mercoledì 25 luglio 2018

LA RIFONDAZIONE DEL MESSICO Il presidente Obrador



di Livio Zanotti


Non si tratta di retorica nazionalista, bensì dell’unico orizzonte su cui può operare una politica che pretenda di essere seria e credibile: quello di una rifondazione della più grande nazione di lingua spagnola del mondo, uno dei due maggiori interlocutori economico-commerciali dell’Italia in America Latina. E’ più necessità che ambizione. Le difficoltà da superare sono ciclopiche. Ma in un Occidente percorso da rigurgiti di autarchia e fremiti entropici, il Messico si presenta come un proposito aperto in se stesso e all’esterno, all’Europa in particolare, dove cerca testimoni e partner.  Può divenire un esempio.

E’ il progetto che il sessantaquattrenne Andrés Manuel Lopez Obrador, il leader di centro-sinistra eletto da una maggioranza senza precedenti, sta assemblando pezzo a pezzo per cominciare a porlo in atto nel prossimo dicembre, quando assumerà la presidenza della Repubblica. C’è anche questo richiamo in quel grande ritratto di Benito Juarez, primo Presidente indigeno d’America (1861), che AMLO aveva alle sue spalle nell’ufficio da sindaco di Città del Messico e il solo oggetto che ha portato a casa lasciando l’incarico. L’indio Juarez aveva vissuto negli Stati Uniti, ne aveva studiato il sistema istituzionale e cercato vanamente il sostegno.

La via che si propone d’intraprendere il nuovo Messico è una prova del destino, come nei miti antichi: obbligata e cosparsa di ostacoli mortali.  Solo una visione complessiva e integrata dei fattori di crisi che lo stanno soffocando può consentire di predisporre e portare avanti la sua salvezza. Alle centinaia di migliaia di assassinati, sequestrati, desaparecidos, ai loro familiari e amici che ora rivendicano giustizia, corrisponde una caduta della ricchezza prodotta che solo l’anno scorso è stata del 21 per cento. La paura come stato d’animo quotidiano è sconosciuta a ben pochi dei 130 milioni di messicani e un affare solo per i caciques dei cartelli della droga.

L’aggressivo protezionismo di Trump è l’ultima sciagura. Per la salute dell’economia era già veleno la vertiginosa polarizzazione, che come una faglia a rischio sismico squarcia la società; al punto che 4 pluri-miliardari in dollari hanno sul ciglio opposto del burrone sessantadue milioni di poveri dichiarati tali dall’ufficio nazionale di statistica. Il riformismo di Obrador deve perciò intervenire a 360 gradi e per farlo ha bisogno di un nuovo paradigma, capace di sopportare altezza e densità delle speranze che hanno messo insieme i 25 milioni di voti ricevuti. Una massa di suffragi inevitabilmente eterogenea. Dunque tutt’altro che facile da mantenere unita.



Palacio de Bellas Artes, Città del Messico

AMLO sta promuovendo ampi comitati di esperti convocati dalla società civile e dall’estero (ha preso contatto anche con Papa Francesco), oltre che dal proprio Movimento di Rigenerazione Nazionale (MORENA). Sommati dovrebbero configurare un dibattito generale sulle problematiche più urgenti. Dalla corruzione dello stato alla violenza del narcotraffico, alla recessione economica, all’emarginazione dei popoli originari. E attraverso fasi aperte alternate ad altre ristrette e riservate, aspirano a mobilitare l’opinione pubblica nei 4 mesi e mezzo che mancano all’entrata in funzione del governo. Alcuni ministri potrebbero anche uscire da queste convenzioni, altri vengono designati in questi giorni da Obrador. I primi contrasti interni all’universo popolare scaturiscono però da valutazioni politiche opposte.

Sebbene significativo, il primo non ha sorpreso. L’auto-denominato Esercito Zapatista di Liberazione (EZLN) e il suo Comandane Marcos, storici e vivaci protagonisti del pacifico insurrezionalismo indigeno nel Chiapas, hanno confermato le critiche a Obrador, già espresse in campagna elettorale: “il nuovo Presidente vuole rinnovare le élites che governano, non il capitalismo che praticano”. A sinistra, più di un esponente storico del comunismo messicano (che in un momento fu vicino al cosiddetto Eurocomunismo) pronuncia parole analoghe. Il dissenso più concreto in termini politico-istituzionali, che potrebbe portare a una frattura multipla nella base più militante, è avvenuto invece sul terreno della democrazia sostanziale.

Obrador ha respinto la richiesta del vasto e attivissimo associazionismo (oltre 300 gruppi) che da anni si batte per una riforma costituzionale capace di garantire alla Procura Generale della Repubblica, cioè alla magistratura inquirente, l’assoluta indipendenza dal potere esecutivo. In definitiva -a questo punto- da lui stesso. La questione è di principio. Ma è anche molto diffusa la preoccupazione che la dilagante vittoria del partito del Presidente, MORENA, e della coalizione che lo ha affiancato, possa richiamare nelle sue file i profittatori in fuga dal vecchio regime sconfitto. Il trasformismo politico non conosce frontiere. E il grado di autonomia del potere giudiziario in una situazione compromessa come quella messicana è un dato fondamentale.


Ma la visione di AMLO è d’opportunità oltre che di principio. E’ anche quella di un leader non privo di personalismi. La priorità dichiarata è il riconoscimento dei diritti storici delle dimenticate 68 etnie indigene messicane. Sta intanto trattando un patto con i grandi imprenditori che nella quasi totalità gli sono stati ostili, per rilanciare produzione e occupazione. Intende ridurre il costosissimo e fallimentare impegno militare nella lotta ai cartelli della droga, per concentrarne lo sforzo sulla persecuzione dei loro stratosferici profitti. Prevede una generosa amnistia: offrire una possibilità di riscatto non ai capi e ai killer del narcotraffico e della criminalità comune, bensì alle migliaia di emarginati complici o contigui. E in qualche modo comprendervi i reati minori di corruzione.

Il nuovo Presidente è uno sperimentato esploratore della società e della politica messicane, di cui conosce debolezze e pericolosità. Pertanto ben consapevole d’essere sul punto d’inoltrarsi in un’intricatissima giungla d’interessi contrastanti ma profondamente radicati; popolata da protagonisti potenti e feroci, organizzati per clan e abituati a vedere come una preda lo stato, a sua volta ostaggio delle corporazioni. Egli mira adesso a rovesciargli contro la pratica del dividi et impera da essi finora perseguita attraverso la corruzione e la minaccia. La sua maggioranza controlla il Congresso e 29 dei 31 stati della Federazione, ha fama di abilissimo negoziatore e non rinuncia a nessuna delle sue prerogative, vuole mani libere.

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