(A destra Gastone Cottino)
di Gastone Cottino (1)
DIEGO SIRAGUSA
Strela
era morto e vedeva la luna,
prefazione di Antonio Pizzinato,
Zambon editore, 2015.
La storia di Strela é e non è,
malgrado la si definisca tale, un romanzo nel senso proprio del termine E’ la
storia reale e drammatica, drammaticissima nei suoi risvolti conclusivi, di
Giovanni Benetti, ribattezzato Strela per la stella rossa che da partigiano
porta sul petto: arricchita e letterariamente
reimmaginata e rivissuta, al calor bianco dei suoi eventi, incontri,
pensieri, parole, dalla intensa
ricostruzione di Diego Siragusa.
E’ la storia di un rude, forte
bracciante della campagne attorno a Carpi, estroverso come usa in Emilia e
anche un po’ spaccone: che, nel 1942, ha già alle spalle, come tanti suoi
coetanei, le aspre esperienze di fatica, di soprusi, e di fame, della famiglie
contadine della bassa modenese, e che tuttavia a quella pur ingrata terra e al
piccolo mondo di amici e di affetti che in essa ha le sue radici è visceralmente
abbarbicato. Motivo per cui tanto più angosciosi saranno, dinanzi alla guerra,
alla chiamata alle armi e, dopo l’otto settembre, alla reviviscenza vendicativa
del fascismo e ai suoi truci bandi di reclutamento, il trauma e i rovelli di
scelte destinate a strapparlo da essa e da quel suo piccolo mondo.
Il “romanzo” di Strela é perciò anche, attraverso
la sua figura e le sue vicende, uno spaccato di vita italiana, di una società
contadina già orgogliosamente ribelle e in prima linea negli anni venti del
novecento nelle lotte contro gli agrari, e mai del tutto domata da due decenni
di repressione e “normalizzazione” fascista. Nella quale la lenta maturazione,
nei più giovani, cresciuti dopo quelle lotte, di una coscienza di classe e
antifascista avviene quasi inconsciamente, come respirata dalla testimonianza
dei più anziani e dagli echi non spenti degli antichi conflitti.
In Strela si ritrova così, con i
suoi umori, i suoi dubbi, i suoi
travagli, le sue esitazioni e l’ancora irrisolto dilemma tra spirito di rivolta
e indugi a rompere i legami e le abitudini di una rassicurante quotidianità, la
vicenda umana, etica, civile di una generazione.
Egli non è, per vocazione, un
eroe. Tenderebbe anzi a sottrarsi a tutto ciò che sa di guerra e a ciò che essa
comporta. Questo suo stato d’animo è ben fotografato dall’autore in un
immaginario inontro, di lui soldato in Francia con le nostre truppe di
occupazione, con una fanciulla impegnata nella cospirazione antifascista: alle
cui provocazioni risponde di non sentirsi “nè carne nè pesce”.
Ancora dopo l’otto settembre sua
principale aspirazione é di ritornare a
casa, di ritrovare il suo paese, le sue quattro mura. Il cui richiamo rimane
sempre, nel profondo, irresistibile: anche quando, nei primi mesi del 1944, soffertamente
indotto dalla minaccia di rappresaglie contro la sua famiglia a presentarsi ai
distretti della repubblica di Salò e dislocato con la divisione Monterosa in
Liguria, compie il passo decisivo; e, dopo aver disertato unendosi ai
partigiani garibaldini operanti sui contrafforti liguri al comando di “Virgola”,
nella primavera-estate e primo autunno si batte
coraggiosamente al loro fianco, senza sottrarsi ad alcun compito e
missione, anche a quelle a più alto rischio.
Allorchè infatti, nel terribile
novembre-dicembre del 1944, sotto la pressione congiunta di un nemico che ha
rinserrato i ranghi, tanto più
ferocemente quanto più si approssima l’ora della resa dei conti, e di un infausto
proclama che invita i partigiani a sospendere le operazioni e ad occultarsi in
attesa di tempi migliori, la Resistenza attraversa una grave crisi, molti
abbandonano e le formazioni si assottigliano, la nostalgia si fa per Strela di
nuovo acuta e struggente. Chiede di poter lasciare il reparto e, ottenutone il consenso, intraprende con alcuni suoi compagni una lunga marcia verso l’Emilia.
Lunga, dalle mille insidie e
questa volta, per tutti, dall’esito infausto. Giunti, dopo avventurose peripezie, a pochi
chilometri da Capriglio, non lontano dalla meta, i “fuggitivi” cadono infatti
nelle mani dei nazifascisti. Dopo essere stato gettato in una cantina assieme a due di essi, uno dei
quali orrendamente ferito, Strela viene selvaggiamente torturato, nel tentativo
di estorcergli sia i nomi delle donne e degli uomini che gli hanno dato cibo e
riparo, sia informazioni utili a individuare e localizzare i partigiani con i quali ha combattuto.
Ma nè le sevizie, crudelissime,
nè le umiliazioni cui lo sottopone la soldataglia fascista, riescono a piegarlo.
Pur sapendo che l’ultimo prezzo da
pagare sarà la condanna a morte, Strela oppone a esse il più ostinato silenzio.
Nel momento della prova estrema egli
torna ad essere partigiano. Trova ancora la forza morale e le energie fisiche per
resistere alla raffica che gli ha maciullato il braccio ma non lo ha ucciso, e,
liberatosi dallo strato di terra sotto cui è sepolto e dai cadaveri che
l’avviluppano, per risollevarsi e percorrere,
in uno slancio quasi sovrumano, “lui morto
che vedeva la luna”, i due interminabili chilometri che lo separano dalla sua
unica àncora di salvezza, rappresentata dal convento missionario di Capriglio,
Ha ragione Antonio Pizzinato ad
affermare che l’appassionata rievocazione che Diego Siragusa fa di questa
straordinaria vicenda merita di essere conosciuta, soprattutto dai giovani. E
con essa quella dei protagonisti “minori”, degli ignoti alla grande storia che
pure furono determinanti per la sopravvivenza e il successo della Resistenza:
- dei
macchinisti che rallentano le locomotive per consentire a chi tenta di
sottrarsi alle retate tedesche di saltare sui treni; della gente comune che
apre le porte ai braccati; dei frati che
fanno del convento un luogo di accoglienza e copertura; dei medici che erigono una cortina protettiva sui
partigiani ricoverati nel loro ospedale;
delle donne, l’Ormiste e l’Anna, che
trainano per chilometri e chilometri il carretto su cui è nascosto il ferito
sfidando posti di blocco e mitragliamenti.
Ma anche,
aggiungo, il suo tormentato e allucinante epilogo: il dopo, allorchè la falsa
versione dovuta diffondere per meglio proteggerlo dai fascisti all’epoca del
rocambolesco ricovero nell’Ospedale maggiore di Parma – essere stato egli
catturato e “giustiziato” non dai nazisti ma dai partigiani – si ritorce su
Giovanni Benetti. E, rovesciando perversamente il corso degli eventi, stende su
di lui le nere ombre del sospetto, quasi che il passato partigiano non fosse
esistito e le torture, la dolorosa
amputazione dell’avambraccio fossero i segni del tradimento. Sicchè Benetti
vede ergersi dinanzi a sè un muro di
ostilità, diffidenza, emarginazione, è respinto dai compagni di partito e dagli
stessi amici, ed è costretto ad iniziare una nuova amara battaglia per
ristabilire la verità e la giustizia, per recuperare la sua dignità di
partigiano e di cittadino: peraltro sempre conservando intatta sino all’ultimo
giorno, anzi battendosi per riaffermarla – anche questo è un tratto avvincente
del personaggio -, la fedeltà ai suoi ideali di militante comunista e di
combattente antifascista.
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