La crescita
delle disuguaglianze spiega la stagnazione economica?
L’orribile
dubbio dei liberisti
di Kostas Vergopoulos
professore emerito di
Scienze economiche all’Università Parigi-VIII.
(traduzione dal
francese di José F. Padova)
L’arricchimento di una minoranza stimolerebbe la crescita,
favorendo così la riduzione della disoccupazione e il miglioramento delle
condizioni di vita dei poveri: questo postulato ha lungamente determinato il
destino degli Stati Uniti. Mentre le classi popolari continuano a soffrire per
la crisi e il fossato sociale aumenta, questo “credo” si trova oggi rimesso in
discussione non soltanto dal presidente Barack Obama, ma anche da economisti
liberali che tempo addietro lo avevano ardentemente difeso.
Nello stagno dei dibattiti sull’avvenire del capitalismo il
proverbiale sasso non è stato lanciato da un contestatore patentato, ma da uno
dei più ardenti difensori del sistema: Lawrence Summers. Già presidente di
Harvard, costui si rese famoso per la sua smania di deregolamentazione bancaria
quando occupava il posto di ministro delle Finanze durante la seconda
Amministrazione Clinton (1999-2001). Nominato da Barack Obama direttore del
Consiglio economico nazionale (National Economic Council, NEC), funzione da lui
svolta fino al 2010, ormai è prodigo di consigli per il mondo della finanza (il
Fondo speculativo D.E.Shaw fra il 2008 e il 2009 gli ha versato 5,2 milioni di
dollari), in particolare nel corso di conferenze pagate fino a 135.000 dollari
ognuna. Nulla ci si poteva aspettare da lui che suscitasse il minimo rimescolio
contestatario.
Il sasso ha toccato la superficie dell’acqua in occasione
della conferenza annuale del Fondo monetario internazionale (FMI) (1), svoltasi
a Washington il 7 e 8 novembre 2013. «E se il capitalismo si fosse messo da sé
nella trappola di una “stagnazione secolare”?», si è chiesto l’amico dei
banchieri. «Quattro anni fa siamo riusciti a troncare il panico finanziario, il
denaro del piano di salvataggio è stato rimborsato, il mercato del credito è
stato risanato. ( … ) Tuttavia il tasso di attività non è variato e la crescita
rimane debole». Summers continua il suo ragionamento sul Financial Times:
constatando che la Riserva Federale (la Banca centrale americana), praticando
già tassi d’interesse vicini allo zero, non aveva più alcun margine di manovra
supplementare per rilanciare l’attività, suggerisce che le bolle sono diventate
una stampella necessaria alla crescita (2).
Quattro indicatori fondamentali, tutti orientati al ribasso,
spiegano quest’umore cupo: da tre decenni continua il ribasso del tasso
d’interesse naturale [i termini seguiti da un asterisco sono esplicitati nel glossario],
vale a dire quello del profitto; la flessione, da tredici anni, della
produttività del lavoro; la contrazione della domanda interna dopo gli anni
’80; e infine la stagnazione, e addirittura, la regressione dell’investimento
produttivo e della formazione lorda di capitale fisso dopo il 2001, malgrado le
massicce iniezioni di stimolante monetario praticate di volta in volta da Alan
Greenspan e dal suo successore alla testa della Federal Reserve, Ben Bernanke.
Risultato: preoccupati di assicurare la loro sopravvivenza,
i detentori di capitali non cercherebbero più di massimizzare i loro profitti
dopando la produzione, bensì accrescendo i loro prelievi sul valore aggiunto -
anche a costo di una contrazione della crescita. Il sistema sarebbe senza via
di scampo, nessuna medicina sembrerebbe capace di trarlo dall’incaglio e per di
più affronterebbe difficoltà sociali che aggravano la «corrosione»
dell’edificio. Da una parte, l’aumento delle disuguaglianze logora le classi
medie, ritenute garanti della stabilità sociale, delle istituzioni e della
democrazia; dall’altra, la disoccupazione di massa provoca allo stesso tempo
una perdita di reddito (per la nazione) e di profitti potenziali (per il
capitale).
Imprese che non investono più
Quando furono pronunciate le parole «stagnazione secolare»
cominciarono a piovere le reazioni, che furono di perplessità presso i
progressisti, stupiti di riconoscersi nella costatazione dell’«irriformabilità»
del capitalismo, posta da uno dei loro avversari ideologici dichiarati; e
negative presso i conservatori, addolorati di vedere uno dei loro così roso dai
dubbi. A questi ultimi il dissidente comunque ricordò che: «Non bisogna
confondere previsioni e raccomandazioni (3)».
Il timore di Summers è stato in un primo momento percepito
come un eco della diagnosi formulata negli anni ’30 dall’economista americano
Alvin Hansen (1887-1975) (4). Tuttavia la «stagnazione secolare», che questi
prospettava, derivava soprattutto dal rallentamento della crescita demografica
e dall’esaurimento delle grandi innovazioni tecnologiche suscettibili di
infondere una seconda giovinezza al sistema economico. La sua analisi si
accostava ugualmente a quella di John Maynard Keynes (1883-1946), pessimista
sull’avvenire del capitalismo ma convinto che la crisi doveva (e poteva) essere
evitata. Tuttavia Summers, da parte sua, non evoca né il fattore demografico,
né un qualsiasi esaurimento delle innovazioni tecnologiche. Egli basa la sua
valutazione sul bilancio empirico dei tre ultimi decenni.
La destra neoliberista gli rimprovera di aver invertito la
catena delle causalità: le bolle finanziarie non avrebbero stimolato la
crescita, ma condotto in un vicolo cieco; i pessimi risultati economici dei
Paesi occidentali non spiegherebbero il loro superindebitamento, ma ne
sarebbero la conseguenza. L’ex membro del Direttorio della Banca Centrale
Europea (BCE) Lorenzo Bini Smaghi ritiene così: «Non è l’austerità che
indebolisce la crescita, ma il contrario: è la debolezza della crescita che
rende necessaria l’austerità (5)». Alcuni arrivano fino ad appellarsi a Keynes
contro Summers: mentre l’economista britannico aveva proposto di «sottoporre i
redditieri all’eutanasia» - niente di meno –, tollerare le bolle finanziarie
per stabilizzare l’economia equivarrebbe, al contrario, a vezzeggiarle (6).
Quando l’ex ministro perora per il ristabilimento del
«circolo virtuoso» della crescita, i suoi critici ortodossi gli oppongono le
virtù dell’«austerità espansiva». Che preparerebbe il rilancio «risanando» le
basi dell’economia. Se l’attuale problema è veramente secolare, obiettano,
richiede soluzioni che lo siano ugualmente, e non «giochi di destrezza». Esempi
di soluzioni strutturali evocate: abbassare le imposte sulle imprese o, come
negli Stati Uniti reclamano i repubblicani, «liberare l’economia
dall’asfissiante peso dello Stato sociale», presentato come «il più oneroso al
mondo» (7). Altri infine, come Kenneth Rogoff, professore a Harvard,
suggeriscono che la debolezza della crescita dal 2008 in poi non riflette una
tendenza secolare, ma l’incapacità dei governanti di gestire il debito senza
nuocere alla crescita (8).
Nel campo progressista Paul Krugman, Premio Nobel per
l’economia, concorda con la costatazione di Summers, ma ne rifiuta la
conclusione: l’idea della stagnazione come «nuova norma» del sistema
capitalista (9). A suo avviso si andrebbe fuori strada considerando che per
rilanciare l’economia sono stati messi in opera tutti gli strumenti: lo sarebbe
stata soltanto l’arma monetaria, mediante la diminuzione dei tassi d’interesse
e l’emissione di liquidità supplementari. Rimane quindi l’arma del bilancio,
che si tratterebbe di attivare rilanciando gli investimenti pubblici,
compensando così la contrazione dei loro corrispettivi privati.
Infatti, per il momento, benché abbiano a disposizione
importanti disponibilità liquide, le grandi imprese non investono. Il 22
gennaio 2014 il Financial Time segnalava che le società non finanziarie
americane detenevano 2.800 miliardi di dollari, dei quali quasi 150 miliardi
nelle casseforti della sola Apple. Da parte sua, il giornalista James Saft
osservava sull’International New York Times: «Le imprese sembrano più disposte
ad accumulare i biglietti di banca o a utilizzarli per riacquistare le azioni,
piuttosto che a creare nuove capacità produttive (10)». Gli attivi immateriali
rappresenterebbero in media circa il 5% degli attivi delle società americane
negli anni ’70; nel 2010 questa proporzione è passata al … 60%.
Fra il 2010 e il 2013 la Federal Reserve ha pur iniettato
quasi 4.000 miliardi di dollari nell’economia americana. Eppure, lungi dal
rafforzare la capacità produttiva del Paese, una buona parte di questa somma è
andata a finire in investimenti speculativi molto redditizi, in particolare nei
Paesi emergenti. Cosicché l’importo totale delle liquidità ora «disponibili»
nell’economia americana resta inferiore a quello del 2008. Il medesimo fenomeno
avviene in Europa (11).
Un’economia che rifiuta di mettersi in moto mentre
affluiscono i soldi? Il problema è molto noto: si tratta della «trappola della
liquidità» descritta da Keynes negli anni ’30. Per venirne fuori, una sola
soluzione: il ricorso al secondo strumento della politica economica, il deficit
di bilancio. «In periodo di recessione», sottolinea Krugman, «ogni spesa è buona.
La spesa produttiva è migliore e perfino la spesa improduttiva vale più che
niente di niente (12)».
Per l’Europa un’idea strampalata. Mentre gli ammiratori dei
grandi pensatori liberisti come Ayn Rand, Friedrich Hayek e Milton Friedman
continuano a difendere le disuguaglianze, che essi innalzano a condizione
imprescindibile per il rilancio e per la prosperità, gli Stati Uniti stanno
diventando consapevoli della loro nocività. Nella sua allocuzione del 4
dicembre 2013 e ancor più nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29
gennaio 2014, il presidente Obama non soltanto ha denunciato i divari di
reddito e di ricchezza – che non cessano di crescere – ma ha anche martellato
dicendo che «la disuguaglianza costituisce il problema-chiave della nostra epoca»
e che danneggia sia la crescita sia l’occupazione.
Già ministro del Lavoro di Bill Clinton, Robert Reich ha
realizzato un documentario, Inequality For All, sull’aggravarsi delle
disuguaglianze negli Stati Uniti. Il salario medio nel 1978 era di 48.000 dollari,
oggi non raggiunge quasi l’equivalente di 34.000 dollari in termini di potere
d’acquisto. All’opposto, il reddito medio per famiglia dell’1% più ricco della
popolazione americana, che era di 393.000 dollari nel 1978, è passato a 1,1
milioni di dollari. Da cinque anni a oggi l’1% della popolazione ha captato il
90% della crescita del PIL, mentre il 99% delle restanti persone si sono
spartite il 10% che rimane. Da soli, quattrocento individui dispongono di
altrettanta ricchezza quanta ne hanno centocinquanta milioni di americani meno
ricchi, tutti insieme (13). Tuttavia, se negli Stati Uniti si ammette sempre
più apertamente la relazione fra disuguaglianze e stagnazione, in Europa, e
particolarmente in Germania, quest’idea passa sempre come una stramberia.
L’attuale situazione ci ricorda un altro periodo della
storia segnato da una comparabile concentrazione delle ricchezze: gli anni ’20,
che condussero al crack del 1929 e alla Grande Depressione. Perché dunque
negare nuovamente il rapporto causa-effetto fra impoverimento della maggioranza
della popolazione e rallentamento economico? Le spese di quattrocento individui
non potranno mai valere quanto quelle di centocinquanta milioni di americani:
più i redditi si concentrano al vertice e più i consumi nazionali si
contraggono, a pro del risparmio e della finanziarizzazione, a spese
d’investimenti e di occupazione. Quando il patrimonio dei più ricchi non cresce
tramite la produzione, ma mediante un salasso sempre più forte sul valore
aggiunto, la crescita rallenta e il sistema erode i presupposti stessi della
propria riproduzione.
Il neoliberismo, che pretendeva fare uscire il capitalismo
dalla sua crisi, ve l’ha affossato. E noi non ci troviamo davanti a una «nuova
norma», bensì di fronte a un vicolo cieco …
(1) «
Fourteenth Jacques Polak annual research conference : Crises -Yesterday and
today », FMI, Washington, DC, 7 et 8 novembre 2013.
(2)
Lawrence Summers, « Why stagnation might prove to be the new normal »,
Financial Times, Londres, 15 décembre 2013.
(3)
Lawrence Summers, « Economic stagnation is not our fate – unless we let it be
», The Washington Post, 16 décembre 2013.
(4) Cf.
Alvin Hansen, Fiscal Policy and Business Cycles, Norton, New York, 1941.
(5) Cité
par le Financial Times, 12 novembre 2013.
(6) Cf.
Izabella Kaminska, « Secular stagnation and the bastardisation of Keynes »,
Financial Times, 11 décembre 2013.
(7)
Caroline Baum, « Keynesians revive a
Depression
idea », Bloomberg, 4 décembre 2013, www.bloomberg.com
(8) Kenneth
Rogoff, « What’s the problem with advanced economies ? », Project Syndicate, 4
décembre 2013, www.project-syndicate.org
(9) Paul
Krugman, « Secular stagnation, coalmines, bubbles, and Larry Summers », The New
York Times, 16 novembre 2013.
(10) James
Saft, « Intangible capital », International New York Times, Neuilly-sur-Seine,
26 novembre 2013.
(11) Willem
Buiter, « Secular stagnation risk for EU and Japan », Financial Times, 23
décembre 2013.
(12) Paul
Krugman, « Secular stagnation, coalmines, bubbles, and Larry Summers », op.
cit.
(13)
«Robert Reich : “Les Américains doivent partager la richesse” », L’Express,
Paris, 2 décembre 2013.
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