di Domenico Stimolo
Immersi come siamo nell’enorme, incessante, ed articolato mare delle informazioni planetarie che hanno avuto il “sigillo” per la propagazione, ci sono notizie che lasciano semplicemente esterrefatti, specie se trattano la differenza tra la vita e la morte, le armi in uso , la guerra, come se fossero ineludibili attrazioni dell’essere che si cimenta in un gioco gaio, considerato normale.
In questo caso il soggetto è l’uomo armato, normalmente di un fucile, detto di alta precisione, sparso ( oggi come ieri) in uno dei tanti scacchieri di guerra, appostato in maniera solitaria in luogo chiuso o aperto, necessariamente segreto ( invisibile agli sguardi), in caso diverso il gioco di morte non potrebbe essere effettuato. Appostato, nella ricerca spasmodica dell’altro, il“nemico”.
Il tiratore scelto, soprannominato cecchino – derivante dalla congiunzione tra Cecco ( imperatore austroungarico) e chino ( sparare chiudendo un occhio) – iniziò ad avere grande fulgore con la prima guerra ( mondiale) di assassinio di massa.
Dunque, come ben noto, un uomo messo in divisa, in nome e per conto della guerra, acquista la patente della libera uccisione. In questo caso, al di là di tutte le collettive ferraglie adibite all’uso, il tiratore agisce esclusivamente da solo. Non ha repentini comandi, né diretti compagni di sventura. Ha assoluta autonomia. La sua missione consiste nell’individuare il singolo “nemico” nascosto nel territorio circostante, nel teatro di guerra dove è stato inserito, anche a svariate migliaia di metri di distanza – grazie ai potenti mezzi supplementari tecnologici agganciati al fucile, buoni anche per la notte -, prendere ben bene la mira, quindi premere il grilletto. Nella stragrande maggioranza dei casi la pallottola va a “buon fine” totale. L’altro umano improvvisamente si schianta la suolo, ucciso. Come se fosse stato un leprotto. Data la distanza, a parte il sibilo del proiettile, tutto si consuma nel silenzio. Lo sparatore non sente il grido dell’altrui morte sopravvenuta. Forse, se ne ha giusta sensibilità, avverte la lacerazione della sua coscienza.
Cose note, si dirà! Infatti, “nulla di nuovo sul fronte” della guerra. I “solisti” abilitati ad uccidere, pur con l’uso di tutte le più sofisticate chincaglierie militari preposte alle distruzioni di massa, continuano brillantemente ad esistere.
L’aspetto che lascia sconcertati è la compilazione delle classifiche che, pedissequamente vengono propagate da parte degli “addetti ai lavori”, cioè dalle strutture militari preposte alla funzione, tranquillamente riprese e propagandate dagli organi di informazione, come se si trattasse delle classifiche sportive, tipo Olimpiade, del tiro al segno o del tiro a volo.
Un vero inno alla guerra e di propaganda all’arma usata.
La notizia è di pochi giorni addietro, la parola “gridata” comunemente utilizzata nell’evidenziare l’evento è: record!
Il luogo è, purtroppo, ben noto per le enormi devastazioni umane e materiali subite negli ultimi 25 anni causa guerra: Iraq. Untiratore scelto canadese ha ucciso un avversario, un milite dell’Isis ad una distanza di 3540 metri, sparando da un grattacielo ( si suppone a Mosul). Il proiettile è arrivato sul bersaglio umano in meno di dieci secondi. Gli organi di informazione proclamano che è stato stabilito il nuovo record mondiale. Di chi, che cosa?....della morte procurata a lunga distanza. Ovviamente viene riportato il nome del costruttore dell’arma, il modello e il calibro, come se fosse stato un evento sportivo e non di morte. Si sostiene altresì che in siffatta maniera il canadese è di conseguenza passato al primo postodella mortifera “classifica”. Infatti, è stato stracciato il precedente “primato” detenuto da un militare inglese, conquistato in Afghanistan nel 2009 con soli 2475 metri utilizzando il fucile “tal dei tali”. Nella graduatoria internazionale c’è anche un militare italiano. Si è conquistato il suo bravo posto con 2280 metri, sempre in Iraq.
In queste drammatiche vicende stupisce ancor più il modello operativo che impone grande “rigore” con le misurazioni logistiche effettuate. In un contesto di guerra, atroce e distruttore, dopo il colpo uccisore, evidentemente “scendono in campo” delle persone che svolgono la funzione di arbitri che misurano ( chissà con quali diavolerie tecnologiche) l’esatta distanza ( tolleranza un metro) intercorrente tra lo sparatore e l’uomo rimasto riverso nel rantolo della morte.
Tutto a gioia dei costruttori di armi, in questo caso dei fucili di precisione, e della “cultura” della guerra.
domenico stimolo
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