di Manlio Dinucci
il manifesto, 15 novembre 2016
La sconfitta della Clinton è anzitutto la sconfitta di Obama
che, sceso in campo a suo fianco, vede bocciata la propria presidenza.
Conquistata, nella campagna elettorale del 2008, con la promessa che avrebbe
sostenuto non solo Wall Street ma anche «Main Street», ossia il cittadino
medio. Da allora la middle class ha visto peggiorare la propria condizione, il
tasso di povertà è aumentato, mentre i ricchi sono divenuti sempre più ricchi.
Ora, presentandosi come paladino della middle class, conquista la presidenza
Donald Trump, l’outsider miliardario.
Che cosa cambia nella politica estera degli Stati uniti con
il cambio di guardia alla Casa Bianca? Certamente non il fondamentale obiettivo
strategico di rimanere la potenza globale dominante. Posizione che vacilla
sempre più. Gli Usa stanno perdendo terreno sul piano economico e anche
politico rispetto alla Cina, alla Russia e ad altri «paesi emergenti». Per
questo gettano la spada sul piatto della bilancia. Da qui la serie di guerre in
cui Hillary Clinton ha svolto un ruolo da protagonista.
Come risulta dalla sua biografia autorizzata, fu lei che in
veste di first lady convinse il consorte presidente a demolire la Jugoslavia
con la guerra, iniziando la serie degli «interventi umanitari» contro
«dittatori» accusati di «genocidio». Come risulta dalle sue mail, fu lei che in
veste di segretaria di stato convinse il presidente Obama a demolire la Libia
con la guerra e a iniziare la stessa operazione contro la Siria. Fu lei a
promuovere la destabilizzazione interna del Venezuela e del Brasile e il «Pivot
to Asia» statunitense in funzione anticinese. Ed è sempre stata lei, tramite
anche la Fondazione Clinton, a preparare in Ucraina il terreno per il putsch di
Piazza Maidan che ha dato il via alla escalation Usa/Nato contro la Russia.
Dato che tutto questo non ha impedito il relativo declino
della potenza statunitense, spetta all’amministrazione Trump correggere il tiro
mirando allo stesso obiettivo. Irrealistica è l’ipotesi che intenda abbandonare
il sistema di alleanze incentrato sulla Nato sotto comando Usa: sicuramente
però batterà i pugni sul tavolo per ottenere dagli alleati un maggiore impegno
soprattutto in termini di spesa militare.
Trump potrebbe ricercare un accordo con la Russia, anche con
l’intento di dividerla dalla Cina verso la quale annuncia misure economiche,
accompagnate da un ulteriore rafforzamento della presenza militare Usa nella
regione Asia-Pacifico.
Tali decisioni, che porteranno sicuramente ad altre guerre,
non dipendono dal temperamento bellicoso di Donald Trump, ma dai centri di
potere dove si trova il quadro di comando da cui dipende la stessa Casa Bianca.
Sono i colossali gruppi finanziari che dominano l’economia (solo il valore
azionario delle società quotate a Wall Street supera quello dell’intero reddito
nazionale degli Stati uniti). Sono le multinazionali, le cui dimensioni
economiche superano quelle di interi stati, che delocalizzano le produzioni nei
paesi che offrono forza lavoro a basso costo, provocando all’interno chiusura
di fabbriche e disoccupazione (da qui il peggioramento delle condizioni della
middle class statunitense). Sono i giganti dell’industria bellica che
guadagnano con le guerre.
È il capitalismo del 21° secolo, di cui gli Usa sono la
massima espressione, che crea una crescente polarizzazione tra ricchezza e
povertà. L’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99%.
Alla classe dei superricchi appartiene il neopresidente
Trump, al quale il premier Renzi, in veste di Arlecchino servitore di due
padroni, ha già giurato fedeltà dopo averla giurata al presidente Obama.
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