Di Gideon Levy
A un’ora di macchina da Tel Aviv c’è un ghetto, forse il più grande del mondo, con circa due milioni di abitanti. Questi gli ultimi dati diffusi da Gisha, Legal Centre for Freedom of Movement (ONG israeliana): il tasso di disoccupazione a Gaza è pari al 43%; il 70% della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria; il 57% vive a rischio di insicurezza alimentare.
E poi c’è l’inquietante rapporto delle Nazioni Unite, diffuso nell’agosto 2015, dal titolo: “Gaza in 2020: a liveable place?” [Gaza nel 2020: sarà ancora un posto vivibile? Ndr] Perché in quella data, i danni alle infrastrutture idriche saranno irreversibili e comunque anche oggi l’acqua non è potabile.
Il PIL pro capite è di $1,273, persino più basso rispetto a 25 anni fa; probabilmente, in nessun’altra zona del mondo si registra un simile calo costante del PIL. Servirebbero altri 1.000 medici e 2.000 infermieri per un sistema sanitario al collasso; da dove arriveranno? Dalla facoltà di medicina di al-Nuseirat? Dagli studenti che si recano all’estero per studiare a Harvard? L’Egitto ha ristretto ulteriormente l’ingresso e l’uscita dal Valico di Rafah; il mondo ha dimenticato le sue promesse e Israele sfrutta l’intransigenza egiziana e l’indifferenza della comunità internazionale per prolungare l’assedio, agendo di comune accordo con l’Egitto, da cui trae legittimazione e incoraggiamento.
Tre ore di elettricità al giorno. Talvolta sei. Che piova, faccia freddo o caldo, in estate come in inverno. Poi, 12 ore senza energia elettrica, in attesa che torni per tre o sei ore. Ogni giorno. Così vivono circa due milioni di persone; un milione di rifugiati o figli di rifugiati, resi tali dalle politiche israeliane.
Circa un milione sono bambini. Si fa persino fatica a immaginarlo; e solo pochissimi israeliani se ne curano, basta scaricare le responsabilità su Hamas.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha avuto una nuova idea: vuole esiliare in questo posto maledetto le famiglie dei responsabili degli attacchi di questi ultimi mesi.
D’ora in poi non ci si limiterà a giustiziare sul posto ragazze e ragazzi che impugnano un coltello o un paio di fornici, com’è accaduto in questi mesi, anche quando non era strettamente necessario; d’ora in poi, a essere punite saranno anche le loro famiglie. Che dovranno pagare.
Netanyahu ha già consultato il procuratore generale, Avichai Mandelblit, per un parere ufficiale: qualora fosse favorevole, avvalorerebbe la sua posizione. In caso contrario, potrebbe sempre accusare il sistema giudiziario, che gli impedisce di difendere i cittadini dal terrorismo. In ogni caso, riporterebbe una vittoria.
L’opinione pubblica israeliana sostiene apertamente le folli idee del suo primo ministro: la maggior parte della popolazione è concorde con ogni misura draconiana intrapresa contro i “terroristi” e le loro famiglie. Le punizioni collettive contravvengono al diritto internazionale, ma a Israele non interessa: non prende in considerazione questo importante ed equo strumento, che appare ai suoi occhi del tutto irrilevante.
Esiste un problema ben più grave della demagogia spicciola di Netanyahu, che negli ultimi mesi ha tentato in ogni modo e ad ogni costo di accontentare le frange di estrema destra, in un clima di esasperato ultra-nazionalismo. Netanyahu sa che i servizi di sicurezza israeliani non sono in grado di contrastare gli attacchi dei lupi solitari contro l’occupazione.
Le consultazioni con IDF e Shin Bet hanno evidenziato che neanche l’imponente e organizzatissimo esercito israeliano può fare granché contro aggressori che agiscono da soli, che nella maggior parte dei casi sono giovanissimi, non hanno un’infrastruttura logistica o militare alle spalle, né la regia di movimenti o organizzazioni politiche e sferrano attacchi del tutto spontanei e non premeditati. Neanche l’intelligence è in grado di impedirli o sventarli. E non saranno d’aiuto le sofisticate armi israeliane, la tecnologia stealth statunitense,né i sottomarini tedeschi.
Nessun esercito al mondo potrà mai contrastare una adolescente con un paio di forbici o un ragazzo con un coltello da cucina, che una mattina si sveglia e decide di sferrare un attacco. Non esiste una risposta di tipo militare a 50 anni di disperazione (70 anni, ndr). Ma Netanyahu deve comunque dimostrare che “sta facendo qualcosa”, per acquietare l’opinione pubblica; non può dare l’impressione di osservare impotente il balletto di cifre sugli attacchi ormai quasi quotidiani, che non accennano a diminuire, sebbene nella maggior parte dei casi gli autori restino uccisi e il numero di vittime nella controparte israeliana sia relativamente irrisorio.
Quindi, anche in questo caso, si rispolvera la vecchia strategia che consiste nel radere al suolo le case delle famiglie degli attentatori. Secondo B’Tselem, Israele ha già demolito o sigillato 31 abitazioni dall’inizio di ottobre 2015. Tra queste, 14 appartenevano ai vicini dei familiari, ma questo non sembra avere una rilevanza.
Con l’imprimatur del sistema giudiziario, il metodo della punizione collettiva potrebbe essere applicato in ogni caso. Alcuni esperti di sicurezza, ma non tutti sono concordi, sostengono che sia un deterrente al terrorismo, ma in occasione delle varie intifada, questa tesi non è mai stata dimostrata. Anzi, chiunque conosca l’ambiente palestinese, sa che le demolizioni non fanno che motivare ulteriormente i giovani a compiere attacchi, come forma di vendetta. Se una persona è così disperata da essere disposta a pagare con la vita, non sarà certo scoraggiato dalla demolizione della sua casa.
Anzi, intorno alle rovine delle abitazioni rase al suolo, la rabbia non fa che montare. Qualche giorno fa, ho visitato due siti nel villaggio di Dura, a sud di Hebron: la demolizione delle case delle famiglie Harub e Masalma ha lasciato senza tetto 19 persone.
Tra le macerie, si aggirava Khaki Harub, tre anni, il fratello più piccolo di Mohammed Harub, 22enne palestinese che ha ucciso due israeliani in una sparatoria al valico di Gush Etzion, in Cisgiordania, ed è stato arrestato dalle forze israeliane. “Voglio uccidere un soldato israeliano”, mi ha detto il piccolo. Quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto: “Perché mi hanno distrutto la casa”. Khaki, il cui nome in arabo significa “È un mio diritto”, non dimenticherà mai quelle macerie. Crescerà accompagnato da quel ricordo.
Adesso Netanyahu vuole usare ancora di più il pugno di ferro, confinando le famiglie a Gaza. Ci sono dei precedenti. Durante la prima e la seconda intifada, Israele ha confinato attivisti palestinesi in Giordania, in Libano, a Gaza e in altri Paesi. La più massiccia espulsione ebbe luogo sotto il governo di Yitzhak Rabin.
Il 17 dicembre 1992, dopo il rapimento e l’uccisione di un poliziotto di frontiera israeliano, Rabin ordinò la deportazione verso il Libano di almeno 415 attivisti di Hamas e del Jihad Islamico. Il sistema giudiziario israeliano non fu unanimemente concorde con questo gesto estremo e lo dichiarò illegale, ma l’Alta Corte lo avallò e i 415 attivisti furono effettivamente, espulsi. È proprio qui, a Marj al-Zuhur, montagna libanese in cui le temperature spesso scendono sotto lo zero, che si è formata la classe dirigente di Hamas, che tuttora è a capo dell’organizzazione. L’espulsione non presenta criticità solo a livello giuridico: non ha mai dimostrato una reale efficacia dal punto di vista di Israele e non c’è alcuna certezza che sia utile a contrastare il terrorismo.
Tuttavia, Netanyahu vuole compiere un ulteriore passo avanti (o indietro, dipende dai punti di vista): gli oggetti del provvedimento non sarebbero gli esecutori materiali dell’attacco, ma i loro familiari, su cui non pesa alcuna accusa. Se il sistema giudiziario dovesse consentirlo, e in genere si piega a ogni capriccio dei servizi di sicurezza, tutti i familiari di chi ha arrecato danno a Israele, compresi gli anziani, le donne e i bambini, sarebbero cacciati dalle loro case ed esiliati a Gaza.
Una simile deportazione viola palesemente i principi basilari di una legge equa, i fondamenti stessi del diritto naturale. Persone innocenti sarebbero sradicate dalle loro case, dalle loro comunità, dalle loro attività produttive e dai loro affetti, e trasformate in rifugiati per la seconda o terza volta nella storia delle loro famiglie.
Inoltre, questo provvedimento sarebbe praticamente inutile nella lotta al terrorismo. Si aggiungerebbe alle tante azioni eclatanti destinate a fare colpo sull’opinione pubblica interna: servirebbe solo a dimostrare a un popolo affamato di vendetta che il governo è pronto ad accontentarlo. L’azione potrebbe essere reiterata a più riprese, senza limiti.
Tra l’altro, c’è un altro particolare che merita la nostra attenzione: in questo modo, Israele ammetterebbe per la prima volta in via ufficialeche Gaza è una prigione, la più grande del mondo. Spedire le famiglie degli aggressori a Gaza è una forma punitiva, e la scelta di farne una colonia penale di Israele, una sorta di “Isola del Diavolo”, significa ammettere che Gaza è concepita come un campo di prigionia, un’immensa gabbia a cielo aperto. Israele, dichiarando la fine dell’occupazione su Gaza, dimostra in realtà che una prigione resta tale, e che i carcerieri hanno semplicemente preferito controllarla dall’esterno.
Il piccolo Khaki Harub adesso cammina sconvolto tra le macerie della sua casa di Dura, nelle colline a sud di Hebron. Quando gli ho fatto visita, suo padre gli ha dato uno shekel per comprare delle caramelle, come se questo potesse bastare per fargli dimenticare la rabbia e la frustrazione.
Se dipendesse da Benjamin Netanyahu, Israele non dovrebbe limitarsi a distruggere l’abitazione del piccolo Khaki: il bambino sarebbe mandato a Gaza, in una città sotto totale assedio, senza energia elettrica, senza acqua potabile, che tra quattro anni potrebbe essere del tutto invivibile. Il nome “Gaza”, in ebraico, ha una radice comune con “Azazel”, il luogo in cui, secondo la tradizione biblica, un capro espiatorio fu sacrificato e gettato da una montagna.
Traduzione di Romana Rubeo
© Agenzia stampa Infopal
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