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July
2016
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Intervento introduttivo di Miguel Gotor al Seminario di giovedì 21 luglio
Cari amici, cari compagni,
vi ringrazio per essere intervenuti così numerosi a questo seminario nonostante la calura e il pomeriggio lavorativo. I deputati della Camera sono assenti perché impegnati nelle votazioni, ma ci raggiungeranno non appena avranno finito.
L’esigenza di questo appuntamento scaturisce dalla volontà di proseguire un percorso di formazione e di riflessione che sia sottratto ai tempi brevi e al perenne «presentismo» dell’attività politica quotidiana. Avvertiamo l’esigenza di momenti di approfondimento come questi per collocare la nostra azione di parlamentari e di dirigenti politici, a Roma come nei territori, dentro un orizzonte più largo e più profondo.
Abbiamo l’obiettivo di continuare ad arare un terreno aspro e troppo spesso inaridito, quello dei rapporti tra cultura e politica, anche per preparare la prossima campagna congressuale. Vorremmo così riuscire a presentarci a quell’appuntamento con una piattaforma solida e moderna su due temi fondamentali, oggetto di questo seminario: il primo riguarda le forme dei partiti politici oltre la crisi della rappresentanza e le modalità con cui si organizza e si auto-organizza il civismo. Il secondo concerne il nodo di uno sviluppo economico ancora insufficiente e con un divario interno eccessivo, che ci induce a riflettere in particolare sul Mezzogiorno e sulle modalità con cui allargare la base produttiva del Paese.
La scelta di tenere insieme questione istituzionale e questione sociale, la vita dei partiti e l’articolarsi delle forme della società civile con la dimensione economica corrisponde a una visione d’insieme precisa: questi due ambiti, anche nel dibattito pubblico, sono troppo spesso separati e considerati slegati l’uno dall’altro. Un errore, direi un vizio di carattere tutto «istituzionalista» o tutto «economicista» che non considera a sufficienza come la qualità della democrazia di un Paese dipende invece dall’interdipendenza tra queste due dimensioni. La chiusura di una parte – ad esempio delle forme di accesso alla politica – corrisponde il più delle volte a una perdita di dinamicità dell’altra – si pensi al ruolo e alla funzione dei corpi intermedi.
Procedo per titoli e segnalo soltanto due questioni per poi lasciare lo spazio che meritano ai relatori invitati.
Il primo tema riguarda il partito, il suo stato di salute oggi, ma al tempo stesso la consapevolezza della sfida di «fare un partito» nei tempi nuovi, dentro le sfide di oggi, senza smarrire il filo di questo cimento che, mi perdonerete l’enfasi, definirei storico. Non dobbiamo dimenticarci che uno dei principali obiettivi politici del Partito democratico è proprio quella di ricostruire in Italia la funzione del partito politico, i fini costituzionali della politica e della rappresentanza, aggiornandoli ai tempi della modernità e alle grandi novità tecnologiche in ambito comunicativo che costituiscono una straordinaria opportunità.
Dentro questo disegno bisogna riprendere un rapporto costitutivo con gli uomini e le donne di cultura in una fase della vita del sistema democratico in cui il loro ruolo è sempre più appannato: i partiti sono stati sostituiti dalle fondazioni, ma questo prolificare delle fondazioni non è altro che uno dei sintomi delle crisi dei partiti, un rilevatore che chi segnala quanto lavoro bisogna fare.
Il Pd, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una forza politica ancora giovane, che per la prima volta nella sua storia si trova al governo del Paese grazie al risultato delle elezioni politiche del 2013.
Il Pd è nato e ha senso soltanto se riesce a essere una grande forza riformista di centrosinistra e tale deve rimanere: i segretari passano, ma il progetto resta perché è dentro la storia di questo Paese, con radici che precedono l’Ulivo, che risalgono ai primi anni Sessanta del Novecento. La sua missione è quella di tenere insieme forze civiche di matrice liberale, l’esperienza della cultura cattolica democratica e l’impegno di una sinistra radicale, ma non massimalista, che voglia affrontare la sfida del governo. Il suo compito politico quello di organizzare con generosità questo difficile campo, che è stato sempre complicato.
Secondo noi oggi c’è un grande problema che riguarda l’identità del partito e la sua prospettiva. Lo denunciamo da tempo e non abbiamo aspettato i negativi risultati elettorali di queste amministrative per sostenerlo. L’esperienza di un governo di emergenza che ha costretto a un’alleanza innaturale con la destra si è progressivamente trasformata in un progetto politico che traguarda questa legislatura e vede il Pd ambire a diventare il fulcro di un nuovo equilibrio neo-centrista e neo-moderato all’insegna del consociativismo e del trasformismo. Volere allargare il proprio campo non può significare invadere quello degli avversari rinunciando al valore fondante di una democrazia dell’alternanza, di cui questo Paese continua ad avere bisogno perché una democrazia per avanzare deve poter camminare su due gambe.
Noi abbiamo convinzioni profonde e idee chiare che vogliamo difendere e promuovere nella nostra comunità: il Pd deve restare un partito di centrosinistra. Siamo altresì convinti che, se non può esistere in Italia un centrosinistra senza il Pd, oggi è sempre più evidente che non tutte le esperienze, le energie e le potenzialità di quel campo politico, culturale e valoriale possono essere contenute nel nostro partito. Per questo motivo è decisiva una riflessione e un’attenzione su tutto ciò che di civico e di associativo che profumi di sinistra e di Ulivo si muove al di fuori del Pd. Noi non dobbiamo disperdere questa attenzione e anzi abbiamo il dovere di provare a trasformarla in dialogo e confronto politico costante, come ci proponiamo di fare con un’apposita iniziativa in autunno.
Oggi ci chiediamo: dove va questo partito? Qual è il suo orizzonte strategico? Sono domande di fondo che si fanno tanti nostri iscritti ed elettori sempre più inquieti e smarriti, molti dei quali stanno scegliendo la strada dell’astensionismo e quella della disaffezione, oppure si auto-organizzano in associazioni e movimenti civici che dimostrano come sia ben presente un bisogno di partecipazione, o iniziano a guardare con favore ad altre offerte politiche, penso soprattutto al Movimento 5 stelle.
Riteniamo che invece di voltare la testa dall’altra parte facendo finta di nulla o mostrando un ottimismo di facciata che troppo spesso profuma di «arrogance», sia necessario rispondere a queste domande, ascoltando gli iscritti e gli elettori democratici, senza paura.
Bisogna anzitutto rilanciare in termini credibili l’idea del Pd come partito di iscritti e di elettori, in cui siano garantiti, ai primi, un ruolo decisionale effettivo non soltanto nella scelta degli organi dirigenti, ma anzitutto nella definizione di grandi e dirimenti questioni politiche e, ai secondi, forme di coinvolgimento che non si limitino alla partecipazione alle primarie. Bisogna utilizzare le consultazioni referendarie su temi specifici o su grandi questioni di indirizzo previste dallo statuto del Pd. Non è possibile, ad esempio, lasciare agli iscritti e agli elettori la facoltà di scegliere il nostro candidato alla presidenza del consiglio, ma non la possibilità di esprimersi su nodi fondamentali come la riforma del mercato del lavoro oppure della scuola, o il dibattito sulle unioni civili e il fine vita, soprattutto quando su decisioni di tale rilievo si modificano gli impegni assunti con i cittadini al momento delle elezioni.
In secondo luogo, le primarie sono un tratto indentitario del Pd e uno strumento da difendere, anche da un uso improprio che ne viene fatto che esalta la degenerazione correntizia e la proliferazione di comitati elettorali permanenti. Salvaguardare lo strumento delle primarie significa impegnarsi a regolamentarlo con la definizione di regole certe e l’istituzione, ormai ineludibile, di un albo degli elettori costantemente aggiornato che possa diventare lo strumento per mettere effettivamente in pratica, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, una democrazia più partecipativa, diffusa e consapevole.
Il partito, infine, non può limitarsi a essere uno strumento di sostegno dell’attività del governo. Infatti, se si trasforma in un’appendice dell’esecutivo la sua vita deperisce inevitabilmente a livello nazionale e locale con un processo di verticalizzazione organizzato secondo linee di comando e di conformismo e non di partecipazione e di autonomia. Per questo motivo occorre che l’esperienza di governo e l’iniziativa del partito siano coordinati ma non si sovrappongano, ostruendo il dibattito quotidiano e la vita democratica interna.
Anche per questa ragione, secondo noi, occorre separare la funzione di premier dall’incarico di segretario. Il buon senso e l’esperienza di questi due anni suggeriscono che l’esercizio della leadership da parte del presidente del Consiglio non debba esaurire la funzione del partito, il quale è bene che, a ogni livello, viva di una propria elaborazione autonoma, in grado anche arricchire l’azione di governo. Spesso sentiamo rievocare la questione morale di Berlinguer in termini impropri: l’autentica e più scomoda radice della sua riflessione era proprio questa. Per evitare la degenerazione del sistema politico e della qualità della democrazia bisogna fare in modo che i partiti facciano i partiti e le istituzioni le istituzioni senza indebite sovrapposizioni che ledono la missione di entrambi: tra i partiti, che necessariamente rappresentano una parte, e le istituzioni, dove gli uomini impegnati al loro interno hanno l’obbligo di rappresentare tutti i cittadini, deve esistere un’intercapedine civica, uno scambio continuo sia a livello territoriale sia a livello centrale: un’autonomia e una dialettica che fanno respirare con due polmoni la democrazia, lasciando lo spazio dovuto ai corpi intermedi. Questa è la questione morale di Belinguer, non un generico quanto ovvio richiamo all’onestà dei politici che non devono rubare, una banalizzazione che rischia di avere degli esiti qualunquistici perché se tutti rubano nessuno ruba e sono i ladri a trarne vantaggio.
L’alternativa che ha di fronte il Pd oggi è quella di continuare a essere un semplice «spazio politico» variamente frequentato nel periodo di tempo che intercorre tra un’elezione primaria e un’altra o che perdura il vantaggio di frequentarlo, oppure diventare un soggetto politico che ricostruisce un nesso tra partecipazione e decisione, governabilità e rappresentanza: la vera sfida del nostro tempo.
Dentro questa lettura complessiva va inserito il nostro impegno per la legge elettorale e le riforme costituzionali, a partire dal presupposto che una sinistra che non si pone il problema della qualità della partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica rischia di diventare un’altra cosa con una rapidità sorprendente. Se non si ha il coraggio di indicare la direzione e la qualità del cambiamento che si propone è facile «cambiare verso» alla sinistra: l’unico problema però è che poi ci si ritrova a destra, senza neppure accorgersene, con la destra che ci fa fare le sue politiche per poi riorganizzarsi e riprendersi lo scettro del comando.
Al contrario è utile partire dal presupposto, a mio parere strutturale nella storia italiana, che la rappresentanza sociale della destra è più ampia e radicata della sua forza parlamentare e dunque il centrosinistra per vincere si trova davanti sempre allo stesso bivio: è costretto a disarticolare quel fronte di destra separando i conservatori dai moderati, ma nel compiere questa operazione deve continuare a mobilitare tutta la sua sinistra.
Insomma, esattamente il contrario di quello che stiamo facendo oggi come le amministrative peraltro hanno confermato: facciamo accordi di ceto politico con la destra in nome del trasformismo e consegniamo al non voto o al voto verso il movimento 5 stelle milioni di elettori di centrosinistra del Pd e non solo. Anche per questa ragione si sta rivelando un errore gravissimo non dare cittadinanza alle ragioni del no costituzionale dentro il Pd: si tratta di centinaia di migliaia di nostri tradizionali elettori che invece di essere inclusi e, in ogni caso, sentirsi rappresentati dal Pd come grande partito democratico e pluralista, vengono schiaffeggiati e messi alla porta con una miopia politica i cui effetti non tarderanno ad arrivare, se non al momento del prossimo voto referendario, in occasione delle successive politiche.
Per quanto riguarda il nodo dello sviluppo economico, il dato di fondo è il restringimento della base produttiva italiana che è avvenuto più rapidamente e con una minore capacità di reazione di altri Paesi europei, secondo la formula di una crescita senza ripresa. Certo, pesano tare antiche di organizzazione del capitalismo nostrano con piccole e medie imprese che un tempo sono state la fortuna competitiva e anche l’originalità dell’Italia, ma oggi non riescono più a stare al passo con i processi di globalizzazione e di delocalizzazione del lavoro. Abbiamo punte avanzate di eccellenza che, quando competono, sono in grado di farlo a livello mondiale, ma la base della piramide, quella che costituisce la spina dorsale di un apparato produttivo solido, è in notevole affanno e cresce di meno – a parità di condizioni di uscita dalla più lunga crisi economica del dopoguerra – rispetto ad altri Paesi europei. Ce lo diranno meglio i nostri interlocutori di oggi, ma l’impressione è che stiamo scontando anche errori di politica economica del governo: penso alla politica dei bonus settoriali a pioggia e a fini elettorali, i quali hanno spostato ingenti risorse che avrebbero potuto essere impiegate nel taglio delle tasse sul lavoro e che sono stati elargiti a poveri e a ricchi indifferentemente (quindi anche a chi non ne aveva bisogno), tradendo quegli elementari principi e valori di una sinistra riformista; mi riferisco al finanziamento del taglio dell’Imu sulla prima casa senza fare distinzioni tra un attico di lusso al centro di una grande metropoli e una casetta in periferia figlia dei risparmi di una vita.
Senza sottovalutare il ritardo nella politica degli investimenti pubblici e privati che sono il vero volano di una possibile ripartenza per l’Italia, nella convinzione che sarebbe stato sufficiente incidere, di poco, sui consumi e compiere generiche professioni di ottimismo. Sotto questo profilo il nodo da sciogliere non è tanto quello di un ormai usurato tiro alla fune con l’Europa sui percentuali di flessibilità da conquistare, facendo finta che il debito pubblico non continui a pesare sui nostri figli come un macigno, ma una maggiore determinazione nel chiedere, e soprattutto nel praticare. una politica di investimenti produttivi, anche a rischio di infrazione, scorporata dai vincoli europei.
Di tutto questo e ancora di più ragioneremo con i nostri interlocutori che, come sul dirsi, non hanno bisogno di presentazioni. Purtroppo Nadia Urbinati non potrà essere tra noi per un grave quanto improvviso problema famigliare, ma abbiamo chiesto a Salvatore Biasco di sostituirla, il quale con la consueta generosità ha accettato e si soffermerà proprio sul problema del debito pubblico e sulle strade da percorrere per affrontarlo senza rinunciare alla crescita. Interverranno anche Pietro Ignazi sul tema «A cosa serve un partito» e Gianfranco Viesti e Carlo Trigilia con due relazioni dedicate, rispettivamente, ai «Motori della crescita: investimenti pubblici, imprese e istruzione» e «Risorse locali e sviluppo: ripensare le politiche per il Mezzogiorno». Se avremo tempo e soprattutto risorse vorremmo ricavare una pubblicazione da questo incontro. A questo proposito Mario Dogliani, che non potrà essere qui con noi, si è reso disponibile a inviare un contributo e di questo lo ringraziamo. Auguri di buon lavoro.
Miguel Gotor
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