Riportiamo il testo scritto da una dottoressa di ricerca torinese in cui spiega le ragioni che recentemente l'hanno portata a rifiutare un lavoro di ricerca in collaborazione con l'Università israeliana di Tel Aviv:
24/02/2017
La necessità di scrivere queste righe sorge da un episodio, sicuramente non straordinario, che mi ha portata a confrontarmi con la natura politica delle scelte personali di chi lavora in ambito accademico. Mi sono chiesta come rendere pubblica una scelta personale che è, per l’appunto, estremamente politica nelle sue ragioni, sperando di renderne politici anche gli effetti.
Per chi, come me, ha da poco concluso il dottorato in Italia, una delle poche opportunità di lavoro retribuito (si intende come attività di ricerca all'interno dell'università) è rappresentata dalla partecipazione a progetti finanziati da fondi europei/internazionali. Nello specifico, mi è stato proposto una collaborazione di ricerca all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020 – piattaforma di cui parleremo più avanti. Senza scendere eccessivamente nel dettaglio – non mi interessa farne una narrazione personalistica, ma vorrei sottolineare il carattere sistemico di questa esperienza – si sarebbe trattato di un lavoro nell'ambito della ricerca energetica/green/smart/quello-che-va-di-moda in collaborazione con, tra gli altri, l'università israeliana di Tel Aviv.
Nello sgomento e incredulità delle persone che mi stavano proponendo come “persona giusta per il progetto”, che ritenevano si trattasse per me di un'opportunità imperdibile, ho rifiutato l'offerta perdendo di conseguenza il lavoro e – con ogni probabilità – qualsiasi velleità di carriera accademica in Italia.
In Italia oggi, come nella maggior parte dell'Europa meridionale, le speranze di un ricercatore/ricercatrice di ottenere un lavoro stipendiato sono lontani miraggi. Di conseguenza, il docente di turno che avanza una proposta di questo tipo non è preparato all'idea di sentirsi rispondere di no. Il rifiuto è considerato un lusso, e forse mi azzardo a parallelismi inopportuni, ma l’idea che chi si sottrae sia spocchios@ e viziat@ non va molto lontano da certi commenti che abbiamo letto su vicende ben più drammatiche della mia.
A chi ha una qualche familiarità con la questione palestinese, sarà saltato all'occhio il particolare della collaborazione con un'università israeliana, che in effetti costituisce il motivo del mio rifiuto. Per farla breve, esiste dal 2004 un movimento internazionale (BDS) di boicottaggio su vari livelli delle istituzioni economiche, politiche e culturali israeliane. Secondo le linee guida di questa campagna internazionale (https://www.bdsitalia.org/index.php/campagne/bac), ed a ragion veduta, le istituzioni accademiche sono un punto chiave della struttura ideologica ed istituzionale del regime di oppressione, colonialismo ed apartheid di Israele contro la popolazione palestinese. Fin dalla sua fondazione, l’accademia israeliana ha legato il proprio destino a doppio filo con l’establishment politico-militare, e nonostante gli sforzi di una manciata di accademici interni, tale istituzione rimane profondamente impegnata a supportare e perpetuare la negazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.
L'obiettivo principale di questa campagna di boicottaggio sarebbe l'isolamento dell'accademia israeliana con lo scopo di fare pressione sulle politiche dello stato stesso; questo isolamento risulta tanto più efficace quanto più va a colpire in profondità i legami di collaborazione con altre università, centri di ricerca e organismi internazionali. I legami di questo tipo - scambi di dati, ricerche e professori, conferenze e progetti condivisi – sono parte integrante della vita delle università e dei ricercatori in tutto il mondo: mantenere legami di questo tipo con Israele equivale una normalizzazione dello stato e dei suoi istituti di ricerca sullo scenario internazionale; significa dare riconoscimento a, e quindi non problematizzare, le strutture che sottendono alla produzione scientifica israeliana e le basi di esistenza dello stato di Israele.
Tornando al tipo di collaborazione di cui si sarebbe trattato, i progetti Horizon 2020 fanno parte di un ampio insieme di collaborazioni ufficiali tra Unione Europea e diversi partner internazionali, tra cui lo Stato di Israele (accordo siglato nel 2014 da Netanyahu e Barroso), in cui si rende possibile ai centri di ricerca israeliani di accedere ai fondi per innovazione e ricerca dell’Unione Europea stessa in partneriato con istituti europei. Ma ovviamente esistono anche accordi in cui i soldi sono messi da Israele, ed i “cervelli” dalle università nostrane. Israele ha siglato collaborazioni con le istituzioni europee sulla ricerca dal 1996. Nel periodo 2007-2013 Israele si è inserito in oltre 1500 progetti, tra cui progetti “European Research Council” (ERC) e fondi Marie-Skłodowska Curie. I fondi europei che sono andati direttamente nelle tasche israeliane sono attorno ai 780 millioni di euro. Lo stesso BDS definisce Horizon 2020 “Il più chiaro esempio di complicità accademica supportata dai governi”. Includendo Israele in questo massiccio progetto di ricerca accademica, nonostante le persistenti violazioni israeliane alla clausola sui diritti umani dell’Association Agreement tra Unione Europea ed Israele, il quadro giuridico di Horizon e di altri sistemi europei-israeliani è equivalente all’occultamento di una lunga lista di violazioni dei diritti umani che Israele e le sue università complici hanno commesso negli ultimi decenni. Con un budget di quasi 80 miliardi di euro totali, il programma Horizon 2020 è il primo programma europeo di ricerca ed innovazione, nonché uno dei più grandi al mondo.
In un panorama di così ampi obiettivi, interessi e denaro, ci si potrebbe domandare che valore possa avere il rifiuto individuale di un lavoro di ricerca, a tempo determinato e comunque precario – ovviamente già proposto ed accettato da qualcun'altro dei mille ricercatori in attesa di qualche briciola di finanziamento. I motivi che mi hanno spinto a questa scelta altro non sono se non la consapevolezza della mancanza di possibilità di agire che ci appartiene come generazione di accademici, forse anche come generazione tout court. I compromessi etici con cui funziona lo stato attuale della produzione di conoscenza e con cui ci siamo trovati a fare i conti sono in larga parte al di là della nostra possibilità di azione, chi detiene il potere di decidere con chi collaborare sta decisamente molto lontano dalle nostre sfere. La possibilità di non collaborare con uno stato di cose presente è per noi solo una possibilità di sottrazione e negazione, anche a costo della nostra cosiddetta carriera.
Il boicottaggio come scelta politica a questo punto non è né il gesto eclatante di una rottura di accordi (perché non è in mio potere, anche se auspicabile), né la banale scelta allo scaffale del supermercato: sarebbe facile non accettare fondi e collaborazioni quando la disponibilità di alternative (il caleidoscopio di possibilità…) fosse effettivamente alla portata.
Ho anche dovuto ragionare sulla natura del progetto stesso a cui sarei andata a collaborare, che aveva a che fare con le energie rinnovabili ed i consumi energetici. Come non pensare ad una perfetta installazione di sistemi fotovoltaici nelle colonie illegali, isole autosufficienti ed ipertecnologizzate, mentre al di là dei muri la popolazione palestinese viene costretta a morire di sete? Per quanto la chiarezza del tema di cui mi sarei dovuta occupare abbia reso la decisione più netta, non credo che la storia sarebbe dovuta andare diversamente se si fosse trattato, che ne so, di biotecnologie, o anche di studi filologici. La legittimazione di un sistema di apartheid e violenza non ha dipartimento.
La produzione di conoscenza è situata politicamente, storicamente e geograficamente, non credo di doverlo spiegare io. E se siamo stati schiacciati nel ruolo di un esercito di riserva della ricerca che sopravvive a briciole, in un panorama di fondi che i nostri superiori elemosinano da organizzazioni internazionali distanti e sulle quali loro stessi non hanno potere di azione, ci sosteniamo emotivamente ostentando la dignità di uno status di “produttori di conoscenza”. Nella scelta che sto raccontando vorrei trovare un tipo di dignità politica differente. Per costruire una ricerca al di là dell’asfissiante stato di cose non credo abbia senso chiedere più spazio, più soldi, più contratti dentro questa accedemia, che non ha prospettive – parlo dell’Italia, ma credo abbia paralleli altrove - se non il collasso tra i feudalismi baronali, che praticamente ovunque si sono rivelati incapaci di mantenere il proprio potere in questo nuovo sistema di finanziamenti macrodirezionati.
Fonte: Collettivo Universitario Autonomo Torino
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