Il 20 aprile 2016, Maria Francesca Bottura, ha vinto il premio letterario "Diritti senza Difesa? Dalle parole ai fatti: l'Avvocato al servizio dell'uomo", bandito dal Consiglio nazionale dell’Ordine forense. A lei sono andati i complimenti del presidente dell’Ordine di Biella, Domenico Duso, della presidente del tribunale, Claudia Ramella Trafighet, e del Procuratore capo della Repubblica, Giorgio Reposo. Si sono unite, con una lettera, anche le componenti del Comitato pari opportunità del Foro cittadino, che l’hanno spronata ad avere fiducia nel futuro, nella giustizia, nei valori della libertà e dell’uguaglianza.
UN MONDO LIBERO E GIUSTO
di Maria Francesca Bottura
Ero stato in Israele molto tempo
fa, i primi anni in cui i conflitti con la Palestina si erano fatti più pesanti
e sanguinosi. Sapevo cosa significava la guerra, la morte, e sapevo che la mia
attività di legale aveva aiutato a salvare la vita a molte persone, ma quella
fu la prima volta nel carcere di Tel Aviv, quella fu la prima volta che avrei
dovuto difendere una bambina.
Amira Yassin aveva 14 anni e lo
sguardo di una donna di ottanta. Era stata picchiata, interrogata, obbligata a
confessare un crimine che in realtà era stato solo uno sbaglio: aveva lanciato
un sasso contro una macchina.
Amira era in carcere per una
ragione stupida, insignificante, era in carcere per quella parola scritta sul
suo documento di identità, per le sue origini, per essere nata a Gaza City.
Negli anni avevo sempre ascoltato le storie di uomini e donne dei due paesi, ma
non avevo mai conosciuto una bambina cresciuta in “territorio nemico”. Il
carcere di Tel Aviv sembrava un orfanotrofio: sono 151 i bambini e i ragazzi
incarcerati là dentro. Loro piangevano, chiedevano scusa, ma nessuno li ascoltava,
perché erano palestinesi e erano il nemico.
Amira era minuta e sembrava
ancora più piccola della sua età, ma non si scompose quando le chiesi di
raccontarmi la sua storia. Lei mi disse che era fuggita con la sua famiglia dai
bombardamenti, che suo fratello compariva nella lista delle oltre duemila
vittime dell’Operazione Margine di Protezione, che nel luglio 2014 aveva visto
palazzi, come buona parte della capitale palestinese, crollare sotto i
bombardamenti israeliani. Mi disse che aveva lanciato un sasso contro una
macchina israeliana e che la polizia l’aveva presa e portata in quel luogo in
cui le persone sembrano cadere nell’indifferenza del mondo circostante. Mi
disse che erano sei mesi che non vedeva la sua famiglia, che aveva smesso da
poco di piangere la notte per la paura. Esitòsolo una volta, quando le chiesi
qual era il suo sogno per il futuro. Ricordo molto bene la sua espressione
titubante e un po’ scioccata, lo sguardo basso nel tentativo di cercare una
risposta in quella mente sconvolta. E poi, in un sospiro disse: “voglio vivere
in un mondo libero e giusto”.
Senza saperlo, quella bambina che
aveva appena imparato a leggere, aveva citato uno dei principi fondamentali dei
diritti umani, l’obbiettivo che molti di noi si erano prefissati e che sembrava
ancora tanto lontano.
La mattina del processo Amira
sedeva accanto a me: tra le mani stringeva un’immagine ritagliata dal giornale,
forse da qualche pubblicità cinematografica del film Superman. Lo teneva tra le
mani come se quella semplice fotografia avesse potuto cambiare le sorti di quel
processo.
Parlai a lungo, usai parole che
molto probabilmente Amira non capì e che fece storcere il naso al giudice.
Parlai della vita di una ragazzina, del suo futuro, del suo sogno di vivere in
un mondo senza più guerre, senza più vittime. Spiegai che lanciare quel sasso
era stato un errore, che se quella macchina fosse stata di un palestinese lei
sarebbe a casa sua, con i suoi genitori e nulla di tutto quello sarebbe
successo.
Vedevo quella bambina spaurita
affrontare il mondo da sola, e proprio come lei in quel momento mi sentii come
un cavaliere senza armatura e senza armi, se non la mia voce, le mie parole.
Dovevo, volevo, fare qualcosa per lei, per garantire quei diritti rubati,
abbattere quella ingiustizia, aiutare a creare un mondo dove nessuno, e dico
nessuno, è colpevole fino a prova contraria. Sono un avvocato, e prima di quel
momento non avevo realizzato quando la mia parola potesse essere significativa,
quanto avrei potuto fare per aiutare il mondo ad essere un posto migliore. In
quel momento capii che tutti i miei sogni e le mie speranze per il futuro erano
solo una piccola parte di un progetto che coinvolgeva milioni di uomini, donne
e bambini che avevano bisogno del mio aiuto. Il mondo, a quel punto, sembrava
essere diventato un luogo infinitamente grande, pieno di ferite da ricucire,
ferite che volevo ricucire.
Passarono le ore, si
discusse a lungo, e l’accusa chiese altri due mesi di reclusione e il pagamento
di un indennizzo pari a 6.000 shekel per il presunto possesso di un coltello;
ma Amira scosse il capo con determinazione, mentre le scendevano i lacrimoni.
No, non era mai stata in possesso di un coltello, non lo aveva mai avuto.
Verso il pomeriggio inoltrato il
giudice emise il suo verdetto, e quelle parole furono per
Amira come quelle di un dio sceso
tra gli uomini.
AmiraRashad Yassin, età 14 anni,
era stata dichiarata innocente e avendo scontato già sei lunghi mesi nel
carcere di Tel Aviv, era libera di tornare a casa dalla sua famiglia con una
semplice ammonizione. I suoi genitori, seduti nella stanza, erano subito corsi
dalla loro bambina, e l’avevano abbracciata tra le lacrime di commozione.
Amira era salva,
Amira era libera. E quando tutto fu terminato, l’attesi fuori dal tribunale,
dove sfuggì all’abbraccio di sua madre e mi venne incontro. Nel suo sguardo
lessi tutto, e sapevo che non c’erano parole per descrivere quanto fosse felice
di quel finale, eppure lei fece qualcosa che non mi aspettai: prese l'immagine
di Superman, quella che aveva tenuto stretta tra le mani per tutta la durata
del processo, la strappò e mi disse che aveva un altro
sogno per il suo futuro: essere come me.
In quel momento
mi sentii come se avessi contribuito a rimettere le cose a posto, come se quel
verdetto e l’espressione felice di quella bambina fossero il punto di partenza
per qualcosa di grande, il progetto di un mondo libero e giusto, dove a tutti,
ma proprio a tutti, ovunque e in qualunque situazione, a prescindere da ogni
altra considerazione, fosse data la possibilità di discolparsi. Avevo vinto una
battaglia con l’uso della parola, senza creare vittime, senza spargere sangue,
senza distruggere edifici e mettendo in pratica tutto ciò che in anni di lavoro
avevo imparato.
E le ultime
parole tra me ed Amira furono:
“Vuoi diventare
un avvocato?”
“No, voglio
diventare un eroe”
Liberamente ispirato alla storia realmente accaduta di
Malak al-Khatib
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