DI BARTOLOMEO BELLANOVA
Nel corso del Novecento alcuni intellettuali italiani hanno sfidato
il pensiero dominante su guerra e pacifismo
13/2/2017
Addestrare a portare morte è uno degli atti più odiosi che gli adulti possono commettere su giovani poco più che ragazzi, obbligati con ogni violenza psicologia o fisica, con ricatti o con la seduzione dell’eterno “gioco” della guerra, a imbracciare un fucile o a tirare una granata. I giovani che scappano dall’Eritrea dove il servizio militare, finita la scuola superiore, è a vita, dalla Siria e da tanti paesi dove vengono prelevati dalle scuole per essere obbligati a studiare le tecniche di morte, preferiscono morire in mare o nel deserto piuttosto che vivere per uccidere, mutilare o stuprare altri innocenti.
Nella nostra penisola non dimentichiamo che la fine del servizio militare obbligatorio risale solo al primo gennaio 2005 e che questo è stato il risultato di lunghi atti di lotte. Con un salto agli anni tragici della seconda guerra mondiale vorrei ricordare brevemente la figura fondamentale di Danilo Dolci, animatore sociale, educatore e poeta, che nasce a Sesana, in provincia di Trieste nel 1924 e muore nel 1997, dopo una lunga malattia. Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa della Repubblica di Salò, viene arrestato a Genova ma riesce a fuggire e riparare in Abruzzo. Il 10 dicembre del 1952 diffonde una lunga dichiarazione di obiezione di coscienza alla guerra invitando tutti a sottoscriverla: “Sento ora necessario dichiarare”, si legge nel volantino, “che se sarò chiamato per uccidere o collaborare anche indirettamente alla guerra mi rifiuterò: non voglio essere assassino”.
E’ probabilmente la prima volta che in Italia viene apertamente pubblicizzata l’obiezione di coscienza. È Aldo Capitini uno dei primi ad accorgersi del suo impegno coraggioso; nasce da allora un fertile sodalizio di idee e progetti tra i due. Capitini (23/12/1899 – 19/10/1968), è filosofo della nonviolenza e fondatore del movimento non violento. Appartiene a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “Italia civile”: un’Italia che non è quella nazionalpopolare ben nota a tutti, ma spesso, purtroppo, è il paese di una minoranza. Il 1933 è una data chiave della sua biografia: Capitini rifiuta di prendere la tessera del partito fascista, nonostante che quella fosse la condizione posta da Giovanni Gentile per conservare il suo ruolo nella scuola pubblica. Sceglie di seguire l’esempio dell’amico Claudio Baglietto che si era rifiutato di tornare in Italia, rinunciando alla carriera universitaria pur di non sottostare all’obbligo del servizio militare obbligatorio. La scelta antifascista poggia soprattutto sul metodo gandiano della non collaborazione col male.
L’idea politica di Capitini emerge nel suo grande impegno nel periodo 1944-48, dedicato prevalentemente alla nascita del Centro di orientamento sociale (COS), fondato a Perugia nel 1944 e, in seguito, esportato in altre città dell’Umbria e della Toscana. Il COS deve essere una sorta di riproposizione in chiave moderna dell’antico arengo, il luogo dove si riunisce l’assemblea dei cittadini del libero comune medievale. Il COS, a differenza dell’arengo non ha poteri deliberanti, ma si occupa sia di questioni amministrative locali, sia di problemi politici e sociali. La sua è una funzione interna in quanto luogo di “formazione di una solidarietà democratica anti-tirannica”, che prefigura uno spazio nonviolento, “ragionante, non menzognero, aperto” e una funzione esterna, in quanto viene ad aggiungersi ai partiti come una specie di terz’ordine, “cioè tale da comprendere tutti”. Infatti il motto del COS è “Ascoltare e parlare” che dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale dello spirito democratico: tenere conto degli altri ascoltandoli, prima di tutto. Ascoltare significa qui non soltanto lasciare parlare (ascolto passivo), ma soprattutto apertura alla diversità delle idee e dei sentimenti dell’altro (ascolto attivo). E’ l’anticipazione della “cultura della cura” sviluppata poi dal movimento delle donne.
Per Capitini, quindi, è possibile un’altra politica, che porta con sé un’altra legge e un’altra economia. Secondo il suo pensiero la liberazione politica e sociale passa non soltanto e attraverso una rivoluzione politica e sociale bensì attraverso una riforma “religiosa” che assorbe dal cristianesimo la corrente che si rifà al suo originario spirito evangelico: è una sorta di “post cristianesimo”. Con Capitini viene invertito il celebre detto crociano: dall’incontro tra la tradizione religiosa occidentale con altre tradizioni diverse emerge la convinzione non tanto che “non possiamo non dirci cristiani” (Croce), quanto una nuova consapevolezza che “non possiamo più dirci cristiani”. Il suo discorso non si esaurisce nell’ambito religioso ma si allarga ad un più generale confronto tra laicità e religiosità: a suo giudizio si rivelano inadeguate sia le religioni tradizionali, sia le varie prospettive laiche (l’illuminismo, il comunismo, ecc). Entrambe queste posizioni, sia le religiose sia le laiche, risultano incapaci di superare i limiti dell’esistente: la religione tradizionale rimanda la liberazione ad un altro tempo e ad un altro mondo; il pensiero laico si rinchiude, invece, nei limiti di questo mondo e lo accetta qual è. La nuova religione prefigurata da Capitini è la “religione aperta” che si propone di far sì che “il paradosso si attui”, qui, ora e subito, che si realizzi, qui, ora e subito la “rivoluzione” che vuol dire cambiamento della realtà fattuale, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Sfumati nei mesi successivi alla Liberazione le speranze di un rinnovamento politico e di un profondo risveglio religioso, si fa più urgente l’altro grande impegno di Capitini: portare nella politica la dimensione ulteriore della nonviolenza. Suscita sorpresa in quegli anni l’attivismo capitiniano sui temi della pace, della nonviolenza e dell’obiezione di coscienza. Gli obiettori di coscienza sono “i persuasi di un’opposizione assoluta alla guerra. Obiezione di coscienza non significa rifiuto di soffrire e di morire, ma rifiuto di uccidere”.
Capitini vede quindi con favore l’impegno educativo e religioso di Don Milani che nel ’65, con il famoso libretto “L’obbedienza non è più una virtù” difese gli obiettori di coscienza. Capitini ideò e realizzò le prime marce per la pace in Italia: la prima di cui si ebbe un eco consistente fu quella del 24/09/1961, anno in cui fonda il Movimento non violento. In lui la non violenza non è un approdo tranquillo, ma è attiva tensione, aspirazione continua a evitare l’odio, il sopruso, la violenza in tutte le sue forme. La nonviolenza è “una direzione, un segno di freccia che uno pone alla vita”. Nell’azione politica la scelta dei mezzi si deve sempre coniugare con i fini perseguiti e i fini sono quelli della “non-collaborazione”, della “non-menzogna” e della “non-uccisione” degli essere umani (e, più in generale, di tutti gli animali). I mezzi sono azioni vere e proprie: chi usa certi modi nell’affermarsi fa suoi quei modi, li approva e di diffonde. Analizziamo i tre fini dell’azione politica. La “non-collaborazione”: se la legge esterna discorda da quella intima, che specialmente nelle questioni importanti, appare assolutamente superiore, bisogna seguire quella intima, quella di cui si è convinti. Per spiegare meglio questo concetto Capitini ricorre all’espressione di “resistenza passiva” , che esclude di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta. Scrive in modo chiaro: “colui che non intende collaborare non si reca in montagna, si sottopone alle sanzioni, spiega i suoi motivi e dimostra che la sua azione non è ispirata dal fine di sottrarsi ad un peso”. La sua non-collaborazione si rivela, alla fine, una forma di collaborazione più autentica per offrire nuovi elementi al legislatore, per “collaborare con la storia”. La “non-menzogna”: chi sceglie questa pratica si sente impegnato a parlare sempre come se gli altri fossero presenti in un determinato contesto, anche se assenti, quindi trasparenza assoluta.
Tutto quello che noi facciamo o pensiamo secondo questo principio acquista un particolare valore perché sentito nella “compresenza” degli altri. La “non-uccisione”: l’atto primo della non-violenza è evidentemente il non-uccidere e il fondamento primo della non-violenza è il rispetto assoluto della vita. “Non violenza è non opprimere, non tormentare, non distruggere nemmeno gli avversari, cioè apertura alla libertà e allo sviluppo di tutti”. Questo punto di vista denuncia che nella storia, anche recente del nostro novecento, troppe nefandezze sono state compiute a fin di bene, quando gli uomini vengono considerati cose di cui disporre ed eliminare senza rumore. Da questi concetti si può sintetizzare che Capitini oppone alla massima del politico realista “se vuoi la pace prepara la guerra” e a quella del pacifista “se vuoi la pace prepara la pace”, il pensiero del “persuaso” (come si autodefiniva): “se vuoi la pace prepara la liberazione”. Il suo pensiero, non a caso, viene considerato una speranza profetica, la proposta complessa e affascinante di una realtà che potrà divenire se si lavorerà qui e ora nella direzione in cui egli ritiene si debba lavorare perché, questo è il suo imperativo, la realtà così com’è è inaccettabile e deve cambiare.
Nessun commento:
Posta un commento