domenica 13 aprile 2014

LA CRESCITA DELLE DISUGUAGLIANZE




Le Monde Diplomatique – marzo 2014

La crescita delle disuguaglianze spiega la stagnazione economica?
L’orribile dubbio dei liberisti
di Kostas Vergopoulos
professore emerito di Scienze economiche all’Università Parigi-VIII.
(traduzione dal francese di José F. Padova)

L’arricchimento di una minoranza stimolerebbe la crescita, favorendo così la riduzione della disoccupazione e il miglioramento delle condizioni di vita dei poveri: questo postulato ha lungamente determinato il destino degli Stati Uniti. Mentre le classi popolari continuano a soffrire per la crisi e il fossato sociale aumenta, questo “credo” si trova oggi rimesso in discussione non soltanto dal presidente Barack Obama, ma anche da economisti liberali che tempo addietro lo avevano ardentemente difeso.
Nello stagno dei dibattiti sull’avvenire del capitalismo il proverbiale sasso non è stato lanciato da un contestatore patentato, ma da uno dei più ardenti difensori del sistema: Lawrence Summers. Già presidente di Harvard, costui si rese famoso per la sua smania di deregolamentazione bancaria quando occupava il posto di ministro delle Finanze durante la seconda Amministrazione Clinton (1999-2001). Nominato da Barack Obama direttore del Consiglio economico nazionale (National Economic Council, NEC), funzione da lui svolta fino al 2010, ormai è prodigo di consigli per il mondo della finanza (il Fondo speculativo D.E.Shaw fra il 2008 e il 2009 gli ha versato 5,2 milioni di dollari), in particolare nel corso di conferenze pagate fino a 135.000 dollari ognuna. Nulla ci si poteva aspettare da lui che suscitasse il minimo rimescolio contestatario.
Il sasso ha toccato la superficie dell’acqua in occasione della conferenza annuale del Fondo monetario internazionale (FMI) (1), svoltasi a Washington il 7 e 8 novembre 2013. «E se il capitalismo si fosse messo da sé nella trappola di una “stagnazione secolare”?», si è chiesto l’amico dei banchieri. «Quattro anni fa siamo riusciti a troncare il panico finanziario, il denaro del piano di salvataggio è stato rimborsato, il mercato del credito è stato risanato. ( … ) Tuttavia il tasso di attività non è variato e la crescita rimane debole». Summers continua il suo ragionamento sul Financial Times: constatando che la Riserva Federale (la Banca centrale americana), praticando già tassi d’interesse vicini allo zero, non aveva più alcun margine di manovra supplementare per rilanciare l’attività, suggerisce che le bolle sono diventate una stampella necessaria alla crescita (2).
Quattro indicatori fondamentali, tutti orientati al ribasso, spiegano quest’umore cupo: da tre decenni continua il ribasso del tasso d’interesse naturale [i termini seguiti da un asterisco sono esplicitati nel glossario], vale a dire quello del profitto; la flessione, da tredici anni, della produttività del lavoro; la contrazione della domanda interna dopo gli anni ’80; e infine la stagnazione, e addirittura, la regressione dell’investimento produttivo e della formazione lorda di capitale fisso dopo il 2001, malgrado le massicce iniezioni di stimolante monetario praticate di volta in volta da Alan Greenspan e dal suo successore alla testa della Federal Reserve, Ben Bernanke.
Risultato: preoccupati di assicurare la loro sopravvivenza, i detentori di capitali non cercherebbero più di massimizzare i loro profitti dopando la produzione, bensì accrescendo i loro prelievi sul valore aggiunto - anche a costo di una contrazione della crescita. Il sistema sarebbe senza via di scampo, nessuna medicina sembrerebbe capace di trarlo dall’incaglio e per di più affronterebbe difficoltà sociali che aggravano la «corrosione» dell’edificio. Da una parte, l’aumento delle disuguaglianze logora le classi medie, ritenute garanti della stabilità sociale, delle istituzioni e della democrazia; dall’altra, la disoccupazione di massa provoca allo stesso tempo una perdita di reddito (per la nazione) e di profitti potenziali (per il capitale).
Imprese che non investono più
Quando furono pronunciate le parole «stagnazione secolare» cominciarono a piovere le reazioni, che furono di perplessità presso i progressisti, stupiti di riconoscersi nella costatazione dell’«irriformabilità» del capitalismo, posta da uno dei loro avversari ideologici dichiarati; e negative presso i conservatori, addolorati di vedere uno dei loro così roso dai dubbi. A questi ultimi il dissidente comunque ricordò che: «Non bisogna confondere previsioni e raccomandazioni (3)».
Il timore di Summers è stato in un primo momento percepito come un eco della diagnosi formulata negli anni ’30 dall’economista americano Alvin Hansen (1887-1975) (4). Tuttavia la «stagnazione secolare», che questi prospettava, derivava soprattutto dal rallentamento della crescita demografica e dall’esaurimento delle grandi innovazioni tecnologiche suscettibili di infondere una seconda giovinezza al sistema economico. La sua analisi si accostava ugualmente a quella di John Maynard Keynes (1883-1946), pessimista sull’avvenire del capitalismo ma convinto che la crisi doveva (e poteva) essere evitata. Tuttavia Summers, da parte sua, non evoca né il fattore demografico, né un qualsiasi esaurimento delle innovazioni tecnologiche. Egli basa la sua valutazione sul bilancio empirico dei tre ultimi decenni.
La destra neoliberista gli rimprovera di aver invertito la catena delle causalità: le bolle finanziarie non avrebbero stimolato la crescita, ma condotto in un vicolo cieco; i pessimi risultati economici dei Paesi occidentali non spiegherebbero il loro superindebitamento, ma ne sarebbero la conseguenza. L’ex membro del Direttorio della Banca Centrale Europea (BCE) Lorenzo Bini Smaghi ritiene così: «Non è l’austerità che indebolisce la crescita, ma il contrario: è la debolezza della crescita che rende necessaria l’austerità (5)». Alcuni arrivano fino ad appellarsi a Keynes contro Summers: mentre l’economista britannico aveva proposto di «sottoporre i redditieri all’eutanasia» - niente di meno –, tollerare le bolle finanziarie per stabilizzare l’economia equivarrebbe, al contrario, a vezzeggiarle (6).
Quando l’ex ministro perora per il ristabilimento del «circolo virtuoso» della crescita, i suoi critici ortodossi gli oppongono le virtù dell’«austerità espansiva». Che preparerebbe il rilancio «risanando» le basi dell’economia. Se l’attuale problema è veramente secolare, obiettano, richiede soluzioni che lo siano ugualmente, e non «giochi di destrezza». Esempi di soluzioni strutturali evocate: abbassare le imposte sulle imprese o, come negli Stati Uniti reclamano i repubblicani, «liberare l’economia dall’asfissiante peso dello Stato sociale», presentato come «il più oneroso al mondo» (7). Altri infine, come Kenneth Rogoff, professore a Harvard, suggeriscono che la debolezza della crescita dal 2008 in poi non riflette una tendenza secolare, ma l’incapacità dei governanti di gestire il debito senza nuocere alla crescita (8).
Nel campo progressista Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, concorda con la costatazione di Summers, ma ne rifiuta la conclusione: l’idea della stagnazione come «nuova norma» del sistema capitalista (9). A suo avviso si andrebbe fuori strada considerando che per rilanciare l’economia sono stati messi in opera tutti gli strumenti: lo sarebbe stata soltanto l’arma monetaria, mediante la diminuzione dei tassi d’interesse e l’emissione di liquidità supplementari. Rimane quindi l’arma del bilancio, che si tratterebbe di attivare rilanciando gli investimenti pubblici, compensando così la contrazione dei loro corrispettivi privati.
Infatti, per il momento, benché abbiano a disposizione importanti disponibilità liquide, le grandi imprese non investono. Il 22 gennaio 2014 il Financial Time segnalava che le società non finanziarie americane detenevano 2.800 miliardi di dollari, dei quali quasi 150 miliardi nelle casseforti della sola Apple. Da parte sua, il giornalista James Saft osservava sull’International New York Times: «Le imprese sembrano più disposte ad accumulare i biglietti di banca o a utilizzarli per riacquistare le azioni, piuttosto che a creare nuove capacità produttive (10)». Gli attivi immateriali rappresenterebbero in media circa il 5% degli attivi delle società americane negli anni ’70; nel 2010 questa proporzione è passata al … 60%.
Fra il 2010 e il 2013 la Federal Reserve ha pur iniettato quasi 4.000 miliardi di dollari nell’economia americana. Eppure, lungi dal rafforzare la capacità produttiva del Paese, una buona parte di questa somma è andata a finire in investimenti speculativi molto redditizi, in particolare nei Paesi emergenti. Cosicché l’importo totale delle liquidità ora «disponibili» nell’economia americana resta inferiore a quello del 2008. Il medesimo fenomeno avviene in Europa (11).
Un’economia che rifiuta di mettersi in moto mentre affluiscono i soldi? Il problema è molto noto: si tratta della «trappola della liquidità» descritta da Keynes negli anni ’30. Per venirne fuori, una sola soluzione: il ricorso al secondo strumento della politica economica, il deficit di bilancio. «In periodo di recessione», sottolinea Krugman, «ogni spesa è buona. La spesa produttiva è migliore e perfino la spesa improduttiva vale più che niente di niente (12)».
Per l’Europa un’idea strampalata. Mentre gli ammiratori dei grandi pensatori liberisti come Ayn Rand, Friedrich Hayek e Milton Friedman continuano a difendere le disuguaglianze, che essi innalzano a condizione imprescindibile per il rilancio e per la prosperità, gli Stati Uniti stanno diventando consapevoli della loro nocività. Nella sua allocuzione del 4 dicembre 2013 e ancor più nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2014, il presidente Obama non soltanto ha denunciato i divari di reddito e di ricchezza – che non cessano di crescere – ma ha anche martellato dicendo che «la disuguaglianza costituisce il problema-chiave della nostra epoca» e che danneggia sia la crescita sia l’occupazione.
Già ministro del Lavoro di Bill Clinton, Robert Reich ha realizzato un documentario, Inequality For All, sull’aggravarsi delle disuguaglianze negli Stati Uniti. Il salario medio nel 1978 era di 48.000 dollari, oggi non raggiunge quasi l’equivalente di 34.000 dollari in termini di potere d’acquisto. All’opposto, il reddito medio per famiglia dell’1% più ricco della popolazione americana, che era di 393.000 dollari nel 1978, è passato a 1,1 milioni di dollari. Da cinque anni a oggi l’1% della popolazione ha captato il 90% della crescita del PIL, mentre il 99% delle restanti persone si sono spartite il 10% che rimane. Da soli, quattrocento individui dispongono di altrettanta ricchezza quanta ne hanno centocinquanta milioni di americani meno ricchi, tutti insieme (13). Tuttavia, se negli Stati Uniti si ammette sempre più apertamente la relazione fra disuguaglianze e stagnazione, in Europa, e particolarmente in Germania, quest’idea passa sempre come una stramberia.
L’attuale situazione ci ricorda un altro periodo della storia segnato da una comparabile concentrazione delle ricchezze: gli anni ’20, che condussero al crack del 1929 e alla Grande Depressione. Perché dunque negare nuovamente il rapporto causa-effetto fra impoverimento della maggioranza della popolazione e rallentamento economico? Le spese di quattrocento individui non potranno mai valere quanto quelle di centocinquanta milioni di americani: più i redditi si concentrano al vertice e più i consumi nazionali si contraggono, a pro del risparmio e della finanziarizzazione, a spese d’investimenti e di occupazione. Quando il patrimonio dei più ricchi non cresce tramite la produzione, ma mediante un salasso sempre più forte sul valore aggiunto, la crescita rallenta e il sistema erode i presupposti stessi della propria riproduzione.
Il neoliberismo, che pretendeva fare uscire il capitalismo dalla sua crisi, ve l’ha affossato. E noi non ci troviamo davanti a una «nuova norma», bensì di fronte a un vicolo cieco …
(1) « Fourteenth Jacques Polak annual research conference : Crises -Yesterday and today », FMI, Washington, DC, 7 et 8 novembre 2013.
(2) Lawrence Summers, « Why stagnation might prove to be the new normal », Financial Times, Londres, 15 décembre 2013.
(3) Lawrence Summers, « Economic stagnation is not our fate – unless we let it be », The Washington Post, 16 décembre 2013.
(4) Cf. Alvin Hansen, Fiscal Policy and Business Cycles, Norton, New York, 1941.
(5) Cité par le Financial Times, 12 novembre 2013.
(6) Cf. Izabella Kaminska, « Secular stagnation and the bastardisation of Keynes », Financial Times, 11 décembre 2013.
(7) Caroline Baum, « Keynesians revive a
Depression idea », Bloomberg, 4 décembre 2013, www.bloomberg.com
(8) Kenneth Rogoff, « What’s the problem with advanced economies ? », Project Syndicate, 4 décembre 2013, www.project-syndicate.org
(9) Paul Krugman, « Secular stagnation, coalmines, bubbles, and Larry Summers », The New York Times, 16 novembre 2013.
(10) James Saft, « Intangible capital », International New York Times, Neuilly-sur-Seine, 26 novembre 2013.
(11) Willem Buiter, « Secular stagnation risk for EU and Japan », Financial Times, 23 décembre 2013.
(12) Paul Krugman, « Secular stagnation, coalmines, bubbles, and Larry Summers », op. cit.

(13) «Robert Reich : “Les Américains doivent partager la richesse” », L’Express, Paris, 2 décembre 2013.

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