lunedì 30 settembre 2013

UNA SVOLTA NEL CONFLITTO SIRIANO?




di ROBERT FISK
(pubblicato in THE INDEPENDENT)

Domenica 29 Settembre 2013

Una soluzione siriana della guerra civile? L'esercito Libero Siriano (Free Syrian Army) sta avendo colloqui con funzionari di Assad. L’approccio segreto col presidente potrebbe rimodellare tutta la guerra.


Sei settimane fa, una delegazione di due uomini è arrivata ​​in segreto a Damasco: civili di Aleppo che rappresentavano  gli elementi dell'Esercito siriano libero, il gruppo ribelle in gran parte composto da combattenti che hanno disertato l'esercito del regime nel primo anno di guerra. Sono arrivati ​​con un garanzia di sicurezza, e hanno  incontrato, così mi è stato detto, un alto funzionario dello staff del presidente Bashar al-Assad . Ed essi portavano con sé una iniziativa straordinaria - che ci potrebbero essere colloqui tra il governo e gli ufficiali del FSA che "credono in una soluzione siriana" per la guerra.
La delegazione ha presentato quattro punti: che ci deve essere un "dialogo interno siriano", che le proprietà private e pubbliche devono essere mantenute, che ci deve essere fine  - e la condanna – dei conflitti civili, settari, etnici, e che tutti devono lavorare per una democratica Siria , dove la supremazia della legge dovrebbe essere dominante. Non c'era alcuna richiesta - almeno in questa fase - per la partenza di Assad.

La risposta a quanto pare è arrivata puntuale. Ci dovrebbe essere davvero "un dialogo all'interno della patria siriana"; non precondizioni per il dialogo, e una garanzia di sicurezza presidenziale per eventuali uomini  del FSA che vi partecipano. E ora, sembra, un altro notevole sviluppo è in corso: in sette aree controllate dai ribelli di Aleppo, la maggior parte dei quali sotto il controllo del FSA, i dipendenti civili possono tornare a lavorare nei loro uffici, e le istituzioni governative e le scuole possono riaprire. Gli studenti che sono diventati miliziani nel corso degli ultimi due anni saranno disarmati e potranno tornare alle loro aule.

Alcuni membri del FSA hanno formato quello che chiamano l’ "Unione nazionale per la salvezza della Siria", anche se i membri dell'opposizione politica in aree esterne al controllo del governo hanno interrotto gli incontri condannando l'esercito governativo e, secondo quelli coinvolti nella "Unione", facendo commenti settarie e condannando gli sciiti e l'Iran. La scorsa settimana ci sono state diverse defezioni di unità del FSA verso al-Qaeda legata al Fronte al-Nusra, che ha complicato le cose ancora di più. Se il FSA è disposto a parlare con il regime, perché molti sono ora si rifiutano di patrtecipare a futuri accordi tra le due parti?

Da mesi, i funzionari pro-regime hanno esplorato come potrebbero portare i disertori dell'esercito di nuovo al loro fianco - e la crescita di al-Nusra e altri gruppi islamisti ha certamente deluso molte migliaia di uomini  del FSA che sentono che la loro rivoluzione contro il governo è stata loro rubata.  E nelle zone della provincia di Homs, è un dato di fatto che la lotta tra il FSA e l'esercito è praticamente cessato. In alcuni villaggi e città controllate dal governo quelli del FSA sono già presenti, senza essere molestati.

E i vantaggi per Assad sono chiari. Se gli uomini  del FSA potessero essere persuasi a ritornare nei ranghi dell'esercito del regime in tutta sicurezza, ampie zone di territorio in mano ai ribelli ritornerebbero sotto  il controllo del governo, senza colpo ferire. Un esercito rafforzato dalle unità che  una volta avevano disertato, potrebbe poi essere rivolto contro al-Nusra ed i suoi affiliati di al-Qaeda in nome dell'unità nazionale.

I combattenti islamici nell’opposizione siriana sono certamente una fonte di profonda preoccupazione per tutti i soggetti coinvolti nella guerra - non ultimo, ovviamente, gli americani, che continuano a tentennare se devono dare armi ai ribelli. L'amministrazione americana aveva seguito il consiglio di John McCain, per esempio, che alcune delle armi che potrebbero essere state date al FSA sarebbe già nelle mani di al-Nusra ora che tre unità del FSA sono passate agli Islamisti. I combattenti islamisti in Siria nel frattempo si stanno trasformando in una seria minaccia per l'esistenza stessa dei cristiani del Paese. Vescovi e patriarchi di tutta la regione si sono incontrati a Beirut lo scorso venerdì a lamentare l'esodo dei cristiani del Medio Oriente; il cardinale cattolico maronita Bechara Rai del Libano ha descritto come per i cristiani, "la 'primavera araba' si sia trasformata in inverno, di ferro e fuoco ".

I presuli sono stati particolarmente turbati davanti ai danni enormi alle chiese a Raqqa - ora sotto il controllo del gruppo di al-Nusra - e per l'attacco di al-Nusra a Maaloula. Ho visto coi miei occhi la settimana scorsa quanto perverso sia stato questo assalto alla gran parte cristiana della città siriana a nord di Damasco . Nelle case cristiane, i crocifissi erano stati fracassato, ma gli invasori di al-Nusra sembravano provare un piacere perverso nel distruggere le case. In un appartamento seminterrato avevano svuotato il frigo di cibo e riempito di scarpe.

Ora i fatti hanno preso una piega diversa!

(traduzione di Diego Siragusa)

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Original text


The Independent

ROBERT FISK

Sunday 29 September 2013

A Syrian solution to civil conflict? The Free Syrian Army is holding talks with Assad's senior staff. Secret approach to the President could reshape the whole war

Six weeks ago, a two-man delegation arrived in secret in Damascus: civilians from Aleppo who represented elements of the Free Syrian Army, the rebel group largely composed of fighters who deserted the regime’s army in the first year of the war. They came under a guarantee of safety, and met, so I am told, a senior official on the staff of President Bashar al-Assad. And they carried with them an extraordinary initiative – that there might be talks between the government and FSA officers who “believed in a Syrian solution” to the war.
The delegation made four points: that there must be an “internal Syrian dialogue”; that private and public properties must be maintained; that there must be an end to – and condemnation of – civil, sectarian, ethnic strife; and that all must work for a democratic Syria where the supremacy of law would be dominant. There was no demand – at least at this stage – for Assad’s departure.

The reply apparently came promptly. There should indeed be “a dialogue within the Syrian homeland”; no preconditions for the dialogue; and a presidential guarantee of safety for any FSA men participating. And now, it seems, another remarkable development is under way: in seven rebel-held areas of Aleppo, most of them under the control of the FSA, civil employees can return to work in their offices, and government institutions and schools can reopen. Students who have become militiamen over the past two years will be disarmed and return to their classrooms.

Some members of the FSA have formed what they call the “National Union for Saving Syria”, although members of the political opposition in areas outside government control disrupted meetings by condemning the government army and, according to those involved in the “Union”, making sectarian comments and condemning Shiites and Iran. Last week there were several defections of FSA units to the al-Qa’ida-linked al-Nusra Front, which has complicated matters still further. If the FSA is prepared to talk to the regime, how many are now left to take part in future agreements between the two sides?

For months now, pro-regime officials have explored how they might win the army defectors back to their side – and the growth of al-Nusra and other Islamist groups has certainly disillusioned many thousands of FSA men who feel that their own revolution against the government has been stolen from them. And in areas of Homs province, it is a fact that fighting between the FSA and the army has virtually ceased. In some government-held villages and towns the FSA are already present without being molested.

And the advantages to Assad are clear. If FSA men could be persuaded to return to the ranks of the regime’s army in complete safety, large areas of rebel-held territory would return to government control without a shot being fired. An army reinforced by its one-time deserters could then be turned against al-Nusra and its al-Qa’ida affiliates in the name of national unity.

The Islamist fighters in the Syrian opposition are certainly a source of deep concern to everyone involved in the war – not least, of course, the Americans, who continue to dither over whether they should give weapons to the rebels. Had the US administration followed John McCain’s advice, for example, some of the arms that might have been given to the FSA would already be in the hands of al-Nusra now that three units within the FSA have gone across to the Islamists.The Islamist fighters in Syria are meanwhile turning into a serious threat to the very existence of the country’s Christians. Bishops and patriarchs from across the region met in Beirut last Friday to lament the exodus of the Christians of the Middle East; Catholic Maronite Cardinal Bechara Rai of Lebanon described how for Christians, “the ‘Arab Spring’ had turned to winter, to iron and fire”.

The prelates were particularly upset at the massive damage to churches in Raqqa – now under the control of the al-Nusra group – and at the al-Nusra attack on Maaloula. I saw myself last week how perverse was this assault on the largely Christian Syrian town north of Damascus. In Christian homes, crucifixes had been smashed, but the al-Nusra invaders seemed to take a perverse pleasure in wrecking their homes. In one basement flat  they had emptied the fridge of food and stuffed it full of shoes.

Now that’s something to bend your mind!

giovedì 19 settembre 2013

PERCHE' ISRAELE HA IL VETO SUL PROCESSO DI PACE? COME E' NATA L'IMPUNITA' DI ISRAELE


Perché Israele ha il Veto sul Processo di Pace? Ovvero, come è nata tecnicamente 

l'impunità di Israele


di Alan Hart


12 aprile 2011

Come ho spiegato durante il mio recente giro di conferenze in Sud Africa – peraltro paese di Goldstone – dal quale sono appena rientrato, la risposta alla domanda del titolo – e cioè «perché Israele ha il veto sul processo di pace» consiste in ciò che è successo a porte chiuse nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York, durante i mesi che seguirono la guerra del 1967. Ma per capire davvero è necessario prima di tutto rendersi conto che si è trattato di una guerra di aggressione da parte di Israele e non di legittima difesa come vorrebbe la fraudolenta versione sionista.

A distanza di oltre 40 anni, la maggior parte della gente è ancora convinta che Israele sia ‘entrata’ in guerra perché gli Arabi hanno attaccato per primi (la versione iniziale di Israele), oppure perché gli Arabi avessero l’intenzione di attaccare e Israele si sarebbe trovata costretta ad una guerra preventiva. La verità su quella guerra può essere riassunta in una semplice affermazione: gli Arabi non hanno attaccato, né avevano intenzione di attaccare. L’intera verità, tuttavia, documentata nel mio libro 'Zionism: The Real Enemy of The Jews' (non ancora uscito in Italia), evidenzia i fatti seguenti.


Il premier israeliano di quell’epoca, il molto calunniato Levi Eshkol, ricopriva allora anche la carica di ministro alla difesa e non aveva alcuna intenzione di fare entrare Israele in guerra. Né l’aveva il suo capo di stato maggiore, Yitzhak Rabin. La loro intenzione era di mettere pressione alla comunità internazionale mediante azioni militari molto limitate e per niente assimilabili ad una guerra, affinché spingesse il presidente egiziano Nasser a riaprire lo Stretto di Tiran.

Israele ha fatto la guerra perché così volevano i ‘falchi’ militari e politici, che a tale scopo insistevano che gli Arabi stessero per attaccare. Sapevano benissimo che era una menzogna, ma hanno sostenuto questa falsità per attaccare Eshkol sul piano politico, facendolo passare per un debole agli occhi del paese. Al culmine della campagna di diffamazione contro Eshkol i falchi hanno chiesto a gran voce che il premier passasse il portafoglio della difesa a Moshé Dayan, che tutti ricordiamo come il signore della guerra con la benda sull’occhio e maestro dell’inganno. Appena quattro giorni dopo avere ottenuto il ministero che voleva, mentre i falchi avevano ottenuto il via libera dal governo Johnson per annientare l’aviazione e l’esercito dell’Egitto, Israele ha iniziato la guerra. (Lindon Johnson era stato vice-presidente di John Kennedy, al quale era succeduto dopo l’assassinio del famoso presidente, n.d.t.)

Ciò che in realtà avvenne in Israele durante i giorni che precedettero la guerra fu qualcosa di molto simile ad un golpe militare, eseguito in segreto, a porte chiuse, senza colpo ferire. Per i falchi di Israele, in effetti, la guerra del 1967 significava portare a termine l’impresa iniziata nel 1948/49: creare la Grande Israele, con Gerusalemme -- l’intera Gerusalemme – come capitale. Avvenne questo. I falchi israeliani tesero una trappola al presidente egiziano Nasser minacciando la Siria. Sentendosi obbligato a salvare la faccia con la Siria, l’imprudente Nasser cadde nella trappola ad occhi aperti. Il giorno dopo l’inizio della guerra, il Generale Chaim Herzog, uno dei fondatori dei Servizi Segreti Militari di Israele, mi confessò questo in privato: «Anche se Nasser non fosse stato tanto stupido da fornirci un pretesto per la guerra, noi stessi ne avremmo creato uno nel giro di 12-18 mesi.»

Come dico nel mio libro, se l’affermazione che gli Arabi non avessero intenzione di attaccare e che l’esistenza di Israele non era messa a rischio fosse solo quella di un goy (un non-ebreo) - io nella fattispecie – tale affermazione potrebbe essere liquidata dai sionisti e dai sostenitori di Israele come una congettura anti-semita. Invece tale verità è stata ammessa, confessata, da molti leader israeliani. Ecco di seguito alcuni tra i tanti esempi.

In un’intervista pubblicata su Le Monde il 28 febbraio del 1968, il capo di stato maggiore Rabin disse questo: «Non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che ha inviato nella Penisola del Sinai il 14 maggio (1967) non sarebbero state sufficienti a scatenare un’offensiva contro Israele. Lo sapeva lui e lo sapevamo noi.»

Il 14 aprile del 1971, un rapporto pubblicato nel giornale israeliano Al-Hamishmar conteneva la seguente dichiarazione di Mordecai Bentov, esponente del governo israeliano durante la guerra: «L’intera storia dell’annientamento (di Israele) è stata inventata in ogni suo dettaglio e perfino esagerata a posteriori per giustificare l’annessione di altre terre Arabe

Nel 1982 il primo ministro Begin si fece sfuggire questa osservazione in pubblico: «Nel giugno del 1967 avevamo una scelta. Le forze egiziane concentrate nel Sinai non erano affatto una prova che Nasser fosse davvero sul punto di attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi abbiamo deciso di attaccarlo.»

Tuttavia l’avvenimento più catastrofico del 1967 non è stata la guerra in sé stessa con la creazione di una Israele allargata (Eretz Israel, Greater Israel, o Grande Israele come viene definita in italiano – n.d.t.).

Dietro pressione degli Stati Uniti, e con la complicità finale dell’Unione Sovietica, l’evento più catastrofico si rivelò essere il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condannare Israele in quanto aggressore. 

Se lo avesse fatto, la storia della regione – e del mondo – potrebbe avere seguito un corso completamente diverso: ad esempio, un negoziato per la fine del conflitto israelo-arabo con la prospettiva per la pace entro un anno o due. A coloro che ritengono questa un’ipotesi non realistica dico questo: leggete il mio libro, che contiene un capitolo intitolato ‘Addio all’Integrità del Consiglio di Sicurezza’.

Domanda: Perché, in effetti, era così importante dal punto di vista dei sionisti che Israele non fosse marchiato come aggressore quando in realtà lo era? In sintesi, ecco perché.

Per prima cosa, agli aggressori è vietato rimanere in possesso dei territori che invadono con la guerra – hanno l’obbligo del ritiro incondizionato. Questi sono i termini della Legge Internazionale che peraltro costituiscono un principio fondamentale che le Nazioni Unite hanno l’obbligo di applicare e difendere – proprio come hanno fatto nel 1956 quando Israele aveva invaso l’Egitto con la complicità dell’Inghilterra e della Francia.

E inoltre esiste un principio, generalmente riconosciuto, che si applica nel caso in cui uno Stato venga attaccato e diventi quindi vittima di aggressione. Qualora lo Stato attaccato decidesse di fare la guerra per legittima difesa e invadesse di conseguenza il territorio dell’aggressore, avrebbe poi il diritto, in eventuali negoziati, di dettare condizioni per il proprio ritiro.

Sulla base dei principi illustrati, ecco dunque cosa è successo nelle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967.

E’ vero che mediante la Risoluzione 242 del 23 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha applicato il principio del ‘divieto di acquisizione di territori per mezzo di guerre’, ma lo ha fatto favorendo i sionisti. Lo ha fatto attribuendo ad Israele – e non agli Arabi - il diritto di dettare condizioni per il proprio ritiro (cioè, l’aggressore sionista è diventato la vittima). La Risoluzione 242 ha in effetti consegnato ai leader israeliani e alla Lobby sionista in America il Veto su eventuali processi di pace.

Nel 1957 il presidente americano Eisenhower aveva detto che: se ad una nazione che avesse attaccato e occupato territori stranieri fosse concesso di dettare condizioni per il proprio ritiro, «ciò equivarrebbe a rimettere indietro l’orologio dell’ordine internazionale».

Ed è proprio questo che avvenne nel 1967. Il presidente americano Johnson, preoccupato della guerra in Viet-Nam, e dietro consiglio dei sionisti più estremi nella cerchia dei suoi consiglieri, ha rimesso indietro l’orologio dell’ordine internazionale.

Con ciò vennero effettivamente creati due pesi e due misure per regolamentare il comportamento delle nazioni:

– da una parte c’erano le nazioni del mondo, escluso Israele, chiamate ad agire in conformità con le leggi internazionali e con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alla comunità delle Nazioni Unite;

- dall’altra c’era Israele, da cui non ci si aspettava - e a cui non veniva richiesto – di comportarsi come il resto del mondo, o meglio, come uno stato normale.

Dietro insistenza dei sionisti nel governo Johnson, il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di bollare Israele come aggressore segnò la nascita del ‘doppio standard’ nell’interpretazione e applicazione delle regole per giudicare e sanzionare, dove appropriato, il comportamento delle nazioni. Questo ‘doppio standard’ rappresenta il motivo per cui dal 1967 ad oggi un vero e proprio processo di pace non è stato reso possibile.

A mio avviso non esiste la benché minima possibilità per un reale processo di pace fino a quando questo doppio standard – due pesi e due misure – non sarà abbandonato. Fino a quando, cioè, i governi delle maggiori potenze mondiali, con gli USA in testa, daranno ad Israele un messaggio forte e chiaro, che abbia questo significato: «Adesso basta. E’ nell’interesse di tutti noi che mettiate fine al vostro disprezzo del Diritto Internazionale. Altrimenti saremo obbligati a marchiarvi come stato canaglia e ad applicare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni.»

Alan Hart, 12 aprile 2011