che, intorno all'F-35, c'è un indotto tecnologico e occupazionale che verrebbe a sua volta tagliato. Ipotizza quindi che, puttosto che tagliare, l’Italia potrebbe dilazionare nel tempo l’acquisto dei previsti 90 F-35. Per cui resterebbero sempre 90. 

Nella vulgata televisiva la ministra Trenta trascura di chiarire ai telespettatori le questioni nodali. Anzitutto il fatto che l’Italia è non solo acquirente ma partner di secondo livello del programma F-35 capeggiato dalla statunitense Lockheed Martin, prima produttrice mondiale di armamenti aerospaziali e missilistici.  Uno dei programmi di punta della Lockheed Martin è quello dell’F-35 Lightning II, definito «il più avanzato caccia multiruolo del mondo». Se ne producono tre modelli: a decollo ed atterraggio convenzionali (A), a decollo corto e atterraggio verticale (B) e come variante per le portaerei (C). Negli Stati uniti la rete produttiva dell’F-35 comprende oltre 1400 aziende in 46 stati e a Puerto Rico, che producono migliaia di componenti del caccia. Al programma dell’F-35 partecipano otto partner esteri: Australia, Canada, Danimarca, Gran Bretagna, Italia, Norvegia, Olanda e Turchia. Altri acquirenti sono Israele, Giappone e Corea del Sud.

(Elisabetta Trenta con Luigi di Maio)

La Trenta sembra anche ignorare che l’adesione dell’Italia al programma dell’F-35, quale partner di secondo livello, rinsalda l’ancoraggio agli Stati uniti, che il governo di cui fa parte definisce «alleato privilegiato» dell’Italia. La partecipazione al programma F-35 lega ancor più il complesso militare industriale italiano al gigantesco complesso militare-industriale statunitense. La decisione di partecipare al programma dell’F-35 è quindi essenzialmente una scelta politica,. 

La Trenta non dice che la principale industria militare italiana – la Leonardo (già Finmeccanica), presente in 180 siti nel mondo – fornisce negli Usa prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d’intelligence. Per questo è stata affidata alla Leonardo, in Italia,  la gestione dell’impianto Faco di Cameri (Novara), nel quale vengono assemblati i caccia F-35 destinati all’Aeronautica e alla Marina italiane e parte di quelli ordinati dall’Olanda. I siti di Foggia e Nola realizzano le parti in composito e metalliche del cassone alare completo, del quale la Leonardo è seconda produttrice anche per gli F-35 delle Forze armate statunitensi. 

La Trenta si è soprattutto dimenticata di annunciare la grande notizia: dieci giorni fa, in base a un contratto stipulato dalla Lockheed Martin con la U.S. Navy, è stato stabilto che Cameri sarà uno dei cinque centri mondiali (tre negli Usa, uno in Australia e uno in Italia)  per la manutenzione, la riparazione e l’ammodernamento degli F-35,  

La Trenta tace anche sul fatto che, oltre ai potenti interessi del complesso militare-industriale, l’F-35 è legato alla strategia nucleare Usa/Nato.Per usare tutte le capacità della nuova bomba nucleare B61-12, che dal 2020 il Pentagono schiererà in Italia e altri paesi europei, occorrono i nuovi caccia F-35A. Ciò comporta la soluzione di altri problemi tecnici, che si aggiungono ai numerosi verificatisi nel programma F-35. Il complesso software del caccia, che è stato finora modificato oltre 30 volte, richiede ulteriori aggiornamenti. Per modificare i primi 12 F-35 l’Italia dovrà spendere circa 400 milioni di euro, che si aggiungono alla spesa ancora inquantificata (stimata in 13-16 miliardi di euro)  per l’acquisto dei 90 caccia e per il loro ammodernamento. Soldi che escono dalle casse dello Stato (ossia dalle nostre), mentre quelli ricavati dai contratti per la produzione dell’F-35 entrano nelle casse delle industrie militari.

Tutto questo la Trenta non l’ha raccontato nello spot pubblicitario  a Omnibus, assicurando che sarà il suo ministero a «decidere tenendo esclusivamente conto dell'interesse nazionale». Quando invece c’è un unico modo per garantire l’interesse nazionale: uscire completamente dal programma F-35.

(il manifesto, 7 luglio 2018)