venerdì 26 febbraio 2016

Sionismo : Purché non se ne parli



di VALERIO GIGANTE
(Scrittore e giornalista)




 5 MARZO 2016 • N. 9 Adista

Si intitola Sionismo, il vero nemico degli ebrei (Clarity Press 2009, traduzione it. edizioni Zambon, 2015), ma il libro è stato scritto da chi certamente non è tacciabile di essere un “nemico” degli ebrei. L’autore è infatti il giornalista britannico Alan Hart, già corrispondente capo di Independent Television News, presentatore di BBC Panorama e inviato di guerra, grande conoscitore di Medio Oriente; un giornalista che ha conosciuto personalmente i maggiori protagonisti del conflitto arabo-israeliano, come Moshe Dayan, Shimon Peres, re Faysal dell’Arabia Saudita, Nasser, Anwar El Sadat, George Habash, Yasser Arafat, re Hussein di Giordania. È stato inoltre amico sia del Primo ministro israeliano Golda Meir (che ha definito “madre Israele”) e del leader dell’Olp Yasser Arafat (che chiama “padre Palestina”), di cui ha scritto una biografia, datata 1985 (Terrorism or Freedom Fighters: Yasser Arafat and the PLO). Il libro, appena pubblicato in Italia, è il primo volume di una trilogia che Hart ha dedicato al tema del Sionismo, completata e pubblicata in lingua inglese nel 2010. Il progetto è ambizioso, perché Hart tenta di ricostruire l’intricata vicenda che ha condotto all’affermazione del sionismo all’interno del mondo ebraico ed all’esterno, come modello di una nuova forma di nazionalismo. Il giornalista spiega nel libro che non vi è nessun rapporto logico-consequenziale tra la Shoah e la nascita dello Stato di Israele (ma questo è un fatto che la storiografia ha acquisito già da decenni, nonostante stenti a radicarsi nel senso comune e nella pubblistica divulgativa) e che il tema della creazione di uno Stato degli ebrei dispersi in tutta Europa precede cronologicamente l’Olocausto e va retrodatato almeno alla fine del XIX secolo. Fatte – e doviziosamente documentate – queste necessarie premesse, Hart tenta quindi di spiegare come i Paesi occidentali, tutti in prevalenza di cultura antisemita abbiano sostanzialmente sostenuto il progetto di creazione dello Stato di Israele e come sia diventato un Paese strategico nella ridefinizione della mappa del Medio Oriente nel secondo dopoguerra. Risultato notevole, se si considera l’iniziale opposizione di Inghilterra e Stati Uniti, di tutti i Paesi arabi e la diffidenza degli stessi ebrei americani e dei Paesi occidentali, che in maggioranza non erano sionisti e non ambivano comunque a trasferirsi in Israele. Insomma, quanto avvenne tra il 1947 e il 1948 è assai lontano da un altro luogo comune sfatato dal libro, quello del “ritorno” in Palestina di un popolo esule e disperso che ricostituiva il suo Stato (ma nel corso dei secoli la Palestina non era stata affatto “abbandonata”, e anche nei millenni in cui vi avevano abitato, gli ebrei avevano costituito una minoranza tra le altre popolazioni presenti, costituendo uno Stato solo per un breve periodo, tra l’XI e il X secolo a. C.). Lo Stato di Israele è allora frutto, secondo Hart, di un insieme di concause. I Paesi europei scelsero di ridimensionare l’influenza ebraica all’interno dei propri confini, rinunciarono alla sfida posta dall’accettazione e dall’integrazione, scaricando la contraddizione sulla Palestina e le popolazioni arabe, le cui élite sarebbero state, da parte loro, incapaci di cogliere il significato dei massicci flussi migratori di ebrei prima del 1948, pensando forse al semplice ritorno di una minoranza facilmente integrabile all’interno del tessuto sociale arabo-musulmano. Hart è però anche fortemente critico sul ruolo giocato nella crisi dalla Lega Araba, della quale sottolinea la sostanziale subalternità alle logiche geopolitiche occidentali. Giocò poi un ruolo importante, secondo Hart, anche la possibilità di spezzare – attraverso il sionismo – la solidarietà di classe che aveva portato tanti ebrei russi a solidarizzare con la rivoluzione bolscevica: il nazionalismo sionista in quanto antidoto all’internazionalismo comunista, che rischiava di “contagiare” anche gli ebrei che vivevano (o migravano) in Occidente. Inoltre i britannici pensarono che la necessità di proteggere il Canale di Suez, di importanza vitale ai fini del mantenimento della “spina dorsale” dell’impero britannico, fosse possibile solo a condizione di favorire la presenza di uno Stato ebraico nella regione (ne conseguì la scelta della Gran Bretagna di rilasciare la Dichiarazione Balfour, 2/11/1917). Una riflessione a parte merita la vicenda dalla pubblicazione del libro in Italia, caratterizzata da un imbarazzato silenzio, soprattutto dopo quanto avvenuto in occasione della presentazione ufficiale del libro, il 7 dicembre 2015. Quel giorno presso la sede dell’Anpi di Roma, la sezione Anpi “don Pappagallo” aveva promosso un incontro cui dovevano partecipare Giorgio Gomel (Ebrei per la pace), Marco Ramazzotti Stockel (rete Ebrei contro l’Occupazione), Carlo Tagliacozzo (studioso dello Shoah), e Diego Siragusa (che oltre ad aver tradotto il testo di Hart in italiano ne ha scritto anche la prefazione). Contro l’iniziativa è intervenuta però la Comunità ebraica di Roma, che ha indotto l’Anpi nazionale e l’Anpi di Roma a chiedere alla sezione Anpi “don Pappagallo” di ritirarsi dall’organizzazione dell’evento, giustificando la clamorosa marcia indietro con il rifiuto a promuovere «qualsiasi forma di razzismo ed antisemitismo». Da allora il libro ha ricevuto in Italia pochissime segnalazioni e recensioni, e vive in una sorta di limbo, ignorato dalla stragrande maggioranza degli organi di informazione, ma al contrario piuttosto conosciuto e commentato in rete. 

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