domenica 20 marzo 2016

La disgregazione politica palestinese




di Jamil Hilal – Al Shabaka

20 Marzo 2016 


Il campo politico palestinese, dominato dall’OLP fin dai primi anni ’60, si è disintegrato con l’emergere dell’Autorità Palestinese all’indomani degli accordi di Oslo. Qual è stato il peso dell’OLP e quali le ripercussioni ha generato la sua disgregazione nel corpo politico palestinese? In che modo ha tale frammentazione interessato la sfera culturale e il contributo di quest’ultima alla formazione di un’identità nazionale palestinese? A tali domande proveremo a rispondere nel commento che segue.

Lo strapotere dell’OLP nel campo palestinese ha avuto inizio poco dopo la battaglia di Al-Karameh, nel 1968, che rese possibile il fiorire di una relazione centralizzata con le comunità storiche della Palestina: in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Tali comunità hanno ampiamente accolto l’OLP come unico leader legittimo, a dispetto delle influenze esterne, della sua profonda dipendenza da aiuti stranieri, delle controverse relazioni con il paese di residenza e delle sue relazioni regionali e internazionali. Come risultato, le particolari condizioni e caratteristiche di ogni comunità venivano trascurate, così come venivano ignorate le rispettive responsabilità nazionali, sociali e organizzative.

Da tale posizione dominante, l’OLP era anche in grado di consolidare le pratiche politiche delle élite; pratiche comuni nel mondo arabo e internazionalmente, ma che sarebbe stato meglio se non avessero attecchito nel popolo palestinese; considerata la dispersione territoriale e la loro lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP emerga e funzioni in uno scenario regionale e internazionale che non è amico della democrazia, sia nella teoria sia nella pratica, ha contribuito a questo suo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con ideologie nazionaliste e totalitarie, o in alternativa da monarchie teocratiche e autoritarie; e la democrazia era vista come una formula aliena tanto quanto il colonialismo occidentale. Allo stesso modo, l’OLP e le sue fazioni hanno stretto alleanze con i paesi socialisti e del terzo mondo, pochi dei quali avevano alle spalle esperienze democratiche. La natura ‘rentieristica’ delle istituzioni dell’OLP e la sua dipendenza da aiuti provenienti da paesi arabi socialisti e non democratici non ha fatto che rinforzare un approccio elitario e non democratico alla politica.

Una terza caratteristica dell’egemonia dell’OLP era che le sue fazioni avevano fatto esperienza di un precoce processo di militarizzazione; in parte a causa degli scontri tra la stessa organizzazione e i regimi arabi che la ospitavano, in parte perché era costantemente presa di mira da Israele. Questa militarizzazione formale, contrapposta alla guerriglia, ha aiutato a giustificare una stretta relazione tra leadership politica e membri dell’élite.

Tra gli anni ’70 e gli anni ’90, le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno subito numerosi choc, come conseguenza di vari cambiamenti nello scenario regionale e internazionale. Questi inclusero l’espulsione dalla Giordania a seguito degli scontri armati del 1970-71, la guerra civile divampata in Libano nel 1975, la conseguente invasione israeliana del paese nel 1982, l’esodo dell’OLP dal paese a seguito dei massacri di Sabra e Shatila; e la guerra contro gli stessi campi palestinesi avvenuta tra il 1985 e il 1986. La prima Intifada (insurrezione popolare) contro Israele nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 fu un momento in cui l’Islam invase il campo politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica nel tardo 1989, la prima guerra del Golfo un anno più tardi e il conseguente isolamento politico e finanziario dell’OLP erose infine tanto le sue alleanze tanto le sue fonti di sostentamento.

Gli effetti della disintegrazione

Durante la Prima Intifada, l’élite politica palestinese mancò di comprendere l’importanza di restaurare il movimento nazionale palestinese, così come dell’intessere nuove relazioni tra la leadership centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre, l’OLP fallì nel trovare un modo per neutralizzare l’Islam politico quando questo prese piede nel panorama palestinese – come emanazione della Fratellanza Musulmana – e non integrò Hamas nel processo politico nazionale. Allo stesso tempo, l’organizzazione islamista mancò di ridefinire la propria identità sulla base di un’agenda nazionale. Come conseguenza, il movimento politico palestinese che era stato precedentemente definito come un movimento nazionale o come una rivoluzione, iniziò ad essere chiamato ‘il movimento nazionale e islamico’.

Infatti, la Prima Intifada spinse la leadership politica a centralizzare ulteriormente il processo decisionale e firmò gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali interne ed esterne alla Palestina. Oslo garantì all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa e ideologica necessaria a marginalizzare i rappresentanti delle istituzioni nazionali palestinesi già esistenti, giustificando tale processo con la costituzione di un nucleo statale palestinese. L’Autorità Palestinese fu esclusa dalla trattativa con i palestinesi in Israele e perse molto presto interesse nella causa dei palestinesi giordani. Il suo atteggiamento nei loro confronti, come del resto anche in quelli dei palestinesi presenti in Libano, in Siria, nei paesi del Golfo, in Europa e in America, fu drasticamente ridotto a una serie di formalità burocratiche che rimanevano limitate alle sue ambasciate e ai suoi uffici rappresentativi nei rispettivi paesi.

Quando l’establishment palestinese, in qualità di autorità di auto-governo limitata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, fallì nel prendere le redini dello stato palestinese, le élite politiche furono private del loro potenziale stato sovrano centralizzato; e ciò accelerò la disintegrazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nel 2006 alle elezioni legislative e il suo controllo totale sulla Striscia di Gaza dal 2007 contribuì infine all’attuale spaccatura tra le due autorità, una in Cisgiordania e l’altra a Gaza. Entrambe rimasero sotto occupazione e controllo di uno stato colonizzatore e coloniale che continua ad annettere territori e deportare cittadini palestinesi su entrambi i lati della linea verde.

La disintegrazione del campo politico nazionale ha avuto numerose ripercussioni. Le istituzioni nazionali rappresentative si dissolsero, mentre le élite politiche locali consolidarono il proprio potere. I leader ancorarono la propria legittimità alle loro passate esperienze partitiche o organizzative, così come alla loro interazione diplomatica con altri paesi della regione e istituzioni internazionali. Il discorso dominante, localmente e internazionalmente, ridusse la Palestina ai territori occupati nel 1967 e la gente palestinese al rango di coloro che vivono sotto l’occupazione palestinese; marginalizzando i rifugiati e gli esiliati assieme ai cittadini palestinesi di Israele. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza crebbe esponenzialmente, sia in termini di proporzioni sia di fondi destinati al suo mantenimento. La natura ‘rentieristica’ delle autorità a capo di entrambe le aree fu modulata in base alla dipendenza da aiuti stranieri, remittenze e accresciuta confluenza di capitali privati nelle loro economie.

Si sono verificate anche trasformazioni rilevanti nella struttura sociale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tra le quali l’emergere di una classe media relativamente ampia che è confluita nelle istituzioni dell’Autorità Palestinese in aree quali la formazione, sanità, sicurezza, finanza e amministrazione, così come il nuovo settore bancario e le numerose Ong. Nel mentre, la classe dei lavoratori si è contratta, le ineguaglianze tra i vari segmenti sociali si sono approfondite e la disoccupazione rimane elevata, in particolare tra i giovani e i neolaureati. La mentalità d’ufficio ha preso sempre più piede, scalzando quella di chi lotta per la libertà. Sebbene Fatah e Hamas si definiscano movimenti per la liberazione, sono stati trasformati in strutture burocratiche gerarchiche e sono soprattutto interessate alla propria sopravvivenza.

Le élite politiche ed economiche non si sono dimostrate timide nell’ostentare la propria ricchezza e i propri privilegi, a dispetto di un’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è perfettamente consapevole di come i propri standard e stile di vita dipendano dall’esistenza delle due autorità. Tuttavia, la maggior parte della popolazione rimane soggetta all’oppressione e all’umiliazione dell’esercito israeliano e dei coloni armati; soffrendo non solo la mancanza di condizioni di vita decenti e di un futuro lavorativo, ma anche dell’assenza di ogni tipo di soluzione nazionale all’orizzonte. L’assedio draconiano portato avanti da Egitto e Israele su Gaza è più ferreo che mai, accompagnato dalle guerre distruttive volute da Israele mentre la pulizia etnica perpetrata ai danni dei palestinesi di Gerusalemme continua inesorabile; facendo uso di sfratti, ritiro dei permessi e di un’ampia serie di pratiche analoghe.

Tali condizioni pongono i presupposti per una situazione esplosiva nei territori occupati del 1967. Tuttavia, dal momento che l’OLP, i partiti politici e una buona parte delle organizzazioni della società civile non si mobilitarono, o non poterono mobilizzarsi, contro l’occupazione, gli scontri con l’esercito israeliano e i coloni nell’ondata di rabbia che ha avuto luogo dallo scorso ottobre è principalmente rimasta alla dimensione individuale e locale; mancando di una visione unitaria e di una leadership nazionale.

La disintegrazione del campo politico palestinese ha inoltre condotto a una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in altri luoghi della Palestina e della stessa diaspora. I cittadini palestinesi che si trovano oggi in quella parte di Palestina che diventò Israele nel 1948 devono far fronte a una crescente gamma di leggi discriminatorie. I rifugiati palestinesi in e dalla Siria, Libano e Giordania, così come da altre parti, sono vittime di discriminazioni e abusi. Nel complesso, lo status della causa palestinese ha subito un’involuzione tanto nel mondo arabo quando sul panorama internazionale, una situazione certamente esacerbata dalle guerre interne ed esterne in cui molti paesi arabi si trovano coinvolti.

Eppure la cultura prospera e nutre un’identità nazionale

Oggi, il popolo palestinese non ha né uno stato sovrano né un funzionante movimento di liberazione. Tuttavia, l’identità nazionale palestinese conserva una forza straordinaria, in gran parte a causa del ruolo esercitato dalla sfera culturale nel mantenerne e arricchirne la narrativa. Nel nutrire l’identità e il patriottismo palestinese, la cultura gioca un ruolo di lunga data. Dopo la creazione di Israele nel 1948 e dopo la sconfitta dell’élite politica di allora e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso una fioritura culturale straordinaria – poesia, teatro, musica e film.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani ha catturato tutto questo in un libro straordinario sulla letteratura della resistenza (al-Adab al-Mukawim fi Filistin al-Muhtala 1948-1966), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure chiave, tra le quali il poeta Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il poeta sindaco di Nazareth Tawfiq Zayyad e lo scrittore Emile Habibi – in entrambi i suoi lavori, come The Pessoptimist e il giornale comunista che da lui co-fondato, Al-Ittihad. Negli anni ’50 e ’60 – quando gli israeliani tenevano i cittadini palestinesi sotto controllo militare – letteratura, cultura e arte servivano a rinforzare e proteggere la cultura araba assieme all’identità nazionale palestinese e a una sua narrativa. Questi lavori erano letti in tutto il mondo arabo e non solo, e permettevano ai rifugiati palestinesi in esilio di sostenere la propria identità attraverso continui ponti con la cultura e l’identità della loro terra.

I ‘Palestinesi del 1948’, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo fondamentale nell’introdurre altri palestinesi e arabi al modo in cui l’ideologia sionista influenza le politiche israeliane e i meccanismi di controllo repressivo. Molti studiosi e intellettuali palestinesi hanno lavorato nei centri di ricerca arabi e palestinesi a Beirut, Damasco e altrove; da dove hanno contribuito aincoraggiare tale comprensione.

Da quel momento, la sfera culturale, soprattutto in momenti di crisi, ha offerto più possibilità di quella politica, permettendo ai palestinesi di raggrupparsi attorno ad attività che trascendono i limiti geopolitici, dando vita a varie forme d’espressione culturale e di produzione intellettuale. La letteratura, la filmografia, la musica e l’arte continuano ad essere prodotte – con ritmo crescente– sia da scrittori, direttori e artisti internazionalmente conosciuti, sia da personalità più giovani ed emergenti in Cisgiordania, a Gaza e altrove. Tutto ciò è comunicato in numerosissimi modi – inclusi i social media – e incoraggia legami intra-palestinesi e intra-arabi, così come interazioni transnazionali.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata in una narrativa storica palestinese e attinge dalle esperienze quotidiane delle comunità che fanno fronte dall’esautoramento, all’occupazione, alla discriminazione, all’espulsione e alla guerra. È tale vitalità che forse guida la gioventù palestinese nata soprattutto all’indomani degli accordi di Oslo del 1993 a confrontarsi con i soldati israeliani e i coloni in ogni angolo della Palestina storica. E spiega le immense folle di persone che prendono parte a una processione funebre di giovani palestinesi uccisi da soldati israeliani e coloni; e i tentativi di raccolta fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer palestinesi come punizione collettiva delle famiglie di coloro che sono stati uccisi nell’attuale rivolta.

Tuttavia, sottolineando il significato e la vitalità della sfera culturale non si compensa all’assenza di un efficace movimento politico; con basi solide e democratiche. Dobbiamo imparare dagli errori delle istituzioni del movimento e andare oltre, piuttosto che sprecare energie, tempo e risorse per ripristinare un campo politico disintegrato e defunto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci mostra come fallimentari, come ad un alto grado di centralizzazione. La politica deve soprattutto preoccuparsi della gente.

Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura nazionale dai concetti e dagli approcci che schiavizzano la mente, che paralizzano il pensiero e la libera volontà, che promuovono l’ignoranza, che santificano l’ignoranza e che rovinano i miti. Al contrario, dovremmo promuovere i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una concezione completamente nuova di azione politica. Una concezione che si sviluppi dal linguaggio adottato dai gruppi più giovani nelle relazioni tra palestinesi e forze politiche all’interno della linea verde. Una concezione che rifletta la consapevolezza profonda dell’impossibilità di coesistere con un’ideologia razzista come il sionismo e con un regime colonizzatore e coloniale che criminalizza la narrativa storica dei palestinesi.

Al centro di questa nuova consapevolezza politica devono esserci quelle comunità palestinesi determinate a discutere, tratteggiare e adottare una serie di politiche nazionali inclusive: questo è sia un loro diritto che una loro responsabilità. È altrettanto importante riconoscere il diritto di ogni comunità a determinare la propria strategia nel contrastare le questioni specifiche a cui deve far fronte mentre partecipa all’autodeterminazione dell’intero popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di varie fazioni e a causa della paura di valori e pratiche democratiche. Di conseguenza è necessario incoraggiare le iniziative che mirano a formare leadership locali, con la maggiore partecipazione possibile degli individui provenienti dalla comunità e delle istituzioni; seguendo l’esempio promettente dei palestinesi del 1948, che si organizzarono in Alti Comitati per i cittadini arabi d’Israele per difendere i propri diritti e interessi, e quello dei palestinesi della Striscia e della Cisgiordania nel corso della Prima Intifada. Il Boycott, Divestment and Sanctions Movement (BDS) è un altro esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica. Mette insieme fazioni politiche diverse, unioni e organizzazioni della società civile sotto una strategia e una visione unitaria.

Alcuni potrebbero vedere tale discussione come utopica e idealista, ma abbiamo un disperato bisogno d’idealismo nel caos e nella frammentazione che ci avvolgono. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e creatività culturale dalla quale partire.

*Traduzione a cura di Giovanni Pagani/Nena News


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