di Yakov M. Rabkin
Nel 2010, in un discorso ufficiale pronunciato a Washington, il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu respinse l’accusa secondo cui «gli ebrei sono colonialisti stranieri nella loro stessa patria [come] una delle grandi menzogne dei tempi moderni»:
Nel mio ufficio c’è un anello con sigillo che ho avuto in prestito dal Dipartimento Israeliano delle Antichità. L’anello è stato rinvenuto vicino al Muro Occidentale, ma risale a qualcosa come 2800 anni fa, duecento anni dopo che re Davide fece di Gerusalemme la nostra capitale.
L’anello reca il sigillo di un funzionario ebreo, e su di esso è inciso in ebraico il suo nome: Netanyahu. Netanyahu Ben-Yoash. È il mio cognome. Il mio nome, Beniamino, risale a 1000 anni prima – a Beniamino figlio di Giacobbe.
Molti osservatori fecero notare, tuttavia, che il cognome originale della famiglia del primo ministro era Mileikowsky. Suo padre, nato nell’impero russo nel 1910, come molti sionisti adottò lo pseudonimo «Netanyahu» (Dono di Dio), in origine come nom de plume. Negli anni Settanta, che trascorse negli Stati Uniti, il futuro primo ministro abbreviò il suo cognome in «Nitai», un altro pseudonimo letterario utilizzato da suo padre che sarebbe risultato più facile da pronunciare per gli americani. Ma è la sostanza dell’argomentazione, e non le sottigliezze dei mutamenti di nome, a evidenziare l’uso politico e astorico dell’archeologia – così come della Bibbia – nel discorso sionista.
Riguardo allo stesso tema, l’intellettuale israeliano Amnon Raz-Krakozkin ha messo in luce in modo calzante e conciso il paradosso professato dai fondatori del sionismo: «Dio non esiste e ci ha promesso questa terra».
Ma
il richiamo alla promessa divina è stato ed è tuttora efficace dinanzi a un pubblico
di fede protestante. Se Ben-Gurion, brandendo la Bibbia, riuscì ad accattivarsi
le simpatie della Commissione Peel nel 1936,[1]
Binyamin Netanyahu, appellandosi alla promessa divina, è riuscito a strappare
una standing ovation in entrambe le camere del Congresso USA nel 2011.
La citazione è tratta dal libro di Rabkin "What is modern Israel?"
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