domenica 22 febbraio 2015

Libia: il fallimento di Obama



Libia: il fallimento di Obama
22 febbraio 2015

La comunità internazionale ha contribuito al disastro politico e umanitario in Libia



Di Alan Kuperman. Foreign Affairs (21/02/2015)

Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo

L’obiettivo dell’intervento internazionale autorizzato dalla risoluzione 1973, adottata il 17 marzo 2011 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, era proteggere chi in Libia protestava pacificamente contro il regime di Muammar Gheddafi. Due giorni dopo Stati Uniti e altri paesi NATO imponevano la no-fly zone in Libia lanciando raid contro le forze di Gheddafi. Nell’ottobre dello stesso anno i “ribelli” conquistavano il Paese, uccidendo il “colonnello”. Le reazioni immediate, soprattutto di USA, Francia e Gran Bretagna, sono state di trionfo.

A quasi quattro anni da questa “vittoria” è ormai chiaro che si è trattato di un completo fallimento. Non solo la Libia non ha vissuto alcuna evoluzione democratica, ma ha addirittura subito (e continua a subire) una profonda involuzione come entità statale. Un Paese nelle mani di oltre 140 milizie rivali, combattimenti continui, preoccupante diffusione delle armi, una terra di nessuno in cui circolano e trovano rifugio sicuro gruppi jihadisti vicini ai cartelli del jihad, sia di Al-Qaeda che di Daish (ISIS). Inoltre, l’intervento internazionale in Libia e il caos che ne è risultato, oltre ad aver destabilizzato il Mali, contribuiscono a deteriorare le relazioni internazionali su temi cruciali come il disarmo nucleare, la posizione della Russia all’ONU, la guerra civile in Siria.

Per far prendere agli eventi un corso diverso, sarebbe bastato evitare la guerra (visto che la minaccia per i civili pacifici non era di tale portata), lasciando che il potere passasse da Gheddafi a suo figlio Saif, relativamente liberale e formato all’estero. Invece l’unica ventata di ottimismo del luglio 2012, quando elezioni democratiche hanno portato al governo una coalizione laica, è durata meno di un mese. Il primo ministro Mustafa Abu Shagour è stato deposto e i suoi successori sono stati sette in meno di quattro anni, mentre l’islam politico ha preso il controllo del Congresso Generale Nazionale. Inoltre è fallito ogni di disarmare le milizie, la cui ascesa è stata favorita dalla guerra.

Nell’ottobre 2013 la Libia orientale, dove si trova la maggioranza dei giacimenti petroliferi, proclama il suo governo e il primo ministro Ali Zeidan viene sequestrato al Corinthia Hotel di Tripoli con un presunto mandato di arresto. Intanto a causa della crescente influenza delle forze islamiche, Washington annulla il piano di addestramento delle forze armate libiche. A maggio 2014 il generale Khalifa Haftar lancia un’offensiva contro le milizie islamiche a Bengasi, puntando a conquistare Tripoli. A nulla sono servite le elezioni, peraltro disertate da gran parte dei cittadini che non osa più sperare in un cammino verso la democrazia. Le forze politiche laiche gridano vittoria e formano un nuovo parlamento, presto relegato all’esilio di Tobruk, mentre il parlamento a maggioranza islamica continua a governare a Tripoli.

Quanto ai diritti umani la situazione è peggiorata dalla caduta di Gheddafi, seguita da una serie di omicidi e faide politiche e tribali. Oltre ai presunti sostenitori del colonnello, nel mirino dei ribelli sono finiti anche giornalisti e i circa 30.000 africani che vivevano a Tawargha. Simili violazioni e crimini di guerra continuano ad essere denunciati dall’ONU e da Amnesty International, comprese le torture in carcere.

L’unico settore in funzione di un Paese inesistente è la produzione petrolifera, che malgrado la guerra civile è tornata quasi ai livelli del passato. Petrolio a parte, le condizioni economiche della popolazione sono notevolmente deteriorate.

Alan J. Kuperman insegna scienze politiche alla LBJ e coordina il Progetto di prevenzione della proliferazione del nucleare. Collabora con diversi giornali e riviste.

venerdì 20 febbraio 2015

Il discorso alla Camera dei Deputati di Pietro Calamandrei del 16 marzo 1949 in occasione della discussione sull’ adesione dell’ Italia al Patto Atlantico.






Il discorso alla Camera dei Deputati di Pietro Calamandrei il 16 marzo 1949 in occasione della discussione sull’ adesione dell’ Italia al Patto Atlantico, Nato.

CALAMANDREI.
Chiedo di parlarc per dichiarazione. di voto. ’

PRESIDENTE.
Ne ha facoltà.

CALAMANDREI.

Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, a nome dei socialisti indipendenti dei quali son rimasto l’unico rappresentante nel gruppo di (( Unità socialista 1) (l’ultimo dei Mohicani, direbbe l’onorevole Togliatti) ritengo che sulla soglia di una decisione che ci turba e quasi ci schiaccia col suo peso, e che noi dovremmo prendere ad occhi chiusi senza poter discuterc quel testo che tutti i cittadini meno che i deputati. in quest’ora conoscono, non sia abbastanza chiara, anche se motivata, l’astensione e sia, doveroso un voto esplicito e netto.

Dichiaro quindi serenamente che il mio voto sara contrario. (Vivi applausi all’estrema sinistra). Dopo che un numero così grande di colleghi, mossi tutti dalla stessa ispirazione politica, hanno esposto i motivi del loro voto contrario al patto, permettete a me, per evitare equivoci e confusioni, di esprimere i motivi, in parte diversi, del voto egualmente contrario che sto per dare; il quale soprattutto si distingue dal loro per questo fondamentale motivo: che, mentre essi muovono da una concezione politica che logicamente li porta, nell’urto fra i due blocchi contrapposti, ad opporsi a questa scelta che il patto propone, perché essi hanno già fatto potenzialmente la scelta contraria, io per mio conto sono contrario in questo momento a qualsiasi scelta, e non sono favorevole al Patto Atlantico proprio perché esso forza: l’Italia a . questa scelta preventiva che io ritengo pericolosa e non necessaria in questo momento.

Nè d’altra parte potrei sentirmi solidale con alcune delle dichiarazioni udite finora, le quali, mentre hanno espresso la loro solidarietà col popolo russo, hanno in termini talvolta assai aspri accentuato la loro ostilità contro l’America.
Non posso pensare che gli italiani della. Resistenza abbiano già dimenticato che, se la libertà ci fu restituita perché l‘eroico popolo russo seppe compiere il miracolo di Stalingrado, essa ci fu restituita anche perchè nell’agosto del 1940 il popolo inglese resisti: eroicamente all’uragano di fuoco che infuriava sul cielo di Londra e perché l’America portò nella mischia lo schiacciante peso delle sue armi formidabili. (Approvazioni all’estrema sinistra).

Né possiamo scordare che per molti di noi il ritorno alla libertà fu annunciato dall’apparire lungamente invocato, nel polverone di una strada, del primo brillìo di un carro armato americano. E tuttavia io sono contrario a questo Patto.

E i motivi, schematicamente, sono di tre ordini.

Primo: sotto l’aspetto della politica europea, noi socialisti federalisti pensiamo che un patto militare, anche se difensivo, che trasforma gli Stati europei in satelliti di uno dei blocchi che si fronteggiano, e dà al suolo europeo la funzione di un trinceramento di prima linea per eserciti che stanno in riserva. al di la dell’Atlantico, allontani la nascita di quella Federazione occidentale europea, politicamente e militarmente unita e indipendente, che noi auspichiamo né alleata nè ostile, ma mediatrice tra. i due blocchi opposti, e capace di conciliare in una sua sintesi di democrazia. socialista due esigenze per noi ugualmente preziose e irrinunciabili, quella della libertà democratica’ e parlamentare, e quella della giustizia sociale.

Secondo: sotto l’aspetto della politica interna italiana, noi temiamo che l’adesione data dall’Italia a questo patto, anche se non minaccerà la pace internazionale, costituirà però un ostacolo immediato alla pacificazione interna e al funzionamento normale della nostra democrazia; perchè la contrapposizione militare di due schieramenti che direndono due contrapposte concezioni sociali, darà sempre maggiore asprezza alla lotta interna dei corrispondenti partiti, e sempre più ai dissensi politici darà minacciosi aspetti di guerra civile.

E questo potrà rimettere in discussione le libertà costituzionali che sono scritte per il tempo di pace e non per la vigilia di guerra, per gli avvenimenti politici e non per supposte quinte colonne; e darà sempre più ai provvedimenti di polizia il carattere di repressioni di emergenza,- che si vorranno giustificare con le rigorose esigenze della preparazione militare. Auguriamoci che, mentre la costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo Patto Atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla.

Ma ciò ‘che sopratutto ci angustia sono le conseguenze di carattere militare. Se per tutti gli altri Stati europei la firma del patto sarà accompagnata da rischi ma anche da vantaggi, C’è da temere che solo per l’Italia esso. possa significare pericoli senza corrispettivo. Diventare alleato militare di uno dei due blocchi in conflitto significa assumere fin da ora la posizione di nemico potenziale dell’altro blocco: firmando quel patto con le potenze occidentali noi ci saremo condannati a non poter essere più amici degli. stati orientali,’ dei quali, per l’ipotesi di guerra, saremo fin d’ora predestinati nemici.

E anche se il patto è difensivo, bisogna vedere se sembrerà difensivo a coloro da cui ci apprestiamo a difenderci, e quali saranno le. loro reazioni contro i firmatari e sopratutto contro l’Italia che di tutti i firmatari è il più debole e il più esposto. All’Italia questo patto non solo non dà la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma da anzi ad essa la certezza della immediata invasione, anche se il conflitto sarà provocato. da urti extraeuropei. Se la nostra posizione geografica è tale che anche ad un’Italia, neutrale lascerebbe ,-assai poche probabilità di rimaner fuori dal flagello, sono proprio queste pochissime superstiti probabilità di  salvezza, poniamo anche una su mille, che saranno perdute quando l’Italia si sarà schierata tra i nemici dei possibili invasori e avrà .assunto la tragica missione di un avamposto sperduto destinato a riceverne il primo urto.

Ed anche se l’ammissione al Patto Atlantico può dar l’illusione di aver così conseguito una prima. revisione del, trattato di pace da alcune delle potenze firmatarie, troppo a caro prezzo si pagherà questo vantaggio quando contemporaneamente il nostro riarmo, sospettato anche se non vero, ci porrà, nei confronti delle altre potenze, nella pericolosa condizione di ritenuti ora trasgressori degli obblighi da noi assunti con quel trattato. .Ma più che argomenti logici e politici, qui sono in giuoco motivi morali e religiosi., Questa è una scelta che impegna la nostra anima. I1 problema di cos’cienza che ciascuno di.noi si pone è lo stesso: mentre su di noi si’ addensa l’ombra di un’altra catastrofe, che cosa posso fare io, quale contributo posso portare io, piccolo uomo, atomo eamero, per allontanare dal mio Paese questo flagello? Son certo, voglio esser certo, che tutti gli uomini che seggono in quest’Aula, e primi quelli. che sono al banco del Governo, si . pongono il problema negli stessi. termini: si tratta di faré il bene dell’ltalia e di salvare la pace.

Tutti in questo siamo d’accordo. Ma io temo che, quando si dice che con questo patto militare la guerra si allontana, si ricade in quel tremendo equivoco del vecchio motto illusorio: si vis pacem para .bellum, che gli uomini ciechi continuano a ripetere senza accorgersi , tragiche esperienze che per voler la pace non c’è altra’via che quella di prepararla coi trattati di commercio e di lavoro, che stringono tra gli uomini legami di solidarietà, e che chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra. Mi auguro di tutto cuore che le previsioni che spingono il Governo a questo patto siano esatte e che sbagliate siano le nostre.

Ma queste son,decisioni, in verità, che non si possono prendere con criteri di politica elettorale e di cui si debba render conto alle direzioni dei partiti e dei gruppi.

Son decisioni solenni e gravi, delle quali, ognuno di voi risponde individualmente, per proprio conto ioii solo di fronte al popolo, ma di’fronte alla memoria dei suoi morti, di fronte ai verdetti dell’avvenire e soprattutto di fronte a quella voce segreta, che e in fondo alla nostra coscienza; e che i filosofi chiamano la storia e i’credenti ‘chiamano Dio.

Lo so che qualcuno della maggioranza, prima di decidersi a votare, si è raccolto lungamente in preghiera. Lo ricordo con rispetto e con commozione: .se egli voterà a favore, VUOI dire’ che in tal senso la risposta della sua intima voce avrà messo in pace la sua coscienza.

Ma per pregare non ci si raccoglie soltanto nelle chiese: anche noi, dopo essere stati lungamente raccolti con noi stessi, abbiamo udito in londo alla nostra coscienza una voce che ci mette tranquilli.

E la voce ci ha detto: No.

mercoledì 18 febbraio 2015

L’acqua manca per i palestinesi: le autorità israeliane chiudono i rubinetti







Le forze armate israeliane hanno distrutto 1000 metri di conduttura che serviva a fornire l’acqua alle comunità palestinesi. Interruzione della regolare erogazione di acqua corrente per circa un anno. 
di Jessica Purkiss
La settimana scorsa, nel nord della Valle del Giordano, l’esercito israeliano ha distrutto 1000 metri di conduttura, che serviva a fornire l’acqua alle comunità palestinesi. A Gerusalemme est, decine di migliaia di palestinesi sono stati privati della regolare fornitura d’acqua corrente per circa un anno. A Gaza le infrastrutture idriche sono state decimate e nelle case che ricevono l’acqua, questa non è ancora potabile. L’acqua e coloro che la controllano sono diventati un elemento chiave dell’occupazione israeliana, con i territori occupati, Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, in continua lotta per la vitale risorsa.
Prima della nascita di Israele, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente del Paese, disse nel 1919: “E’ di vitale importanza non solo garantire tutte le risorse idriche che già affluiscono nel Paese, ma anche avere il controllo sulla loro sorgente.” Rafael Eitan, capo dello staff e ministro dell’agricoltura e dell’ambiente, disse alcuni anni dopo: “Israele deve conservare la Cisgiordania per assicurarsi che i rubinetti di Tel Aviv non restino all’asciutto.”
L’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto nel 1998: “Quando parlo dell’importanza della sicurezza di Israele…intendo dire che una casalinga di Tel Aviv può aprire il rubinetto e trovare l’acqua che scorre, e che non sia prosciugata a causa di un’improvvida decisione che ha ceduto il controllo delle nostre falde acquifere alle mani sbagliate.”
Nel 1967, l’anno in cui iniziò l’occupazione, Israele ha messo in atto il piano di cui Weizmann aveva parlato già nel 1919. Tutte le risorse idriche palestinesi sono state dichiarate di proprietà dello Stato di Israele e i palestinesi hanno dovuto richiedere dei permessi per sviluppare le proprie risorse. Dopo circa 30 anni vennero firmati gli Accordi di Oslo, che avrebbero dovuto porre fine alla situazione. Dopo altri 20 anni, è evidente che essi hanno invece formalizzato e legittimato un esistente assetto di discriminazione – assetto ancor oggi in atto.
In Cisgiordania il fiume Giordano, una delle principali sorgenti d’acqua, è stato deviato a monte verso il lago di Kinneret, o Tiberiade, o Mare di Galilea, all’interno di Israele, mentre i palestinesi sono fisicamente impossibilitati ad avere accesso alle sue sponde. I palestinesi possono accedere a un quinto delle falde acquifere montane, che costituiscono l’altra principale sorgente, mentre Israele rompe l’equilibrio, e per di più eccede di oltre il 50%, fino a 1,8 volte la sua quota prevista dagli Accordi di Oslo.
Il muro di separazione, i blocchi stradali, i checkpoints ed altre “misure di sicurezza” israeliane limitano ulteriormente l’accesso delle comunità palestinesi alle risorse idriche e ai luoghi di rifornimento. Al tempo stesso i coloni israeliani che vivono nel medesimo territorio godono di abbondanza d’acqua; il consumo di oltre 500.000 coloni israeliani in Cisgiordania è circa sei volte maggiore di quello di 2,6 milioni di palestinesi nella stessa regione.
Per ovviare all’insufficiente quantità, i palestinesi devono comprare l’acqua dalla compagnia nazionale israeliana “Mekorot” – la stessa acqua che Israele estrae dalle falde acquifere montane e che i palestinesi dovrebbero poter estrarre per il proprio consumo.
Jamal Juma, coordinatore della campagna Stop the Wall (fermate il muro), un’organizzazione che fa parte della rete di gruppi che contestano Mekorot, ha detto: “Il vero problema dell’acqua in Palestina non riguarda la scarsità d’acqua. C’è una quantità annua di precipitazioni piovose a Ramallah maggiore che a Londra e il consumo d’acqua pro capite in Israele è superiore alla media europea. Il problema dell’acqua in Palestina è creato da Israele, attraverso il furto sistematico d’acqua e il divieto d’accesso all’acqua. Mekorot è il principale soggetto esecutore di ciò che noi chiamiamo l’apartheid idrico israeliano.”
Per i residenti di Gerusalemme est la situazione è leggermente diversa. Gerusalemme est è passata sotto la giurisdizione israeliana dopo che Israele ha annesso l’intera città. I palestinesi di Gerusalemme pagano le tasse ad Israele e tecnicamente sono qualificati per rientrare nel servizio sanitario, l’assistenza e i servizi sociali israeliani, inclusa la fornitura d’acqua. Tuttavia i quartieri di Ras Shehada, Ras Khamis, Dahyat A’salam ed il campo profughi di Shuafat soffrono di una grave mancanza d’acqua dal marzo scorso, quando i residenti sono rimasti tre settimane senza acqua. Sono stati costretti a comprare bottiglie d’acqua a caro prezzo, e a limitare il loro consumo utilizzando pompe elettriche e container industriali.
A Gaza le infrastrutture idriche sono a pezzi in conseguenza delle continue guerre e blocchi che hanno impedito le riparazioni e la manutenzione. Secondo un rapporto dell’Autorità Palestinese per l’Acqua, alla fine degli ultimi bombardamenti della scorsa estate sono risultati completamente o parzialmente distrutti 26 pozzi e sono stati danneggiati 46 chilometri della rete di approvvigionamento idrico. La rete di distribuzione dell’acqua ha subito danni stimati in 34,4 milioni di dollari.

Il trattamento delle acque reflue è un altro annoso problema a Gaza. Molti residenti non sono collegati al sistema fognario e le acque di scarico domestico si riversano nei pozzi neri, contaminando le falde acquifere nel terreno. Le interruzioni della corrente elettrica e i danni al servizio di trattamento delle acque reflue causati dall’operazione “Piombo fuso”, l’offensiva militare israeliana del 2008-2009, hanno peggiorato la situazione – si parla di 90 milioni di litri di liquami non trattati che si riversano quotidianamente nel Mediterraneo.
Prima dell’ultima offensiva, il 97% dei residenti di Gaza erano collegati ad un sistema idrico pubblico. Tuttavia, il 90% dell’acqua non era potabile e quindi i residenti erano costretti a comprare acqua prodotta da aziende governative o private, o aziende gestite da enti di beneficenza. Il sistema idrico pubblico comporta che le case possano avere acqua corrente, tuttavia le interruzioni di elettricità e di carburante impediscono che l’acqua sia erogata dal sistema.
L’accesso all’acqua è una risorsa molto politicizzata e strumentalizzata in Palestina. Dato che le comunità palestinesi sono in sofferenza – sia per la distruzione dei pozzi, sia a causa dell’acqua che non esce dai rubinetti, sia per le acque nere che scorrono nelle strade – è evidente che, in Palestina, l’acqua non è un diritto.  
Traduzione di BDS Italia

giovedì 12 febbraio 2015

Ero “parte di una organizzazione terroristica”. Intervista all'ex pilota israeliano Yonatan Shapira

Yonatan Shapira : Ero “parte di una organizzazione terroristica”
mercoledì 11 febbraio 2015
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Israel’s policy of “targeted assassinations” prompted Yonatan Shapira to ask why he was serving in its military.

electronicintifada.net

Sintesi personale

 

 Yonatan Shapira è nato in una base militare israeliana . Suo  padre partecipò alla  guerra di ottobre del 1973. Trent’anni dopo, dodici dei quali utilizzati come pilota dell’aeronautica, Shapira nel  2003 ha scritto una lettera , impegnandosi a non sorvolare nè la Cisgiordania nè la Striscia di Gaza .

Shapira è tra i pochi israeliani che supporta il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele. Inoltre è statoattaccato dai militari israeliani per aver tentato di  rompere l’assedio di Gaza.

Ryan Rodrick Beiler: Cosa ha significato per te   crescere in una famiglia di militari?

Yonatan Shapira: L’educazione che ho ricevuto era di pace,  di uguaglianza , di libertà e impregnata di valori socialisti : la cura per l’altro, la cura per i poveri,  ma al tempo stesso di negligenza  verso la Palestina. Mentre a scuola imparavo tutto ciò, l’esercito israeliano era impegnato nell’occupazione , negli espropri di terre, negli insediamenti , nei  massacri, nella deportazione di attivisti palestinesi.

Ma non sapevo queste cose. Ho veramente creduto di  difendere il mio paese. Volevo essere come mio padre. Volevo essere un pilota. Sono diventato un pilota di elicottero e ho partecipato a missioni di soccorso e di trasporto commando.

RRB: Quando hai iniziato a mettere in discussione le azioni dei militari?

YS: Ho capito che qualcosa era marcio quando il governo israeliano ha iniziato quello che è stato chiamato il “policy assassinio” nel 2001-2003. La resistenza palestinese non è riuscita a portare la liberazione e i più estremi atteggiamenti hanno avuto luogo, come ad esempio attentati suicidi e altre forme di lotta armata. Il governo ha pensato di assassinare tutti quelli che avevano a che  fare con la resistenza armata.

I piloti furono inviati con missili a sparare sulle macchine di queste persone. In principio  venivano colpiti  fuori dalle città, poi nelle città  e infine  anche  nel bel mezzo del mercato o nella loro casa di notte con tutta la famiglia intorno.

Nel luglio 2002 la casa di Salah Shehadeh, capo del braccio armato di Hamas a Gaza, è stata bombardata nel bel mezzo della notte con un F-16 . Una bomba da una tonnellata uccise una quindicina di persone, la maggior parte dei quali bambini  e circa 150 rimasero feriti. Per me era  un attacco terroristico  e io facevo  parte di una organizzazione terroristica.

Il comandante della forza aerea precisò che tutto  era stato fatto alla perfezione  e che i piloti potevano dormire sonni tranquilli:  quando qualcuno dice che si può dormire bene la notte, forse è il momento di svegliarsi e cominciare a pensare. Io  e alcuni amici,  abbiamo deciso di fare qualcosa. E ‘stato come un parto per noi. Abbiamo finito un capitolo della nostra vita e  siamo diventati  pacifisti, attivisti per i diritti umani, attivisti per la libertà. Agli occhi di molti siamo diventati traditori. Nel 1982 ci sono stati molti che  hanno rifiutato di partecipare alla guerra in Libano e sono stati inviati in prigione. Un altro gruppo, nel 2002 era  disposto  ad andare in prigione invece di fare servizio di riserva in Cisgiordania e a Gaza.

Più di recente 43 soldati della unità chiamata 8200 hanno dichiarato  di non essere  disposti a partecipare a queste azioni criminali.

Ci vuole un sacco di coraggio per fare una cosa del genere quando si ha diciotto anni. Non ho avuto questo coraggio. Non ho avuto queste informazioni. Mi ci sono voluti dodici anni nell’ aviazione per capire, ma era necessario fare un altro passo: diventare parte della soluzione . Abbiamo pensato di incontrare gli ex-combattenti palestinesi e di trovare un terreno comune. Nel 2005-2006 abbiamo creato  un’organizzazione chiamata Combattenti per la Pace. E ‘stata una delle esperienze più significative che abbia mai avuto in vita mia;  l’ entrare in una stanza con persone che prima  avrebbero potuto ucciderti  e  tu avresti potuto uccidere. Improvvisamente ci si siede in una stanza e si parla della tua storia, della tua famiglia e degli  amici. Quando si lascia la stanza sei una persona diversa. Il “noi” e il “loro”  non possono esistere più.Ci siamo resi conto che siamo in realtà molto più simili   che diversi.E ‘stata una cosa molto importante per noi, per i palestinesi e per gli israeliani. Più tardi, tuttavia, mi sono reso conto che il quadro era problematico perché non è un conflitto di parti uguali. Non è che ci sono due paesi che lottano tra di loro. E’ una lotta coloniale tra  colonizzatore e colonizzato.

RRB: Qual è il tuo ruolo di attivista israeliano, quando le due parti non sono uguali?

YS:   diventare un refuser, un obiettore di coscienza è un grande passo. Poi ti rendi conto che non si tratta di te. La mia vita  è bella rispetto alle persone che vengono massacrate a Gaza. Il passo successivo per me  è  stato rendersi conto che abbiamo bisogno di unire la  realtà alla lotta per la liberazione.

RRB: il  dialogo può  ancora essere una forza di liberazione?

YS: Sto cercando di non lasciar andare  via questo strumento, perché sento che si tratta di uno strumento che crea sempre più attivisti. E abbiamo bisogno di più attivisti, ma dobbiamo fare in modo che il contesto evidenzi  lo squilibrio di potere e la realtà sul terreno. Io davvero credo che a questo punto il dialogo potrebbe essere uno strumento legittimo nel contesto Israeliano-Palestinese solo se vi è un programma radicale sovversivo che viene concordato da tutti .

Se  bambini israeliani  entrano nell’esercito e i bambini palestinesi in carcere per aver partecipato a una manifestazione, non hai fatto nulla, hai solo  aiutato, soprattutto gli israeliani, a sentirsi un po ‘meglio, così come i donatori europei o americani.

Ora stiamo toccando la questione della normalizzazione . Stiamo cercando di collaborare con i nostri partner palestinesi ( entro i confini del 1948 ) per non diventare strumenti per il mainstream israeliano nel sentirsi bene con l’occupazione. E ‘un processo delicato, ma abbiamo un ordine del giorno chiaro. Cerchiamo di alzare la voce per fare in modo che le questioni fondamentali di ingiustizia, come la  Nakba , siano presenti e  ciò ha un effetto sorprendente.

RRB: Lei parla di normalizzazione, ma c’è chi dice che ogni collaborazione con gli israeliani – anche  con gli attivisti , è una forma di normalizzazione.

YS: Alcuni palestinesi non vogliono avere alcun contatto con gli israeliani perché tutto è normalizzazione, quindi non si può lottare insieme. Okay, posso vivere con questo. E posso capire da dove proviene questo pensiero. Riesco a vedere il dolore. Riesco a vedere la rabbia.

Vi è anche una base filosofica che io rispetto. È possibile leggere Steve Biko e Frantz Fanon: i bianchi non potranno mai capire che cosa i neri stanno attraversando e ogni partecipazione alla lotta è dovuta al tentativo in parte di alleviare i loro sentimenti di colpa e , così, danneggiarla.

Queste sono preoccupazioni valide. Tutto ha i  pro e  i contro e vedo i pro della lotta unitaria.

RRB: Qual è il tuo rapporto con il movimento BDS?

YS: Io sono un membro di Boicottaggio from Within – costituito da persone provenienti dalla società israeliana che sostiene il boicottaggio come gli  attivisti bianchi in Sud Africa hanno sostenuto il boicottaggio contro l’apartheid . Non è un grande gruppo, ma questo è il seme della futura convivenza. Ora è meglio parlare di co-resistenza nel lottare insieme. Facciamo resistenza alle politiche di apartheid. Facciamo resistenza alla politica del razzismo insieme e allora possiamo coesistere.

Guardo le linee guida del movimento BDS  e mi sento totalmente a mio agio. Hanno tre obiettivi principali:  porre fine all’apartheid per i palestinesi entro i confini del 1948, terminare il controllo su Gaza e la Cisgiordania  e  promuovere il diritto al ritorno dei milioni diprofughi palestinesi in tutto il mondo.

  L ‘occupazione è un  male, dovrebbe finire. Non devi essere un radicale israeliano per sostenerlo, ma il diritto al ritorno tocca la nozione stessa di stato ebraico. Anche per un israeliano molto progressista è qualcosa di duro, si  deve passare attraverso uno sforzo emotivo per rendersi conto che avere la pace e la libertà con qualcuno vale più di ogni altra cosa .

RRB: Ci sono segnali di speranza?

YS: Anche se faccio  cose come  partecipare alla flottiglia per Gaza e pagare ciò  con  un paio di giorni di carcere, è sorprendente quante volte in strada incontro qualcuno che mi abbraccia e mi  dice  grazie.Noi rappresentiamo  ciò che la gente pensa, anche se non è radicalizzato.  Quindi non  siamo  solo un piccolo gruppo di persone folli.

  Se si va nei campus oggi degli Stati Uniti l’atmosfera è completamente diversa rispetto a dieci anni fa. Molti degli attivisti dei comitati Palestina sono studenti ebrei. I loro genitori   sostengono l’ AIPAC e le lobby ebraiche di destra, ma la seconda generazione è con i palestinesi  e  lavorano insieme fianco a fianco come Jewish Voice for PeaceEssi rappresentano il futuro e la nuova generazione di ebrei negli Stati Uniti.

Il movimento BDS non aspetta i politici. Milioni di persone in Europa, negli Stati Uniti, nel resto del mondo ci sostengono. Forse rispetto agli ebrei israeliani  sono ancora una minoranza, ma nel complesso, in tutto il mondo, vi è un crescente sostegno. Il boicottaggio  non è contro gli ebrei , non è contro gli israeliani. E’ per il futuro dell’esistenza reciproca in questo pezzo di terra. E per la questione di uno stato o di due stati ,c’è già uno stato. L’unica domanda è se resterà un apartheid Stato o  diventerà  un luogo uguale per tutti.

Ryan Rodrick Beiler è un fotoreporter freelance e membro del collettivo Activestills. Ha vissuto in Palestina 2010-2014. Ora vive a Oslo, in Norvegia.