mercoledì 20 gennaio 2016

STRELA ERA MORTO E VEDEVA LA LUNA




(A destra Gastone Cottino)


di Gastone Cottino (1)


DIEGO SIRAGUSA
Strela era morto e vedeva la luna,  
prefazione di Antonio Pizzinato, 
Zambon editore, 2015.


La storia di Strela é e non è, malgrado la si definisca tale, un romanzo nel senso proprio del termine E’ la storia reale e drammatica, drammaticissima nei suoi risvolti conclusivi, di Giovanni Benetti, ribattezzato Strela per la stella rossa che da partigiano porta sul petto: arricchita  e letterariamente reimmaginata e rivissuta, al calor bianco dei suoi eventi, incontri, pensieri,  parole, dalla intensa ricostruzione di Diego Siragusa.
E’ la storia di un rude, forte bracciante della campagne attorno a Carpi, estroverso come usa in Emilia e anche un po’ spaccone: che, nel 1942, ha già alle spalle, come tanti suoi coetanei, le aspre esperienze di fatica, di soprusi, e di fame, della famiglie contadine della bassa modenese, e che tuttavia a quella pur ingrata terra e al piccolo mondo di amici e di affetti che in essa ha le sue radici è visceralmente abbarbicato. Motivo per cui tanto più angosciosi saranno, dinanzi alla guerra, alla chiamata alle armi e, dopo l’otto settembre, alla reviviscenza vendicativa del fascismo e ai suoi truci bandi di reclutamento, il trauma e i rovelli di scelte destinate a strapparlo da essa e da quel suo piccolo mondo.
Il  “romanzo” di Strela é perciò anche, attraverso la sua figura e le sue vicende, uno spaccato di vita italiana, di una società contadina già orgogliosamente ribelle e in prima linea negli anni venti del novecento nelle lotte contro gli agrari, e mai del tutto domata da due decenni di repressione e “normalizzazione” fascista. Nella quale la lenta maturazione, nei più giovani, cresciuti dopo quelle lotte, di una coscienza di classe e antifascista avviene quasi inconsciamente, come respirata dalla testimonianza dei più anziani e dagli echi non spenti degli antichi conflitti.
In Strela si ritrova così, con i suoi  umori, i suoi dubbi, i suoi travagli, le sue esitazioni e l’ancora irrisolto dilemma tra spirito di rivolta e indugi a rompere i legami e le abitudini di una rassicurante quotidianità, la vicenda umana, etica, civile di una generazione.
Egli non è, per vocazione, un eroe. Tenderebbe anzi a sottrarsi a tutto ciò che sa di guerra e a ciò che essa comporta. Questo suo stato d’animo è ben fotografato dall’autore in un immaginario inontro, di lui soldato in Francia con le nostre truppe di occupazione, con una fanciulla impegnata nella cospirazione antifascista: alle cui provocazioni risponde di non sentirsi “nè carne nè pesce”.
Ancora dopo l’otto settembre sua principale  aspirazione é di ritornare a casa, di ritrovare il suo paese, le sue quattro mura. Il cui richiamo rimane sempre, nel profondo, irresistibile: anche quando,   nei primi mesi del 1944, soffertamente indotto dalla minaccia di rappresaglie contro la sua famiglia a presentarsi ai distretti della repubblica di Salò e dislocato con la divisione Monterosa in Liguria, compie il passo decisivo; e, dopo aver disertato unendosi ai partigiani garibaldini operanti sui contrafforti liguri al comando di “Virgola”, nella primavera-estate e primo autunno si batte  coraggiosamente al loro fianco, senza sottrarsi ad alcun compito e missione, anche a quelle a più alto rischio.
Allorchè infatti, nel terribile novembre-dicembre del 1944, sotto la pressione congiunta di un nemico che ha rinserrato i ranghi,  tanto più ferocemente quanto più si approssima  l’ora della resa dei conti, e di un infausto proclama che invita i partigiani a sospendere le operazioni e ad occultarsi in attesa di tempi migliori, la Resistenza attraversa una grave crisi, molti abbandonano e le formazioni si assottigliano, la nostalgia si fa per Strela di nuovo acuta e struggente. Chiede di poter lasciare il reparto e, ottenutone  il consenso, intraprende  con alcuni suoi compagni  una lunga marcia verso l’Emilia.
Lunga, dalle mille insidie e questa volta, per tutti, dall’esito infausto.  Giunti, dopo avventurose peripezie, a pochi chilometri da Capriglio, non lontano dalla meta, i “fuggitivi” cadono infatti nelle mani dei nazifascisti. Dopo essere stato gettato  in una cantina assieme a due di essi, uno dei quali orrendamente ferito, Strela viene selvaggiamente torturato, nel tentativo di estorcergli sia i nomi delle donne e degli uomini che gli hanno dato cibo e riparo, sia informazioni utili a individuare e localizzare i  partigiani con i quali ha combattuto.
Ma nè le sevizie, crudelissime, nè le umiliazioni cui lo sottopone la soldataglia fascista, riescono a piegarlo. Pur  sapendo che l’ultimo prezzo da pagare sarà la condanna a morte, Strela oppone a esse il più ostinato silenzio.
Nel momento della prova estrema egli torna ad essere partigiano. Trova ancora la forza morale e le energie fisiche per resistere alla raffica che gli ha maciullato il braccio ma non lo ha ucciso, e, liberatosi dallo strato di terra sotto cui è sepolto e dai cadaveri che l’avviluppano,  per risollevarsi e percorrere, in uno  slancio quasi sovrumano, “lui morto che vedeva la luna”, i due interminabili chilometri che lo separano dalla sua unica àncora di salvezza, rappresentata dal convento missionario di Capriglio,
Ha ragione Antonio Pizzinato ad affermare che l’appassionata rievocazione che Diego Siragusa fa di questa straordinaria vicenda merita di essere conosciuta, soprattutto dai giovani. E con essa quella dei protagonisti “minori”, degli ignoti alla grande storia che pure furono determinanti per la sopravvivenza e il successo della Resistenza:  
-      dei macchinisti che rallentano le locomotive per consentire a chi tenta di sottrarsi alle retate tedesche di saltare sui treni; della gente comune che apre le porte ai braccati; dei frati  che fanno del convento un luogo di accoglienza e copertura; dei medici  che erigono una cortina protettiva sui partigiani  ricoverati nel loro ospedale; delle donne, l’Ormiste e l’Anna,   che trainano per chilometri e chilometri il carretto su cui è nascosto il ferito sfidando posti di blocco e mitragliamenti.
Ma anche, aggiungo, il suo tormentato e allucinante epilogo: il dopo, allorchè la falsa versione dovuta diffondere per meglio proteggerlo dai fascisti all’epoca del rocambolesco ricovero nell’Ospedale maggiore di Parma – essere stato egli catturato e “giustiziato” non dai nazisti ma dai partigiani – si ritorce su Giovanni Benetti. E, rovesciando perversamente il corso degli eventi, stende su di lui le nere ombre del sospetto, quasi che il passato partigiano non fosse esistito  e le torture, la dolorosa amputazione dell’avambraccio fossero i segni del tradimento. Sicchè Benetti vede ergersi  dinanzi a sè un muro di ostilità, diffidenza, emarginazione, è respinto dai compagni di partito e dagli stessi amici, ed è costretto ad iniziare una nuova amara battaglia per ristabilire la verità e la giustizia, per recuperare la sua dignità di partigiano e di cittadino: peraltro sempre conservando intatta sino all’ultimo giorno, anzi battendosi per riaffermarla – anche questo è un tratto avvincente del personaggio -, la fedeltà ai suoi ideali di militante comunista e di combattente antifascista.

(Ex professore di Diritto Commerciale, Preside della Facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino e, ora, Accademico dei Lincei)

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