di Roberto Zannini
Tratto da Patria Indipendente, rivista dell’Anpi
Dietro la miccia che in Occidente credevamo spenta, un nodo irrisolto dalle origini lontane. Il governo israeliano di Netanyahu insegue la destra religiosa. In tutta Italia, ma anche in Europa e oltreoceano imponenti manifestazioni di solidarietà al popolo palestinese
Quattro giorni di tensione visibile, solo quattro. E poi razzi e bombardieri, bombardieri e razzi quanti non se n’erano mai visti, proiettili veri e non di gomma, carri armati oltre che poliziotti. E decine di morti, centinaia di feriti, decine di migliaia di fuggiaschi.
Israele e Palestina sono in fiamme come mai da decine di anni. Sembra un incubo improvviso. Non lo è.
Dopo cinque giorni di stato di guerra – come altro definirla? – l’Autorità palestinese dichiarava 139 morti a Gaza (31 bambini, 20 donne). Già oggi aumentati a 145, un migliaio di feriti, Israele 10 vittime. Bombardieri F-16 da una parte e razzi spesso artigianali dall’altra, sistemi anti-missile e d’allarme contro vecchie cantine.
Si discute molto e si odia anche di più sulla distribuzione di ragioni e torti. Non discutibile è il fatto che c’è un occupante e un occupato. Uno Stato che garantisce diritti ai suoi cittadini, e cittadini che non esistono di uno Stato che esiste ancora meno.
Una situazione insostenibile, che invece si sostiene da quasi settant’anni. Nell’inferno tra Gaza e Gerusalemme sta bruciando la principale soluzione della crisi. Si chiama “due Popoli, due Stati”.
È stata a lungo l’opzione preferenziale, per anni la sola, vite intere sono state spese per essa. I veleni intatti del secondo dopoguerra, fermentati per decenni, senza mai il miracolo di un Mandela, di una svolta che superi la storia e permetta un futuro.
L’ultima scintilla è scoccata il 6 maggio, La Corte suprema di Israele doveva giudicare lo sfratto di alcune famiglie da Sheik Jarrah, enclave di Gerusalemme Est dove nel ’48 – l’anno che gli israeliani chiamano Stato e i palestinesi Nakba, catastrofe – finirono alcuni dei 150mila palestinesi rimasti nel Paese mentre in 800mila ne venivano cacciati, proprietà confiscate e assegnate ai coloni del nuovo Israele. Oggi un palestinese non ha alcun diritto sulle sue proprietà di prima del ’48. Mentre un israeliano può fare causa e ottenerle, anche se a pretenderle non è il vecchio titolare ma un’organizzazione della destra religiosa che nel frattempo le ha acquisite.
È ciò che accade a Sheik Jarrah, da anni. L’ennesima sentenza, però, è arrivata in un momento di grande crisi politica sia per il governo israeliano di Benyamin “Bibi” Netanyahu, che non riesce più a formare un governo, sia per quello palestinese di Abu Mazen, che ha annullato le imminenti elezioni. Mentre gli sfrattati palestinesi da una parte della strada, e il picchetto di un partito dell’ultradestra religiosa dall’altra, si prendevano a sassate. E il giorno dopo finiva il Ramadan.
Il 7 maggio la miccia si è accesa: 70mila palestinesi sono andati a pregare alla grande moschea di Al Aqsa e hanno trovato la polizia. Per sfollarli e permettere ai nazionalisti israeliani la loro “marcia della bandiera”. Non poteva finire bene. Lanci di pietre, sgomberi violenti, lacrimogeni e proiettili di gomma, 300 palestinesi e 17 poliziotti feriti. L’8 e il 9 maggio i gruppi sono diventati folle, i sassi coltelli, i lacrimogeni granate assordanti e cannoni ad acqua.
E il 10 maggio l’innesco ha raggiunto l’esplosivo. Hamas ha lanciato un ultimatum (entro le 18 via la polizia dalla moschea di Al Aqsa occupata da due giorni), scaduto il quale dalla Striscia di Gaza, dominata dall’organizzazione islamista, sono partite salve di razzi verso Tel Aviv, Ascalona, Sderot e molte altre città israeliane. Contro i primi 150 razzi palestinesi, Israele ha schierato le batterie antiaeree “Iron Dome” e lanciato i bombardieri. La Corte Suprema ha precipitosamente rinviato gli sfratti, ma ormai la bomba era deflagrata.
In un pugno di giorni centinaia di vittime, cannoniere israeliane in azione, almeno 1.500 lanci di razzi su Acri, Bahtiam, Beersheba, Rahat, Ramla, Nassirya, Tiberiade, Haifa… Mai visti così tanti, dice la difesa israeliana, che ora stima in 30mila pezzi l’arsenale palestinese. La maggior parte sono Qassam, vecchi arnesi artigianali di scarsa gittata e potenza, ma sarebbero apparsi anche i nuovi M-75 e J-80, fatti con pezzi iraniani e russi contrabbandati. I numeri indicano la gittata in chilometri, e se è vero (un se molto grosso, però) potrebbero colpire ovunque.
Se le rispettive crisi politiche sono il combustibile che ha acceso l’incendio, i “due Popoli due Stati” sono la legna sul rogo.
I “due Stati” furono la scelta che l’apposita commissione dell’Onu fece nel ‘48, contro l’ipotesi di stato binazionale. Non riuscì mai a fissarne i confini. Fino agli accordi di Oslo del 1993, quando Bill Clinton riunì al tavolo Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat e creò l’Autorità Nazionale Palestinese, disegnando una mappa e i tempi per raggiungerla. Volarono i premi Nobel per la pace, l’entusiasmo e i sondaggi, ma presto volarono gli stracci.
Ai tempi di Oslo, Israele era fatto dalla sinistra laburista di Rabin e Peres e dalla destra nazionalista di Shamir, Sharon e del giovane Bibi. Ma appena due anni dopo Oslo, Rabin era morto assassinato da un colono della nuova destra religiosa, altri ventiquattro mesi e i laburisti perdevano metà dei seggi alla Knesset e si incamminavano verso l’odierna irrilevanza. Il solo rivale di Netanyahu è l’ultradestra religiosa.
Bibi Netanyahu è il più longevo premier di Israele, più del leggendario Ben Gurion. Dirige il partito di destra Likud da vent’anni, ma dopo quattro elezioni negli ultimi due anni non riesce a formare un governo.
Il rabbino Meir Kahane
È stato scavalcato a destra dai “kahanisti”, organizzazioni teocratiche che professano la halakha (legge giudaica) e ritengono la democrazia buona solo per chi non ha una direzione divina. Si rifanno a Rabbi Meir Kahane, ebreo ortodosso di Brooklyn, fondatore della Jewish Defense League (“combattere con ogni mezzo necessario”) e del partito Kach, assassinato nel 1990. Questi partiti sono stati dichiarati illegali dalle leggi anti-odio e non possono partecipare alle elezioni. Ma lo fanno attraverso altre sigle e alleanze, e militano nella società e nelle strade. Era loro il violento manipolo davanti agli sfrattati di Sheik Jarrah. Negli anni, Netanyahu ha rincorso i consensi insidiati dagli ultrà religiosi, inasprendo le condizioni dei palestinesi verso limiti sempre nuovi. La guerra in corso ha già un effetto: nessuno discute più il comandante in capo.
I palestinesi non stanno meglio. Il presidente Abu Mazen ha rinviato sine die le prime elezioni dopo quelle vinte da Hamas su Fatah quindici anni fa. Le avrebbe perse ancora: Israele ha deciso di impedire ai palestinesi di Gerusalemme di votare e senza quei voti urbani Hamas avrebbe dilagato oltre Gaza.
L’arma più potente dei palestinesi è una straordinaria prolificità. Gli 800mila sfollati del ‘48 sono diventati 5 milioni, in uno Stato unico potrebbero capovolgere la vita politica del Paese (Stato unico ma con palestinesi senza diritti è infatti l’opzione dei teocratici).
Quella che oggi infiamma le piazze è una generazione nata, vissuta e cresciuta dopo gli accordi di Oslo. Hanno sentito parlare di “due Popoli due Stati” nella culla, sono cresciuti dietro sbarre di emarginazione sognando “due popoli”, sono diventati uomini e donne inseguendo “due stati”, mentre le loro neonate istituzioni si sfaldavano tra corruzione, divisioni sempre più settarie, conflitti etero-diretti da potenze regionali. Ora hanno quasi trent’anni e figli propri, e non si fidano più di nessuno.
Il mediatore internazionale più potente, gli Stati Uniti, hanno perso la residua credibilità nel quadriennio di Donald Trump. Che prima spostò l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme facendo infuriare l’intero mondo arabo e l’Onu, che considera Gerusalemme Est occupata, poi mandò il first genero Jared Kushner a firmare i “Patti di Abramo”, a cui aderirono un po’ di Paesi arabi ma non i palestinesi e nemmeno i teocratici israeliani.
E Jared Kushner ora scrive sul Wall Street Journal che il conflitto arabo-israeliano “è solo un normale scontro immobiliare”.
Il presidente Biden parla di “diritto a difendersi” di Israele, ma il suo rivale democratico Bernie Sanders si espone e scrive sul New York Times che “gli Usa devono smettere di fare l’apologia del governo Netanyahu”. Forse esiste ancora un terreno di lavoro per l’ultima chiamata di “due Popoli due Stati”.
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