domenica 31 gennaio 2016

ITALIA - LIBIA: BASTA GUERRE


Alcuni ribelli libici impiccati nel 1928 (dalle truppe italiane invasori).

















di Alex Zanotelli 
Missionario italiano combonianio e 
direttore di Mosaico di Pace)

Un'inesorabile coazione a ripetere?

Italia-Libia: basta guerre!

Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta.
31 gennaio 2016 - 


Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici.  L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati americani ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come "un’operazione di peacekeeping e umanitaria."
L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire. Il nostro paese – così sostiene il governo Renzi – attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E altrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento.
Sarebbe però ora che il popolo italiano–tramite il Parlamento–si interrogasse , prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti,se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici.
A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’ oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. Con questo passato, abbiamo , noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?
Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli USA da parte loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli USA stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo dagli USA missili e bombe per armare i droni Predator MQ-9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari. Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia.
 L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’ISIS. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani. (L’Arabia Saudita non rispetta i diritti umani e fa la guerra in Yemen.)

Per cui diventa pura ipocrisia per l’Italia intervenire militarmente in Libia per combattere l’Isis, quando appare chiaro che siamo noi ad armarlo. E’ così che siamo noi a creare i mostri e poi facciamo nuove guerre per distruggerli. “La guerra è proprio la scelta per le ricchezze – ha detto recentemente Papa Francesco. Facciamo armi: così l’economia si bilancia un po’ e andiamo avanti con il nostro interesse. C’è una brutta parola del Signore.Maledetti coloro che operano per la guerra, che fanno le guerre: sono maledetti, sono delinquenti!” 

Basandoci su questa lettura sapienziale, dobbiamo dire NO a questa nuova guerra contro la Libia. Quello che ai poteri forti interessa non è la tragica situazione del popolo libico, ma il petrolio di quel paese. Dobbiamo tutti mobilitarci! 

 In questo momento così grave è triste vedere il movimento per la pace frantumato in mille rivoli. Oseremo metterci tutti insieme per esprimere con un’unica voce il nostro NO alla guerra contro la Libia, un NO a tutte le guerre che insaguinano il nostro mondo? 

E’ possibile un incontro a Roma di tutte le realtà di base per costruire un coordinamento o un Forum nazionale contro le guerre? 

E’ possibile pensare a una Manifestazione Nazionale contro tutte le guerre, contro la produzione bellica italiana, contro la vendita di armi all’Arabia Saudita e al Qatar, in barba alla legge 185? E contro le nuove bombe atomiche in arrivo all’Italia, le B61-12. 

E’ possibile pensare a una Perugia-Assisi 2016, retaggio storico di Capitini, sostenuta e voluta da tutto il movimento per la pace? 

Smettiamola di ‘farci la guerra’ l’un con l’altro e impariamo a lavorare in rete contro questo Sistema di morte. “La guerra è un affare - ha detto recentemente Papa Francesco. I terroristi fabbricano armi? Chi dà loro le armi? C’è tutta una rete di interessi, dove dietro ci sono i soldi o il potere. Io penso che le guerre sono un peccato, distruggono l’umanità, sono la causa di sfruttamento, traffici di persone. Si devono fermare.”

domenica 24 gennaio 2016

Montenegro, NATO, Balcani. Quale futuro?





di Enrico Vigna
(Forum Belgrado Italia) 


Il 2015 ha visto per l’area balcanica un ulteriore colpo alla stabilità ed alla pacificazione dell’area. Gli scontri di piazza verificatisi negli ultimi mesi dell’anno, dopo che è partita una campagna propagandistica governativa che intende guidare l’opinione pubblica verso l’entrata nella NATO. Alcune forze come il Fronte Democratico e il movimento per la pace “NO alla guerra-NO alla NATO”, hanno deciso di scendere in piazza con proteste che la polizia, su ordine del governo, ha cercato di reprimere violentemente. Ma penso sia errato pensare che la protesta riguardi in primis la questione NATO (pur centrale). A chi segue da vicino le vicende montenegrine, non sfugge che, giustamente, queste forze stanno cercando di portare in piazza la gente con una lettura complessiva della situazione del paese. Uno stato che sta sprofondando, secondo le stime del FMI e degli economisti internazionali, verso lo stadio della povertà assoluta per fette sempre più consistenti della popolazione, ormai celebre a livello internazionale per una corruzione dilagante, una criminalità che ha messo salde radici nel paese (le varie mafie, italiana, russa, albanese hanno finanziariamente il paese nelle loro mani, come denunciato anche dai centri di investigazione italiani ed europei). Non bisogna dimenticare che lo stesso primo ministro del Montenegro, Djukanovic, è indagato dalla Procura italiana per connivenza con la Sacra Corona Unita pugliese. Il governo che cosa fa di fronte a questo scenario? Lancia una privatizzazione selvaggia, pratica un programma di riduzione o addirittura abolizione delle ultime norme di stato sociale, elimina i benefici rivolti agli investimenti sull’occupazione dei giovani, blocca le pensioni e i salari, inasprisce le leggi che limitano libertà sociali e politiche…ma investe milioni di euro per campagne mediatiche di pubblicizzazione e sostegno all’ingresso nella NATO come obiettivo fondamentale per la crescita del paese. Incontri della NATO organizzate nel più lussuoso hotel della capitale, ricevimenti nei ristoranti più costosi, meeting in cui il numero degli altoparlanti spesso superava il numero di cittadini presenti, continui spot televisivi a pagamento sulle TV, decine di cartelloni pubblicitari in ogni città del Montenegro. Ma tutto questo non per caso, come spiegano bene i leaders delle proteste: infatti il governo è cosciente che nel paese, la maggioranza della popolazione, o rifiuta la NATO come prospettiva, oppure la considera come una alleanza ad essa non benevola. Una alleanza militare, che non solo ha bombardato il paese, ma ha utilizzato armamenti come quelli a base di l’uranio impoverito o le cluster bombs, devastando per sempre il territorio e l’ambiente. Il movimento di protesta, per far prendere coscienza di cos’è la NATO, ha prodotto documenti dove si cita l’opuscolo con le indicazioni obbligatorie, ai tempi dei bombardamenti sulla RFJ, per i soldati della NATO in Kosovo, dove era scritto testualmente: "L'inalazione di particelle insolubili di polvere di uranio è associata con conseguenze per la salute a lungo termine, tra cui il cancro e difetti di nascita. Questi effetti possono diventare visibili solo qualche anno più tardi". Il movimento ha portato avanti una richiesta ufficiale al Ministro della Sanità montenegrino, il dottor B. Šegrta, perché presenti pubblicamente le statistiche ufficiali dal tempo della campagna di bombardamenti NATO, dove si rileva l'aumento di malattie e di decessi per malattie maligne, nel corso degli ultimi due decenni, e per avviare la formazione di un gruppo di esperti indipendenti, nonché per fornire una stima di quanta incidenza hanno avuto su questo, i bombardamenti NATO e l'uso di munizioni all'uranio impoverito. E’ proprio muovendosi in questo quadro complessivo e sociale che, in particolare a Podgorica, sono scese in piazza migliaia di persone, con una forma di autorganizzazione, su parole d’ordine che affermano che l'inclusione del Montenegro nel processo di integrazione euro-atlantica non porta sviluppo, consolidamento o prosperità al paese. Va rilevato che in questo momento non vi è in Montenegro un partito o una forza politica consistente, con una politica o una proposta chiara e concreta, all’interno dello stesso Fronte Democratico che guida le proteste di piazza; al suo interno vi sono esponenti che appoggiano le proteste ma in realtà sono legati ad interessi interni al sistema e lontani dalle reali esigenze e bisogni della gente. Si tratterà di capire nell’evolversi della situazione, chi manterrà una posizione ferma e chi si adeguerà per salvarsi lo scranno. Uno scenario già visto in Montenegro ai tempi della secessione dalla RFJ e anche in Serbia. IL TEMPO E’ GIUNTO! Questo per quanto riguarda la situazione interna al paese, ma è evidente che, come spiegato anche da analisti militari indipendenti, a Podgorica si svolge un “gioco globale", in cui è coinvolta anche la Serbia, per creare ulteriori difficoltà alla Russia, che nei Balcani ha un retroterra culturale e politico molto radicato nelle popolazioni, e su questo sta cercando di riprendere un ruolo di primo piano e ostacolare l’occidentalizzazione completa della regione. Se la NATO non riuscisse ad egemonizzare completamente l’area, molte prospettive ed alleanze strategiche dovrebbero essere ridefinite. Intanto dopo le manifestazioni di ottobre e i violenti scontri, a metà dicembre si sono svolte nuove proteste e manifestazioni con la parola d’ordine contro la guerra e contro la NATO, per un referendum popolare e per le dimissioni del governo. "Se si impedirà il referendum e ci sarà un tentativo fraudolento in Parlamento circa la decisione di adesione alla NATO, il Montenegro sarà portato sull'orlo di uno conflitto interno molto pericoloso", ha dichiarato al comizio, Andrija Madic, il leader del Nuovo Partito Democratico Serbo, sicuramente il motore più deciso e consistente di queste proteste. La protesta è nuovamente tornata davanti al parlamento con la partecipazione di quasi 10.000 persone, secondo gli organizzatori. Il 2 dicembre la NATO ha ufficialmente invitato il Montenegro a diventare un suo membro, provocando la reazione diplomatica della Russia, che ha bollato questo passo come una minaccia alla stabilizzazione e pacificazione dei Balcani. Nel frattempo il Primo Ministro montenegrino Milo Djukanovic, preoccupato per gli esiti della consultazione popolare, ha risolutamente respinto gli appelli per organizzare un referendum sulla adesione al Trattato NATO. "Ci hanno invitato solo per avere un po' di più soldati da mandare nelle loro guerre e poi contro la Russia. Noi in Montenegro non dobbiamo e non dovremo prendere parte a questa partita", ha dichiarato Bulatovic, ex presidente del Montenegro jugoslavo, ai manifestanti che sventolavano bandiere russe e serbe e cantavano "Putin è con i serbi!" e "Madre Russia!" "Assassini della NATO", urlava la folla, mentre alcuni partecipanti portavano candele in memoria delle vittime dei bombardamenti della NATO in Montenegro. "Ci hanno bombardato per più di 70 giorni, quindi come possiamo perdonarli per le vittime e la distruzione del nostro paese? In nessun modo e mai potremo dimenticare questo", ha detto Radomir, un elettricista di 46 anni in un intervento. Il presidente del Centro NO Guerra-NO NATO, Gojko Raicevic ha dichiarato al sito Analytics che le possibilità di contrastare e piegare l’attuale governo sono fondate sulla speranza che il popolo del Montenegro non abbia perso la voglia di cercare la libertà sopra ogni altra cosa. Il Fronte Democratico è una coalizione politica di opposizione in Montenegro. E' composto dal Nuovo Partito Democratico Serbo, dal Movimento per il cambiamento, dal Partito Democratico del Popolo, dal Partito dei Lavoratori e dal Partito Unito dei Pensionati e Disabili, oltre ad associazioni, organizzazioni studentesche, accademici, personalità indipendenti e anche una frazione del Partito Popolare Socialista. L'obiettivo di questa alleanza è di rovesciare il Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro di Milo Đukanović, che è al potere dal 1991. Miodrag Lekic ex ambasciatore a Roma della RFJ, ha guidato la lista dell'alleanza alle elezioni parlamentari dell’ottobre 2012 e alle elezioni presidenziali del 2013, supportato sia dal Fronte Democratico che dal Partito Popolare Socialista. Secondo la relazione della commissione elettorale fu sconfitto con un margine strettissimo da Filip Vujanović, sostenuto dalle forze governative. Ma molti osservatori internazionali indipendenti rilevarono che la vittoria di Vujanovic era frutto di una massiccia frode elettorale. Una breve cronaca degli avvenimenti. Dalla fine di settembre alla fine di ottobre per 20 giorni le forze di opposizione all’attuale governo, insieme a sindacati, giovani e associazioni civili, hanno manifestato e occupato la piazza davanti al Parlamento a Podgorica, per chiedere le dimissioni del governo Djukanovic e contro le misure antipopolari sempre più dure riguardanti lo stato sociale, le privatizzazioni, la corruzione e la criminalità che hanno in mano il paese e la società montenegrina; a fianco di questo veniva richiesto un Referendum popolare per decidere la ventilata decisione di adesione alla NATO, diventata poi ufficiale il 2 dicembre. In tutto questo tempo decine di migliaia di montenegrini hanno occupato pacificamente notte e giorno la piazza del parlamento, ma a differenza di Piazza Maidan a Kiev, alle 5.45 del 16 ottobre 2015 un migliaio di membri delle unità speciale di polizia, portate da tutto il Montenegro, e di forze di polizia regolari in tenuta antisommossa, hanno brutalmente attaccato e sgomberato questa pacifica protesta. La polizia ha arrestato decine di manifestanti oltre ai parlamentari del FD Slaven Radunovic e Vladislav Bojovic. Nell’attacco ci sono stati anche decine di feriti tra cui uno molto grave. Anche il presidente del Partito Nazionale Democratico e membro del Presidium del FD Milan Knezevic è stato brutalmente e senza alcuna motivazione, picchiato e spruzzato sul viso con gas lacrimogeni e urticanti e trasportato con urgenza al Centro di Emergenza ospedaliero della capitale. Il Metropolita della Chiesa Ortodossa serba Amfilohije alle manifestazioni di Podgorica “Non vi è alcun motivo per la polizia di stare qui a controllare chi è qui per costruire, altri sono i luoghi dove si distrugge, si rapina, si ruba, distruggendo così il Montenegro e il suo onore…si allontani la polizia da qui e da queste persone, lottano per la libertà, per essa sono qui e vogliono la libertà di costruire il proprio futuro", ha dichiarato alla piazza il metropolita Amfilohije. “Invece di favorire una equa ripartizione di tutti i beni, c’è chi ha collaborato con la criminalità europea; ora che sono diventati borghesi, si dicono a favore la democrazia. Tutto ciò che è stato costruito dal popolo, questi lo hanno ridotto ad una triste realtà. Quella che era una nazione, ora non c'è più. Ora abbiamo miliardari che insieme con altri miliardari europei e americani disgregano il paese. E dall’altra parte abbiamo sempre più poveri.” 'Non va bene ", diceva San Pietro. Non si costruisce su questo il futuro del Montenegro", ha detto l'arcivescovo. "La vera Europa è Dante, non questi che hanno bombardato il Montenegro non troppo tempo fa ". Il Metropolita ha anche dichiarato che “quelli senza cervello [krivomozgići] hanno invocato l'occupante. Chi è che mi proclama nemico del popolo? Questo governo? Lo sanno che qui c’è stata per cinquant'anni una ideologia comunista, che ha anche avuto qualcosa di buono, quando ha predicato la fraternità e la condivisone paritaria delle risorse e l'uguaglianza tra le nazioni? Costoro ora sono uniti con il crimine europeo e ora sono per la democrazia e la borghesia", ha aggiunto. Il leader del FD Andrija Mandic ha ringraziato Amfilohije per la sua presenza e ha detto che "avevano sperato tanto che lui fosse stato con loro lì in quella piazza, anche la notte". Al che Amfilohije ha chiesto un posto in una delle tende della protesta. 

 Video attacco e arresti delle forze speciali montenegrine: 
https://youtu.be/nCQAmyVdTpo https://www.facebook.com/podgoricavremeplov/videos/1066123183419238/ 
 NON NEL MIO NOME!! 
A cura di Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado Italia, dicembre 2015

mercoledì 20 gennaio 2016

STRELA ERA MORTO E VEDEVA LA LUNA




(A destra Gastone Cottino)


di Gastone Cottino (1)


DIEGO SIRAGUSA
Strela era morto e vedeva la luna,  
prefazione di Antonio Pizzinato, 
Zambon editore, 2015.


La storia di Strela é e non è, malgrado la si definisca tale, un romanzo nel senso proprio del termine E’ la storia reale e drammatica, drammaticissima nei suoi risvolti conclusivi, di Giovanni Benetti, ribattezzato Strela per la stella rossa che da partigiano porta sul petto: arricchita  e letterariamente reimmaginata e rivissuta, al calor bianco dei suoi eventi, incontri, pensieri,  parole, dalla intensa ricostruzione di Diego Siragusa.
E’ la storia di un rude, forte bracciante della campagne attorno a Carpi, estroverso come usa in Emilia e anche un po’ spaccone: che, nel 1942, ha già alle spalle, come tanti suoi coetanei, le aspre esperienze di fatica, di soprusi, e di fame, della famiglie contadine della bassa modenese, e che tuttavia a quella pur ingrata terra e al piccolo mondo di amici e di affetti che in essa ha le sue radici è visceralmente abbarbicato. Motivo per cui tanto più angosciosi saranno, dinanzi alla guerra, alla chiamata alle armi e, dopo l’otto settembre, alla reviviscenza vendicativa del fascismo e ai suoi truci bandi di reclutamento, il trauma e i rovelli di scelte destinate a strapparlo da essa e da quel suo piccolo mondo.
Il  “romanzo” di Strela é perciò anche, attraverso la sua figura e le sue vicende, uno spaccato di vita italiana, di una società contadina già orgogliosamente ribelle e in prima linea negli anni venti del novecento nelle lotte contro gli agrari, e mai del tutto domata da due decenni di repressione e “normalizzazione” fascista. Nella quale la lenta maturazione, nei più giovani, cresciuti dopo quelle lotte, di una coscienza di classe e antifascista avviene quasi inconsciamente, come respirata dalla testimonianza dei più anziani e dagli echi non spenti degli antichi conflitti.
In Strela si ritrova così, con i suoi  umori, i suoi dubbi, i suoi travagli, le sue esitazioni e l’ancora irrisolto dilemma tra spirito di rivolta e indugi a rompere i legami e le abitudini di una rassicurante quotidianità, la vicenda umana, etica, civile di una generazione.
Egli non è, per vocazione, un eroe. Tenderebbe anzi a sottrarsi a tutto ciò che sa di guerra e a ciò che essa comporta. Questo suo stato d’animo è ben fotografato dall’autore in un immaginario inontro, di lui soldato in Francia con le nostre truppe di occupazione, con una fanciulla impegnata nella cospirazione antifascista: alle cui provocazioni risponde di non sentirsi “nè carne nè pesce”.
Ancora dopo l’otto settembre sua principale  aspirazione é di ritornare a casa, di ritrovare il suo paese, le sue quattro mura. Il cui richiamo rimane sempre, nel profondo, irresistibile: anche quando,   nei primi mesi del 1944, soffertamente indotto dalla minaccia di rappresaglie contro la sua famiglia a presentarsi ai distretti della repubblica di Salò e dislocato con la divisione Monterosa in Liguria, compie il passo decisivo; e, dopo aver disertato unendosi ai partigiani garibaldini operanti sui contrafforti liguri al comando di “Virgola”, nella primavera-estate e primo autunno si batte  coraggiosamente al loro fianco, senza sottrarsi ad alcun compito e missione, anche a quelle a più alto rischio.
Allorchè infatti, nel terribile novembre-dicembre del 1944, sotto la pressione congiunta di un nemico che ha rinserrato i ranghi,  tanto più ferocemente quanto più si approssima  l’ora della resa dei conti, e di un infausto proclama che invita i partigiani a sospendere le operazioni e ad occultarsi in attesa di tempi migliori, la Resistenza attraversa una grave crisi, molti abbandonano e le formazioni si assottigliano, la nostalgia si fa per Strela di nuovo acuta e struggente. Chiede di poter lasciare il reparto e, ottenutone  il consenso, intraprende  con alcuni suoi compagni  una lunga marcia verso l’Emilia.
Lunga, dalle mille insidie e questa volta, per tutti, dall’esito infausto.  Giunti, dopo avventurose peripezie, a pochi chilometri da Capriglio, non lontano dalla meta, i “fuggitivi” cadono infatti nelle mani dei nazifascisti. Dopo essere stato gettato  in una cantina assieme a due di essi, uno dei quali orrendamente ferito, Strela viene selvaggiamente torturato, nel tentativo di estorcergli sia i nomi delle donne e degli uomini che gli hanno dato cibo e riparo, sia informazioni utili a individuare e localizzare i  partigiani con i quali ha combattuto.
Ma nè le sevizie, crudelissime, nè le umiliazioni cui lo sottopone la soldataglia fascista, riescono a piegarlo. Pur  sapendo che l’ultimo prezzo da pagare sarà la condanna a morte, Strela oppone a esse il più ostinato silenzio.
Nel momento della prova estrema egli torna ad essere partigiano. Trova ancora la forza morale e le energie fisiche per resistere alla raffica che gli ha maciullato il braccio ma non lo ha ucciso, e, liberatosi dallo strato di terra sotto cui è sepolto e dai cadaveri che l’avviluppano,  per risollevarsi e percorrere, in uno  slancio quasi sovrumano, “lui morto che vedeva la luna”, i due interminabili chilometri che lo separano dalla sua unica àncora di salvezza, rappresentata dal convento missionario di Capriglio,
Ha ragione Antonio Pizzinato ad affermare che l’appassionata rievocazione che Diego Siragusa fa di questa straordinaria vicenda merita di essere conosciuta, soprattutto dai giovani. E con essa quella dei protagonisti “minori”, degli ignoti alla grande storia che pure furono determinanti per la sopravvivenza e il successo della Resistenza:  
-      dei macchinisti che rallentano le locomotive per consentire a chi tenta di sottrarsi alle retate tedesche di saltare sui treni; della gente comune che apre le porte ai braccati; dei frati  che fanno del convento un luogo di accoglienza e copertura; dei medici  che erigono una cortina protettiva sui partigiani  ricoverati nel loro ospedale; delle donne, l’Ormiste e l’Anna,   che trainano per chilometri e chilometri il carretto su cui è nascosto il ferito sfidando posti di blocco e mitragliamenti.
Ma anche, aggiungo, il suo tormentato e allucinante epilogo: il dopo, allorchè la falsa versione dovuta diffondere per meglio proteggerlo dai fascisti all’epoca del rocambolesco ricovero nell’Ospedale maggiore di Parma – essere stato egli catturato e “giustiziato” non dai nazisti ma dai partigiani – si ritorce su Giovanni Benetti. E, rovesciando perversamente il corso degli eventi, stende su di lui le nere ombre del sospetto, quasi che il passato partigiano non fosse esistito  e le torture, la dolorosa amputazione dell’avambraccio fossero i segni del tradimento. Sicchè Benetti vede ergersi  dinanzi a sè un muro di ostilità, diffidenza, emarginazione, è respinto dai compagni di partito e dagli stessi amici, ed è costretto ad iniziare una nuova amara battaglia per ristabilire la verità e la giustizia, per recuperare la sua dignità di partigiano e di cittadino: peraltro sempre conservando intatta sino all’ultimo giorno, anzi battendosi per riaffermarla – anche questo è un tratto avvincente del personaggio -, la fedeltà ai suoi ideali di militante comunista e di combattente antifascista.

(Ex professore di Diritto Commerciale, Preside della Facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino e, ora, Accademico dei Lincei)

APPELLO PER PASCALE E PER TUTTE LE VITTIME DELLA GUERRA SIRIANA

E' apparsa su molti giornali francesi nel mese di ottobre 2012 la "Lettera Aperta al Presidente della Repubblica Francese e  al suo Ministro degli Affari Esteri" scritta dal padre di Pascale Zerez, una ragazza cristiana di 20 anni, sposata da soli 3 mesi e uccisa sul bus che la trasportava da Lattakia ad Aleppo nell' attacco delle bande dell'Armata Siriana "Libera".

   

Domenica 14 ottobre 2012

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Francese e al Ministro degli Affari Esteri.

Signor Presidente della Repubblica Francese,
Signor Ministro degli Esteri,

Proprio come molti siriani, mi ritrovo padre di una vittima della guerra in atto nel nostro paese. Pascale aveva venti anni quando, il 9 ottobre, il bus pubblico su cui viaggiava è stato oggetto di un attacco in cui è morta, assassinata da una banda armata riconosciuta come parte dell'Esercito Siriano "Libero" a cui Lei dà supporto, incoraggiamento e che Lei alimenta fin dall'inizio del movimento.
Ragioni di Stato forse La spingono a prendere posizione a favore dell'Esercito Siriano "Free" (ASL)  ma non è certo nell’intento di liberare il popolo siriano dalla dittatura. L'attuale regime siriano e il suo apparato politico non è tenero, noi lo sappiamo bene e da molto tempo, ma le "bande" dell’ ASL associano ugualmente la brutalità alla arbitrarietà: il movimento porta con sé i semi di una nuova dittatura che sicuramente ci farà rimpiangere la precedente.
Sotto slogan generosi di libertà, di democrazia e di partecipazione al potere, Lei, con i suoi alleati, ha incoraggiato l'introduzione sul nostro territorio di gruppi estremisti salafiti, e altri elementi del movimento di Al Qaeda che vengono a uccidere e ad essere uccisi qui da noi, distruggendo ciò che possono sulla loro strada; perché dunque averceli inviati? Gli Occidentali non avrebbero avuto il coraggio di affrontarli essi stessi? Se il vostro obiettivo è quello di distruggere la Siria per proteggere Israele, credete veramente che ridurre il popolo siriano alla rovina e alla miseria potrà pacificare e dare sicurezza ad Israele?
I vostri predecessori, tra cui i rivoluzionari del 1789 hanno sempre fornito supporto e protezione per le minoranze cristiane in Siria e in Oriente. Oggi le vostre prese di posizione hanno l'effetto opposto e portano alla loro eliminazione. Credete che sradicare i cristiani porterà la civiltà?
E 'sorprendente come in breve tempo la politica francese sia riuscita a farci dubitare del significato della sua rivoluzione e il suo emblema: "Libertà, Uguaglianza, Fraternità"!
In Siria, la vostra politica nel senso della pratica del potere, ha introdotto l'arbitrarietà; così si può riassumere con un altro slogan: libertà e uguaglianza in Siria, mentre in Qatar oligarchia e privilegi. E circa la fraternità, che regnò da noi in mezzo alla gente, ecco che avete incoraggiato la guerra settaria, ignorando le palesi discriminazioni che vengono praticate in altri paesi arabi, tra cui l'Arabia Saudita.
Ci è stato detto che il cristianesimo non ha più gran credito nel Suo paese, ma al momento non si vede apparire una filosofia  più generosa e più evoluta di quella religione che ha costruito le cattedrali. In pochi mesi, Lei è arrivato con i suoi alleati a trasformare la fratellanza siriana musulmano-cristiana, che dobbiamo a queste due religioni, in una guerra quasi confessionale. E tuttavia, questo accordo religioso è la garanzia di un Islam tollerante che potrebbe diffondersi in tutto il mondo.
In cambio, la guerra che viviamo per volontà dell’ESL e dei suoi alleati sembra trasformare la  convivenza in ostilità, che si diffonderà in tutto il mondo con una maggiore rapidità rispetto al progetto. Può esserne certo: gli sconvolgimenti che ora viviamo noi, li verrete a vivere al più presto pure voi. Che cosa si sente echeggiare per le strade di Aleppo? "Dopo la Siria, l'Europa."

L'Islam moderato è molto fragile perché il Profeta mette in guardia i musulmani contro l'alleanza con i non-musulmani circa l’ opporsi ad altri musulmani. Lasciando proliferare l’Islam fondamentalista voi rendete ancora più fragili i musulmani moderati. Voi giocate anche contro di loro. Il fondamentalismo islamico ha sempre l'ultima parola, perché i moderati sono deboli e paralizzati dai versi del Corano nella lotta contro gli estremisti.
Il proverbio arabo dice: "Chi prepara un pasto velenoso è il primo a morire perché egli deve gustarlo". E il proverbio francese non dice forse "i guadagni illeciti alla fine non pagano mai"? Gli Stati Uniti hanno creato Bin Laden, ed hanno avuto l'11 settembre.
Naturalmente, ci sono molte ragioni che inviterebbero i cristiani siriani a prendere le distanze dal gruppo corrente del regime siriano; però vi posso dire che noi, cristiani siriani, non vediamo motivo di distruggere il nostro paese e uccidere i nostri bambini per passare da una corruzione ad un’ altra che sarebbe semplicemente per servire altrui interessi.
Meglio mantenere la politica che vogliamo, piuttosto che seguirne un’altra di cui non abbiamo il presentimento che sia molto migliore . La vostra politica non è altro che incoraggiare l'installazione di uno Stato confessionale in Siria attraverso l'adozione della legge islamica. Il Presidente Mursi, membro dei Fratelli Musulmani, come quelli che si delineano in Siria, non ha manifestato l'intenzione di imporre la "sharia" anche ai cristiani d'Egitto? Quando l’avremo a casa nostra, grazie a voi, non ci sarà che augurarla pure a voi e alle vostre donne.
Perché questa lettera aperta di un padre colpito in ciò che ha di più caro? E 'per esprimere un cuore ferito dal dolore o perchè questa sofferenza proclami ad alta voce ciò che un cuore tiepido e indifferente non è in grado di suggerire?
Signor Presidente della Repubblica Francese, Signor Ministro degli Affari Esteri, accettate che vi inviti a cambiare la vostra politica per adottarne una più coraggiosa e più virile,
Accettate che il mio invito sia una supplica, ma non rimanete più a lungo implorati. In nome della libertà e di ciò che ne resta, in nome dell'uguaglianza e di quello che se ne è fatto e il nome della fratellanza umana ridotta in briciole, io vi prego, con migliaia di famiglie, di smettere di sostenere e finanziare le bande armate che proclamano che il vostro turno verrà dopo il nostro.
Abbiate pietà delle famiglie ferite e disarmate, delle famiglie in lutto, delle famiglie che non hanno più tetto, di centinaia di migliaia di giovani che non hanno più speranza.
Avete visto come Aleppo, la città millenaria, è diventata una città fantasma? Potreste anche solo immaginare Parigi diventare una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi vaghino in cerca di rifugio per evitare spari e i tiri di mortaio dell’ arbitrarietà, del fanatismo e della brutalità?
I vostri alleati sul posto si sono accaniti su Aleppo, con i suoi bazar che hanno alimentato per secoli l'Europa, hanno attaccato perfino le rovine. La Basilica di San Simeone che circonda la famosa colonna del celebre primo Stilita è ormai una rovina di rovine. Decine di Chiese, Moschee, le fabbriche, le scuole, le università sono stati oggetto di loro colpi e che dire dei tesori archeologici che vengono rubati e dispersi per portarci la democrazia!
Vi supplichiamo, Signor Presidente della Repubblica Francese, Signor Ministro degli Affari esteri della Repubblica Francese, cessate il vostro sostegno agli elementi armati che non obbediscono a nessuna legge e tornate a ciò che ha fatto la gloria della Francia.
Vi prego di accettare, Signor Presidente della Repubblica Francese, Signor Ministro degli Affari esteri della Repubblica Francese, l'espressione della mia più alta considerazione.

Claude ZEREZ, padre di Pascale uccisa a Homs all’età di 20 anni il 9 ottobre 2012.

domenica 17 gennaio 2016

17 GENNAIO 1991 - La «Tempesta nel deserto» apriva la fase che viviamo





di Manlio Dinucci

da il manifesto, 16 gennaio 2015


Nelle prime ore del 17 gennaio 1991, inizia nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apre la fase storica che stiamo vivendo. Questa guerra viene lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stanno per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Ciò crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. E, su scala mondiale, scompare la superpotenza in grado di fronteggiare quella statunitense. «Il presidente Bush coglie questo cambiamento storico», racconta Colin Powell. Washington traccia subito «una nuova strategia della sicurezza nazionale e una strategia militare per sostenerla». L’attacco iracheno al Kuwait, ordinato da Saddam Hussein nell’agosto 1990, «fa sì che gli Stati uniti possano mettere in pratica la nuova strategia esattamente nel momento in cui cominciano a pubblicizzarla».

Il Saddam Hussein, che diventa «nemico numero uno», è lo stesso che gli Stati uniti hanno sostenuto negli anni Ottanta nella guerra contro l’Iran di Khomeini, allora «nemico numero uno» per gli interessi Usa in Medioriente. Ma quando nel 1988 termina la guerra con l’Iran, gli Usa temono che l’Iraq, grazie anche all’assistenza sovietica, acquisti un ruolo dominante nella regione.
Ricorrono quindi alla tradizionale politica del «divide et impera». Sotto regia di Washington, cambia anche l’atteggiamento del Kuwait: esso esige l’immediato rimborso del debito contratto dall’Iraq e, sfruttando il giacimento di Rumaila che si estende sotto ambedue i territori, porta la propria produzione petrolifera oltre la quota stabilita dall’Opec. Danneggia così l’Iraq, uscito dalla guerra con un debito estero di oltre 70 miliardi di dollari, 40 dei quali dovuti a Kuwait e Arabia Saudita. A questo punto Saddam Hussein pensa di uscire dall’impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano che, in base ai confini tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy Cox, sbarra l’accesso dell’Iraq al Golfo.

Washington lascia credere a Baghdad di voler restare fuori dal contenzioso. Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti del Pentagono mostrano che l’invasione è ormai imminente, l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glaspie — come spiegò poi nella sua intervista a Jeune Afrique -, assicura Saddam Hussein che gli Stati uniti desiderano avere le migliori relazioni con l’Iraq e non intendono interferire nei conflitti inter-arabi. Saddam Hussein cade nella trappola: una settimana dopo, il 1° agosto 1990, le forze irachene invadono il Kuwait.

A questo punto Washington, formata una coalizione internazionale, invia nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi, agli ordini del generale Schwarzkopf. Per 43 giorni, l’aviazione Usa e alleata effettua, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciano l’offensiva terrestre. Essa termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush. Alla guerra segue l’embargo, che provoca nella popolazione irachena più vittime della guerra: oltre un milione, tra cui circa la metà bambini.

Subito dopo la guerra del Golfo, Washington lancia ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, agosto 1991).

La guerra del Golfo è la prima guerra a cui partecipa sotto comando Usa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11 della Costituzione. La Nato, pur non partecipando ufficialmente alla guerra, mette a disposizione sue forze e strutture per le operazioni militari. Pochi mesi dopo, nel novembre 1991, il Consiglio Atlantico vara, sulla scia della nuova strategia Usa, il «nuovo concetto strategico dell’Alleanza». Nello stesso anno in Italia viene varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo la Costituzione, indica quale missione delle forze armate «la tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario».

Nasce così con la guerra del Golfo la strategia che guida le successive guerre sotto comando Usa, presentate come «operazioni umanitarie di peacekeeping»: Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2013, accompagnate nello stesso quadro strategico dalle guerre di Israele contro il Libano e Gaza, della Turchia contro i curdi del Pkk, dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia Usa/Nato, dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla nuova guerra fredda contro la Russia. Profetiche, ma in senso tragico, le parole del presidente Bush nell’agosto 1991: «La crisi del Golfo passerà alla storia come il crogiolo del nuovo ordine mondiale».



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venerdì 15 gennaio 2016

LIBIA: LA PROSSIMA GUERRA DI CONQUISTA



di Manlio Dinucci


12 Gennaio 2016 

da il manifesto 


«Il 2016 si annuncia molto complicato a livello internazionale, con tensioni diffuse anche vicino a casa nostra. L'Italia c'è e farà la sua parte, con la professionalità delle proprie donne e dei propri uomini e insieme all'impegno degli alleati»: così Matteo Renzi ha comunicato agli iscritti del Pd la prossima guerra a cui parteciperà l’Italia, quella in Libia, cinque anni dopo la prima.

Il piano è in atto: forze speciali Sas – riporta «The Daily Mirror» – sono già in Libia per preparare l’arrivo di circa 1000 soldati britannici. L’operazione – «concordata da Stati uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia» – coinvolgerà circa 6000 soldati e marine statunitensi ed europei con l’obiettivo di «bloccare circa 5000 estremisti islamici, che si sono impadroniti di una dozzina dei maggiori campi petroliferi e, dal caposaldo Isis di Sirte, si preparano ad avanzare fino alla raffineria di Marsa al Brega, la maggiore del Nordafrica».

La gestione del campo di battaglia, su cui le forze Sas stanno istruendo non meglio identificati «comandanti militari libici», prevede l’impiego di «truppe, carrarmati, aerei e navi da guerra». Per bombardare in Libia la Gran Bretagna sta inviando altri aerei a Cipro, dove sono già schierati 10 Tornado e 6 Typhoon per gli attacchi in Siria e Iraq, mentre un cacciatorpediniere si sta dirigendo verso la Libia. Sono già in Libia – conferma «Difesa Online» – anche alcuni team di Navy Seal Usa.

L’intera operazione sarà formalmente «a guida italiana». Nel senso che l’Italia si addosserà il compito più gravoso e costoso, mettendo a disposizione basi e forze per la nuova guerra in Libia. Non per questo avrà il comando effettivo dell’operazione. Esso sarà in realtà esercitato dagli Stati uniti attraverso la propria catena di comando e quella della Nato, sempre sotto comando Usa.

Un ruolo chiave avrà lo U.S. Africa Command, il Comando Africa degli Stati uniti: esso ha appena annunciato, l’8 gennaio, il «piano quinquennale» di una campagna militare per «fronteggiare le crescenti minacce provenienti dal continente africano». Tra i suoi principali obiettivi, «concentrare gli sforzi sullo Stato fallito della Libia, contenendo l’instabilità nel paese». Fu il Comando Africa degli Stati uniti, nel 2011, a dirigere la prima fase della guerra, poi diretta dalla Nato sempre sotto comando Usa, che con forze infiltrate e 10mila attacchi aerei demolì la Libia trasformandola in uno «Stato fallito».

Ora il Comando Africa è pronto a intervenire di nuovo per «contenere l’instabilità nel paese», e lo è anche la Nato che, ha dichiarato il segretario generale Stoltenberg, è «pronta a intervenire in Libia». E di nuovo l’Italia sarà la principale base di lancio dell’operazione. Due dei comandi subordinati dello U.S. Africa Command si trovano in Italia: a Vicenza quello dello U.S. Army Africa (Esercito Usa per l’Africa), a Napoli quello delle U.S. Naval Forces Africa (Forze navali Usa per l’Africa).

Quest’ultimo è agli ordini di un ammiraglio Usa, che è anche a capo delle Forze navali Usa in Europa, del Jfc Naples (Comando Nato con quartier generale a Lago Patria) e, ogni due anni, della Forza di risposta Nato. L’ammiraglio è a sua volta agli ordini del Comandante supremo alleato in Europa, un generale Usa nominato dal Presidente, che allo stesso tempo è a capo del Comando europeo degli Stati uniti.


In tale quadro si svolgerà la «guida italiana» della nuova guerra in Libia, il cui scopo reale è l’occupazione delle zone costiere economicamente e strategicamente più importanti. Guerra che, come quella del 2011, sarà presentata quale «operazione di peacekeeping e umanitaria».

mercoledì 13 gennaio 2016

LETTERA AL PRESIDENTE OBAMA

LETTERA AL PRESIDENTE OBAMA



di Miko Peled



Quando l'America la votò per la prima volta, molti erano davvero ottimisti. Un uomo con un padre musulmano africano, un nome musulmano africano e quello che sembrava come un cuore premuroso e una mente brillante. Tutto questo era rinfrescante e promettente. Lei si è insediato nel suo ufficio con grandi promesse, il suo primo discorso inaugurale è stato sentito in tutto il mondo con orecchie che anticipavano il cambiamento, ma a quanto pare era solo un crescendo di retorica. Lei ha promesso speranza ai poveri e ai diseredati in questo paese, la di riconciliazione con il mondo arabo e musulmano e persino la pace e la giustizia in Palestina.

Ma, purtroppo, lei è stato un fallimento e una delusione. Come uomo nero, lei ha avuto un'opportunità senza precedenti per affrontare le questioni dei neri, ma non l'ha fatto. Non ha mostrato alcuna cura per la vita dei neri in America. Ha detto poco e fatto ancora meno per fermare l'uccisione di uomini di colore e la loro incarcerazione di massa. Lei non ha detto nulla e non ha fatto nulla per quanto riguarda il notevole pagamento delle riparazioni ai discendenti degli schiavi, uomini e donne, sulle cui spalle l'economia degli Stati Uniti è stata costruita. E, se era necessaria qualche prova, la protesta del movimento nero per la vita dimostra che le priorità erano altrove.

Come stanno le cose oggi, anche con un Presidente il cui secondo nome è Hussein? Non c'è mai stato un momento peggiore per un arabo e musulmano in America. Come comandante in capo lei ha portato morte e distruzione sull'Afghanistan, Yemen, Libia e ora Siria. Lei ha fatto poco per promuovere la pace e la giustizia in Palestina.

Nel suo discorso inaugurale lei ha detto: "A coloro che si aggrappano al potere attraverso la corruzione e l'inganno e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno." Tuttavia lei ha calorosamente tenuto la mano ai dittatori sauditi che mettono a tacere il dissenso con la morte. Poi in Egitto si è permesso un colpo di stato militare per destituire il presidente democraticamente eletto Mohammad Morsi, che ora attende l'esecuzione, rafforzando nel contempo il pugno chiuso del dittatore Abdel Fatah El-Sisi, consentendogli di mettersi in tasca il flusso di miliardi di dollari di denaro come aiuti stranieri.

Nel suo discorso inaugurale, lei ci ha promesso: "L'America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che cerca un futuro di pace e dignità" Ma proprio mentre lei stava preparando questo appello, attraversando queste stesse parole, Israele cominciò  il bombardamento su Gaza insensatamente, causando la morte di oltre un migliaio di civili innocenti e il ferimento di altri innumerevoli . E non disse nulla. In Palestina, il primo esempio di un luogo dove le persone cercano un futuro di pace e dignità, lei ha permesso a Israele di continuare a bombardare ed uccidere con il pieno sostegno finanziario, militare e politico degli Stati Uniti.

Come Presidente, negli ultimi sette anni lei ha dato ad Israele il suo pieno sostegno per uccidere, mutilare, arrestare e torturare uomini, donne e bambini. Il numero di palestinesi senza casa, il numero di bambini palestinesi arrestati e maltrattati e il numero di profughi palestinesi in attesa di tornare alle loro case è sempre più alto di minuto in minuto. Eppure lei ha sostenuto Israele.

Signor Presidente, nell'estate del 2014, quando Israele ha assassinato migliaia di civili palestinesi, e i giovani palestinesi a Gaza hanno combattuto coraggiosamente per difendere le loro case e le loro famiglie, inutile per quanto possa essere stato, invece di sostenere coloro che cercano pace e dignità, lei ha scelto di fornire a Israele più armi e più soldi.
Anche se lei ha affermato: "per coloro che cercano di ottenere i loro scopi attraverso il terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere spezzato." Poi  lei si è fatto disonorare da Netanyahu permettendogli di marciare fin dentro il Congresso con le mani sporche di sangue Palestinese, come fece Cesare entrando a Roma. Lui era un vincitore, mentre lei si è rannicchiato in qualche angolo consentendogli di  vomitare le sue odiose bugie. Dov’era, allora, il suo spirito, Signor Presidente?

Ma benché lei sia stato una delusione, anche se ha fallito, c'è una finestra di opportunità a sua disposizione, se lei vuole riscattarsi. Negli ultimi sette anni, cinque uomini innocenti siedono in una prigione federale falsamente accusati e ingiustamente condannati con l'accusa di sostegno materiale ad un'organizzazione terroristica. Questi cinque uomini sono indicati come i HLF-5, o Holy Land Foundation Five. Se lei volesse riesaminare questo caso, lei vedrebbe quello che io e molti altri abbiamo visto e detto, che in questo caso, l'intero sistema giudiziario è stato preso in ostaggio, la Costituzione, le leggi che governano il paese, i regolamenti con cui le agenzie governative dovrebbero funzionare sono stati tutti messo in attesa, al fine di condannare cinque uomini innocenti.

Nel rivedere questo caso, signor Presidente, vedrà quello che molti ci hanno fatto vedere e continuano a vedere, che la pressione da parte di Israele, dopo l’isteria dell’11Settembre, ha sbilanciato la pubblica accusa e la codardia dei membri del potere giudiziario ha portato cinque persone buone e innocenti in un inferno vivente. Cinque padri di famiglia, uomini che sono venuti in questo paese e hanno contribuito alla loro comunità, uomini che non volevano altro che aiutare gli altri, ora devono vivere in gabbia come criminali.

Il presidente George W. Bush usando l’ordine esecutivo 13224 ha chiuso i battenti della Holy land Foundation, che una volta era la più grande carità musulmana in questo paese, nel dicembre del 2001 e ora è necessario invertire questo ordine, ripristinare la Fondazione, riabilitare i cinque uomini in prigione federale e scusarsi con loro, con le loro famiglie e con l'intera comunità araba e musulmana in America. Poi lei deve ordinare che siano compensati col denaro compresi i relativi interessi.


La chiusura di HLF ha portato miseria non solo ai cinque uomini e alla loro famiglia. Ha portato la paura e l'ansia alle comunità dell'America, quella musulmana e le comunità arabe. Inoltre, questa chiusura ha impedito l’ aiuto fondamentale per i poveri, gli orfani, i senza tetto e i bisognosi in Palestina. Nelle parole di Mohammad Abumoharam, un assistente sociale locale a Gaza, "Non riesco, forse, a trovare le parole per trasmettere il livello di povertà e di sofferenza che c'è in Palestina in generale e nella striscia di Gaza in particolare. HLF è stata in grado di alleviare in modo significativo le sofferenze di migliaia di persone in Palestina, dando loro qualche speranza per una vita migliore.” La chiusura della HLF e il congelamento dei loro beni da parte del governo ha bloccato tutto questo.

Prima della confisca dei suoi beni il 4 dicembre 2001, la Holy Land Foundation forniva aiuti caritatevoli e umanitari ai profughi, orfani, vittime di disastri umani e materiali, poveri e bisognosi di tutto il mondo,  senza riguardo alla fede o alla affiliazione politica. Tra le sue altre attività caritatevoli e umanitarie, la Holy Land aveva organizzato aiuto alle vittime degli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001; ha fornito assistenza alle vittime e ai soccorritori sul luogo dell’attentato a Oklahoma City; alle vittime delle inondazioni in Oklahoma e Iowa; alle vittime degli scontri a Los Angeles; alle vittime del tornado a Fort Worth; ai bisognosi di Paterson, nel New Jersey; alle vittime del terremoto in Turchia e in India; alle vittime dei conflitti in Bosnia e in Kosovo; alle vittime del conflitto in Cecenia; alle vittime delle inondazioni in Mozambico; e ai profughi, orfani e altre persone ed entità in difficoltà nella Cisgiordania, Gaza, Libano e Giordania.

Signor Presidente, questo caso è una vergogna per il governo degli Stati Uniti, per il Dipartimento di Giustizia, e l'intero sistema giudiziario americano. Fra un anno lei avrà esaurito il suo mandato. A cinquantacinque anni lei è stato un presidente con due mandati, il primo Presidente mezzo africano e mezzo americano, e si sta sicuramente avviando ad essere uno degli uomini più ricchi della terra. Quale sarà il suo lascito? Lei, Signore, ha la possibilità, anzi la responsabilità di liberare senza indugio, Ghassan Elashi, Shukri Abu-Baker, Mufid Abdulqader, Abdulrahman Odeh e Mohammad El-Mezzaine, noto anche come il HLF-5. Per favore non ci deluda di nuovo.

Cordialmente,
Miko Peled

Post scriptum

Attualmente sto lavorando a un libro sulla HLF, che spero di pubblicare nel 2016. Spero di essere in grado di dire che come presidente lei ha facilitato la liberazione di questi cinque onesti uomini ponendo fine a questo terribile errore.

(Fonte: American Herald Tribune, 7 gennaio 2016)

Traduz. di Diego Siragusa

lunedì 11 gennaio 2016

COSA DOVREBBE FARE ISRAELE?


(Moshe Dayan)

28/12/2015

Pubblicato in "American Herald Tribune"

di Miko Peled

Israele viene attaccato da paesi arabi che vogliono distruggerla, quindi che cosa dovrebbe fare Israele? I soldati israeliani sono assaliti da terroristi palestinesi con coltelli, che cosa dovrebbero fare? L'Iran ha capacità nucleari e vuole cancellare Israele dalla carta geografica, per cui Israele cosa dovrebbe fare? Hamas è determinato a uccidere civili israeliani, allora cosa dovrebbe fare Israele? E l'elenco delle cose che rendono impossibile a Israele fare qualsiasi cosa, se non armarsi e poi attaccare e uccidere i palestinesi potrebbe continuare all'infinito. Quindi non c'è speranza, e non c'è ragione di aspettarsi cambiamenti.
Beh, così è proprio fine ed elegante. Questa è stata l’unica linea che i funzionari israeliani hanno usato da quando fu ufficialmente creata, intorno al 1956, dal generale Moshe Dayan (e utilizzata prima di volta in volta dai sionisti) per giustificare ogni tipo di crimine commesso dallo Stato di Israele. Moshe Dayan era un inetto, vile criminale di guerra che è stato reso famoso per la sua benda sull'occhio. Era anche un rinomato ladro di antichità e puttaniere (si dice che quando a Ben-Gurion, primo ministro di Israele, fu raccontato che gli insaziabili appetiti sessuali di Moshe Dayan stavano diventando imbarazzanti, Ben Gurion rispose: "E allora?  Anche il re Davide era un donnaiolo e fu un grande re "). Mentre era in servizio come Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano, Dayan espresse questa frase "che cosa dobbiamo fare" in un eloquente e indimenticabile elogio funebre che pronunciò prima dell'attacco di Israele contro l'Egitto nel 1956.
Dayan fomentava la paura e il senso del destino quando descrisse i poveri profughi nella striscia di Gaza come "in attesa di macellarci e di versare il nostro sangue", perché, come Dayan stesso ha ammesso, "abbiamo preso il loro paese e ce ne siamo impossessati". Ma , ha spiegato, lo abbiamo fatto perché non abbiamo scelta, o "che cosa dovevamo fare?", dopo migliaia di anni di esilio e persecuzioni senza fine, e come risultato dell'Olocausto nazista, ora noi siamo tornati e dobbiamo sempre vivere con la spada e mantenere una forte presa su di essa, «perché se quella presa dovesse indebolirsi" gli arabi assetati di sangue lo vedranno come un segno di debolezza e il sangue ebraico invaderà le strade. In altre parole, forse questi arabi assetati di sangue che ci guardano da oltre i cancelli di Gaza sono giustificati nel loro odio verso di noi, ma questa è una realtà in cui non abbiamo scelta. È il nostro destino vivere sempre con la spada.»

Quanto conviene!

·         I crimini commessi da Israele sono commessi perché Israele non ha altra scelta. In un'intervista rilasciata qualche anno fa dal capo interrogatore dei servizi segreti israeliani, egli descrisse come i medici in ospedali israeliani chiudono un occhio quando gli agenti vengono a torturare "sospetti terroristi" feriti in ospedale. Descrisse come questi "appena tirano un po’ le palle, e quindi abbastanza presto gli arabi cominciano a parlare.” Poi aggiunse, che, naturalmente, nessuno pensa che questo è un bene, ma che cosa dobbiamo fare? Giustificava le torture più immorali e orrende su persone che sono in cura in un ospedale, mentre i medici chiudono un occhio e gli agenti fanno le loro porcherie, con la stessa scusa spudorata: "Cosa dovrebbe fare Israele?"

Durante il mese di ottobre 2015, a Gerusalemme stavo guardavo un telegiornale alla televisione israeliana. In questo programma hanno intervistato il deputato palestinese alla Knesset Mohammad Baraka dalla Lista araba unita, il terzo partito nel parlamento israeliano. Gli fu chiesto: "Che cosa deve fare un soldato quando viene avvicinato da un palestinese che brandisce un coltello?" Quando Baraka cominciò a parlare dell'occupazione è stato interrotto e gli è stato detto che quello che stava dicendo non era rilevante e di attenersi alla domanda. In altre parole, l'occupazione israeliana in Palestina non ha niente a che fare con tutto questo, e "quindi che dovrebbe fare soldato?" Si prega di dire che ciò che i soldati israeliani stanno facendo è giustificato, che l'omicidio all'ingrosso dei palestinesi va bene perché " Israele cosa deve fare?" I palestinesi nella televisione israeliana sono sempre ridicolizzati o devono stare zitti.

La pulizia etnica della Palestina era giustificata, perché gli ebrei non avevano scelta. Il lento genocidio del popolo palestinese è giustificato dal fatto che Israele non ha altra scelta, l'uccisione di migliaia di Gaza è giustificato dal fatto che Israele non ha scelta, e così via e così via. Nei media americani hanno effettivamente fatto un passo più avanti e hanno aggiunto: "Vorremmo fare lo stesso", come se questo aggiunge peso all'argomento di "che cosa israele dovrebbe fare."

Forse è il momento di pensare a questa domanda sul serio e vedere se c'è una risposta. Che cosa un soldato dovrebbe fare: eliminare l'inferno dalle città palestinesi, villaggi e quartieri. E, smantellare il muro e tutti i punti di controllo all’uscita. Che cosa deve fare Israele fare con i razzi sparati da Gaza? Togliere l'assedio a Gaza, smantellare il muro e i posti di blocco, e consentire al popolo di Gaza la libertà che merita. Cosa devono fare gli israeliani Se a loro non piace vivere in un paese con una maggioranza araba, possono andarsene da qualche altra parte o venire a patti con gli arabi, e se scelgono di rimanere, si comportino come immigrati e non come colonizzatori. (Questa distinzione è molto importante e mi è stata chiarita da mio nipote Guy Elhanan).

Per quanto riguarda la domanda più grande, "che cosa deve fare Israele?" Israele deve liberare tutti i prigionieri palestinesi, abrogare tutte le leggi che danno al popolo ebraico diritti esclusivi in ​​Palestina, abrogare la legge che vieta ai palestinesi di tornare alla loro terra e allocare i miliardi di dollari, che saranno necessari per il pagamento dei risarcimenti ai profughi e ai loro discendenti. Poi, Israele deve chiedere elezioni libere, una persona un voto, in cui sia obbligatorio per tutte le persone che vivono in Palestina il voto alla pari. Questo è ciò che Israele dovrebbe fare.

(Trad. di Diego Siragusa)


E' un autore israeliano nato e cresciuto a Gerusalemme. Figlio dell'ex generale Matti Peled. MIko ha scritto un libro importante: "THE GENERAL'S SON", Il figlio del generale che negli Stati Uniti è un best seller. Miko è un fermo sostenitore del BDS ed è convinto che palestinesi ed ebrei debbano vivere in un unico stato con pari diritti per tutti. 

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ENGLISH VERSION

DECEMBER 28 ,2015



“What is Israel supposed to do?”

 BY MIKO PELED 

Israel is being attacked by Arab countries that want to destroy it, so what is Israel supposed to do? Israeli soldiers are being assaulted by Palestinian terrorist with knives, what are they supposed to do? Iran has nuclear capabilities and it wants to wipe Israel off the map, so what is Israel supposed to do? Hamas is determined to kill Israeli civilians so what is Israel supposed to do? And the list of things that make it impossible for Israel to do anything but arm itself and then attack and kill Palestinians goes on and on. So there is no hope, and no reason to expect change.

Well that’s just fine and dandy. This has been the one liner that Israeli officials have used since it was officially created around 1956 by then General Moshe Dayan (and used prior to that from time to time by Zionists) to justify any and all crimes committed by the state of Israel. Moshe Dayan was an inept, cowardly war criminal that was made famous because of his eye patch. He was also a renown antiquities thief and whore monger (it is said that when Ben-Gurion, Israel’s first Prime Minister was told that Moshe Dayan’s insatiable sexual appetite was becoming an embarrassment, Ben Gurion replied: “So what? King David was also a womanizer and he was a great king”). Serving as the Israeli army Chief of Staff Dayan expressed this “what are we to do” excuse in an unforgettably eloquent eulogy he gave, prior to Israel’s 1956 attack on Egypt.

Dayan was fomenting fear and a sense of destiny when he described the poor refugees in the Gaza strip as “waiting to slaughter us and shed our blood” because, as Dayan himself admitted, “we took their land and turned it into ours.” But, he explained, we did this because we have no choice, or “what were we to do?” after thousands of years in exile and endless persecution, and in the aftermath of the Nazi holocaust, we now have returned and must always live by the sword and maintain a strong grip on that sword, “for if that grip should weaken” those blood thirsty Arabs will see it as a sign of weakness and Jewish blood will flood the streets. In other words, maybe these blood thirsty Arabs looking at us from beyond the gates of Gaza are justified in hating us, but this is a reality in which we have no choice. It is our destiny to always live by the sword.

How convenient!

The crimes committed by Israel are committed because Israel has no choice. In an interview given several years ago by Israeli intelligence chief interrogator, he described how doctors in Israeli hospitals turn a blind eye when the agents come to torture wounded “terrorist suspects” in the hospital. He described how they “tug at the tubes a little, and then pretty soon “the Arabs start talking.” Then he added, that of course no one thinks this is good, but what are we do to? He was justifying the most immoral and horrendous torture of people who are in the care of a hospital, the doctors turning a blind eye and the agents doing their thing, with the same shameless excuse, “what is Israel supposed to do?”

During the month of October 2015, while in Jerusalem I watched a news program on Israeli television. In this program they interviewed the Palestinian Knesset Member Mohammad Baraka from the Joint Arab List, the third largest party in the Israeli parliament. He too was asked, “What is a soldier to do when approached by a Palestinian wielding a knife?” When Baraka began to talk about the occupation he was interrupted and told that what he is saying is not relevant and to stick to the question. In other words, the Israeli occupation in Palestine has nothing to do with any of this, and “what is a soldier supposed to do?” Please say that what Israeli soldiers are doing is justified, that the wholesale murder of Palestinians is ok because “what is Israeli to do?” Palestinians on Israeli television are always brought in order to be ridiculed or to be told to shut up.

The ethnic cleansing of Palestine was justified, because Jews had no choice. The slow genocide of Palestinian people is justified because Israel has no choice, the murder of thousands in Gaza is justified because Israel has no choice, and so on and so on. In the US media they actually took it a step further and added: “We would do the same” as though this adds weight to the argument of “what is Israel supposed to do.”

Perhaps it is time to think about this question seriously and see if there is an answer. What is a soldier supposed to do: Get the hell out of Palestinian towns, villages and neighborhoods. And, dismantle the wall and all the checkpoints on your way out. What is Israel to do with rockets from Gaza? Lift the siege on Gaza, dismantle the wall and checkpoints there, and allow the people in Gaza the freedom they deserve. What are Israelis to do? If they don’t like living in a country with an Arab majority, they can go somewhere else or deal with it, and if they chose to stay, to behave like immigrants instead of colonizers. (This distinction is an important one and it was made clear to me thanks my nephew Guy Elhanan).

As for the biggest question, “what is Israel to do?” Israel is to free all Palestinian prisoners, repeal all the laws that give Jewish people exclusive rights in Palestine, repeal the law the prohibits Palestinians from returning to their land and allocate the billions of dollars that will be needed for paying reparations to the refugees and their descendants. Then, Israel is to call for free, one-person one-vote elections where all people who live in mandatory Palestine vote as equals. That is what Israel should do.




Miko Peled is an Israeli writer and activist living in the US. He was born and raised in Jerusalem. His father was the late Israeli General Matti Peled. Driven by a personal family tragedy to explore Palestine, its people and their narrative. He has written a book about his journey from the sphere of the privileged Israeli to that of the oppressed Palestinians. His book is titled “The General’s Son, Journey of an Israeli in Palestine.” Peled speaks nationally and internationally on the issue of Palestine. Peled supports the creation of a single democratic state in all of Palestine, he is also a firm supporter of BDS.