Sergio Flamigni – Dopo il sequestro fu portato in via Massimi, in un palazzo “frequentatissimo”
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista che Sergio Flamigni ha rilasciato a Vindice Lecis per “Fuoripagina”
Fonte: IL FATTO QUOTIDIANO
La verità avanza troppo lentamente nelle nebbie delle complicità e delle connivenze internazionali che hanno impedito che si facesse piena luce sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La vulgata ufficiale, la pax tra brigatisti e lo Stato basata sul famoso memoriale Morucci benedetto dalla Dc, è sempre meno credibile. Il protagonista instancabile della ricerca della verità è Sergio Flamigni, classe 1925, parlamentare Pci dal 1968 al 1987, e componente delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul Caso Moro, Antimafia e sulla P2. È autore di numerosi e approfonditi saggi sul caso Moro e sull’eversione. Ecco cosa dice oggi, a 40 anni da via Fani: “La verità che conosciamo è solo parziale. C’è chi non vuole che si conosca. Soprattutto da parte di chi ha avuto la gestione degli apparati di sicurezza e ha sostenuto le tesi di comodo per nascondere come si sono svolti i fatti e quali siano stati i reali protagonisti”.
Il nodo è sempre il memoriale Morucci, base di quello che lei chiama il patto di omertà. Tra chi?
Tra pezzi dello Stato e terroristi. Nel mio libro del 2014 ponevo una serie di interrogativi relativi ai buchi neri del caso Moro. Ad esempio, di quale apparato fu la regia dell’operazione del 18 aprile 1978, quella del comunicato falso del lago della Duchessa e della ‘scoperta’ del covo di via Gradoli?
La commissione presieduta dal senatore Fioroni però questa volta scioglie qualche nodo…
Scopre alcuni fatti che la inducono a non dare credito alle verità di comodo che i brigatisti e gli apparati ci hanno sempre raccontato. Ci sono anche le verità indicibili: quelle coperte dal segreto, riguardanti complicità dei servizi segreti diretti da uomini della P2, oppure relative alle ingerenze straniere che ebbero parte nella vicenda Moro. Le verità dicibili, sono le verità di comodo, del memoriale Morucci e Faranda. Quel memoriale, sollecitato dal capo del Sisde, redatto dal giornalista Cavedon, consegnato da suor Tersilla Barillà al presidente Cossiga il 13 marzo 1990, venne da lui trasmesso al ministro dell’Interno Gava tramite il prefetto Mosino solo il 26 aprile dello stesso anno. Che a sua volta lo fece pervenire finalmente alla Procura. Da allora quella è stata considerata la verità.
Invece di che cosa si tratta?
Di una sequenza di falsità. Ma la Commissione Moro che ha lavorato nell’ultima legislatura, ha accertato l’origine deviante e il contenuto menzognero del memoriale Morucci, secondo il quale l’operazione Moro sarebbe stata compiuta dalle sole Br. La verità è che l’affare Moro costituisce un’operazione internazionale su cui continua il segreto di Stato in vari Paesi. È un intrigo internazionale. Non è mai stato individuato il tiratore che in via Fani ha sparato 49 dei 90 colpi usati dai terroristi.
I punti oscuri sono numerosi. Ad esempio la gestione dei 55 giorni.
Molti dovrebbero ricordare, e anche il Corriere della Sera, che sembra non avere troppi dubbi sul memoriale di comodo, che in quei 55 giorni la P2 controllava totalmente i comitati di crisi. Piduisti erano i dirigenti dei Servizi segreti, da Santovito a Grassini a Federico Umberto D’Amato, dai generali Giudice e Lo Prete agli ammiragli Torrisi e Geraci, ai prefetti Pelosi e Guccione, che rispondevano a Licio Gelli. E almeno quella cinquantina di uomini che da loro dipendevano e facevano parte degli organi operativi. Costoro non hanno condotto indagini per scoprire la prigione di Moro e, anzi, hanno depistato. Che senso ha oggi consentire ai brigatisti, sui giornali e in televisione, di esporre le loro verità di comodo omettendo invece questioni di grande rilevanza? Con loro prevale una verità concordata con funzionari dei Servizi, dirigenti della Dc e uomini di governo.
Che cosa si vuole offuscare?
Principalmente vengono messi in ombra gli aspetti internazionali del caso Moro, il ruolo degli alleati, il ruolo svolto dall’americano Steve Pieczenik che si è vantato di avere indotto le Br a uccidere Moro e di essere così riuscito a stabilizzare l’Italia. Moro non era amato e, anzi, veniva contrastato dagli Usa che non vedevano di buon occhio la sua apertura ai comunisti.
Torniamo alle prigioni di Moro: qualcuno crede ancora a via Montalcini?
La prigione di via Montalcini descritta dai brigatisti era un angusto vano di tre metri di lunghezza e 90 centimetri di larghezza, dotato di un wc chimico. Secondo la verità ufficiale, in quella prigione, Moro immobilizzato su una brandina, avrebbe scritto le lettere e il memoriale per rispondere all’interrogatorio dei brigatisti. Dopo l’assassinio, i medici legali nel procedere alla svestizione prima dell’autopsia, rinvennero della sabbia nel risvolto dei pantaloni, nei calzini e sotto le scarpe dove vi erano anche residui di bitume, materiali dello stesso tipo erano anche nei pneumatici e nei pianali della Renault. Durante l’ispezione del cadavere, il professore Maraccino, coordinatore dei periti, constatò il colore abbronzato delle parti del corpo di solito esposte alla luce e ciò, aggiunto alla sabbia, gli fece pensare che fosse stato al mare; la muscolatura non era atrofizzata ma solida. Non erano le condizioni di un corpo che avesse sofferto una restrizione in quel bugigattolo che la tv ci ha trasmesso anche in questi giorni. Già da allora sarebbe stato utile prendere atto della bugia brigatista sull’unica prigione.
La commissione rivela che un altro covo è stato utilizzato: quello di via Massimi, in una palazzina sospetta.
Esatto. La commissione ha scoperto via Massimi 91 come prima prigione, dopo via Fani. Solo questo dovrebbe far saltare il memoriale Morucci con il florilegio di falsità, sul trasbordo di Moro in piazza Madonna del Cenacolo e trasporto fino al nuovo trasbordo nel magazzino della Standa e poi destinazione via Montalcini. La Commissione ha invece individuato con certezza l’arrivo di Moro dopo l’agguato nel compiacente garage della palazzina di via Massimi, otto minuti di auto da via Fani. Uno stabile di proprietà dello Ior, abitato anche da alcuni cardinali e frequentato dall’arcivescovo Marcinkus. Non solo: si accerta che nello stabile operava la sede di un ufficio di intelligence Usa che lavorava con la Nato. Inoltre viene rivelato che un ufficiale dell’aeronautica e sua moglie, entrambi legati all’area di Autonomia e inquilini nella stessa palazzina, hanno ammesso di avere dato ospitalita al br Prospero Gallinari nell’autunno 1978.
Dopo via Massimi, dove fu portato Moro?
In una zona del litorale romano, probabilmente a Palo Laziale. Il 21 marzo venne segnalata al Sismi la presenza di Moro in quella zona. Cossiga allertò gli incursori della Marina militare, ma alle 13 li smobilitò e di questo non fornì spiegazioni plausibili. Quella zona è adiacente al lido di Palidoro, proprio quel tratto di spiaggia che il professore Lombardi, nelle conclusioni della sua perizia, dà per certo essere il luogo di provenienza della sabbia e altri materiali rinvenuti su alcuni indumenti e sotto le scarpe di Moro e nella Renault. Preciso: Lido di Palidoro e non Lido di Ostia dove la Faranda e la Balzarani dicono di essere andate a prendere la sabbia e l’acqua di mare per inscenare un’azione di depistaggio. Ma vorrei concludere ancora sulla prigione di via Massimi…
La considera una scoperta importante?
Sì, perché conferma quanto il caso Moro avesse attori e dimensione internazionali. Solo ora scopriamo che due appartamenti di un intero piano erano occupati da monsignor Vagnozzi, il cardinale già nunzio apostolico negli Usa. Secondo un testimone, Moro avrebbe fatto visita a Vagnozzi in momenti politici delicati. Lo stabile era poi frequentato dallo stesso Marcinkus. E di costui, il brigatista Morucci era in possesso del suo recapito telefonico rinvenuto tra le carte sequestrategli in viale Giulio Cesare.
La sua tesi, e quella di altri autorevoli studiosi, è che con l’omicidio Moro si sia voluto bloccare il dialogo tra la Dc e il Pci di Enrico Berlinguer.
Sì, questo è stato lo scopo dell’operazione. Moro era stato avvertito già nel settembre 1974 durante il suo viaggio negli Usa. L’avvertimento era stato minaccioso al punto che ebbe un malore nella Chiesa di San Patrick e decise di disdire alcuni appuntamenti e anticipò il suo rientro in Italia. Nel dicembre prese la guida di un governo Moro-La Malfa che con l’apporto anche del Pci realizzò importanti riforme e giunse alle elezioni politiche del 1976 il cui risultato portò a due vincitori: la Dc che manteneva la maggioranza relativa e il Pci che ebbe la più grande avanzata e senza il suo concorso non era possibile governare il Paese. Tra Moro e Berlinguer si inaugurò la fase della solidarietà nazionale, che incontrava sospetti e ostilità di Usa e altri alleati. Nel gennaio 1978, quando Moro e Berlinguer si accordarono per un governo Dc sostenuto da una nuova maggioranza programmatica in cui entrava a fare parte anche il Pci, si misero all’erta le forze già pronte a strumentalizzare il terrorismo delle Br già infiltrate e da incanalare per l’operazione Moro, che doveva realizzare il sequestro per dividere le forze della politica di unità nazionale e uccidere Moro.
17 marzo 2018
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