mercoledì 31 maggio 2017

Washington: “Attacco ad Hezbollah opzione possibile”



di Stefano Mauro

31 mag 2017

Negli ultimi due anni sono diventati sempre più insistenti le voci relative al prossimo scontro militare tra Israele ed il “Partito di Dio” libanese. L’amministrazione Trump sembra aver dato nuovo impulso alla politica aggressiva del governo Netanyahu mostrandosi favorevole ad un possibile attacco

Roma, 31 maggio 2017, Nena News – Maggio rappresenta un mese fondamentale per il Libano. Il 25 maggio 2000, infatti, la Resistenza libanese riuscì a compiere quello che non era mai avvenuto fino ad allora: costrinse l’esercito israeliano, uno tra i più temuti e potenti al mondo, ad abbandonare il Libano dopo 18 anni di occupazione, dal 1982.

Da allora Tel Aviv ha provato in qualsiasi maniera a contrastare l’ascesa di Hezbollah. Direttamente, attraverso i 33 giorni di guerra nel 2006 che, però, non portarono all’obiettivo prefissato dalle forze ebraiche (la distruzione del “partito di Dio”), ma, al contrario, misero in evidenza le difficoltà di Tzahal (esercito Israeliano) con una serie di sconfitte cocenti.

Oppure indirettamente: sostenendo l’Arabia Saudita e le milizie jihadiste filo-saudite create, in molti casi, per contrastare l’asse sciita rappresentato nella regione da Siria, Iraq, Iran e Libano. Risultati altrettanto deficitari anche per quanto riguarda il sostegno al pupillo saudita nel paese dei cedri, Saad Hariri, visto che, dopo una serie di sconfitte politiche, lo stesso leader sunnita del partito “Futuro” ha dovuto percorrere la via della riconciliazione e diventare primo ministro di un governo di unità nazionale con un presidente della repubblica, il cristiano maronita Michel Aoun, candidato di Hezbollah.

Negli ultimi due anni sono diventati sempre più insistenti le analisi e le voci relative al prossimo scontro militare tra Israele ed Hezbollah. In un suo editoriale Haaretz, quotidiano israeliano, ha posto il segno indicando che non ci si chiede più se ci sarà un conflitto, ma quando questo avverrà. L’amministrazione Trump sembra, da questo punto di vista, aver dato nuovo impulso alla politica aggressiva del governo Netanyahu. Secondo il quotidiano inglese Financial Times, “Washington avrebbe dato il via libera ad un’azione militare di Tel Aviv contro Hezbollah, anche con una possibile invasione del Libano”.

La principale motivazione dell’autore, David Gardner, sarebbe quella legata all’impossibilità degli USA, di Israele e dell’Arabia Saudita di poter attaccare direttamente l’Iran, principale nemico, e di ripiegare sulla distruzione di Hezbollah, emanazione iraniana nella regione. “Malgrado l’ostilità contro l’Iran – ha aggiunto il quotidiano – l’amministrazione americana ha valutato che in questo periodo è più strategico preservare il dossier nucleare e puntare a contrastare Teheran attraverso un attacco ad Hezbollah, suo principale alleato”.

La conferma di questa affermazione sta nei fatti di queste settimane. I primi del mese   il presidente americano ha convocato a Washington alcuni rappresentanti dei paesi della regione mediorientale (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein, Giordania) oltre a rappresentanti europei (Francia, Gran Bretagna) per migliorare una possibile strategia di contrasto contro Hezbollah. Le prime mosse sono legate a due possibili azioni che stanno avvenendo in questo periodo. La prima riguarda l’operazione militare “Eager Lion” con una possibile invasione di forze giordane, supportate da americani e inglesi, nella zona di Al Tanf, nel sud della Siria, per posizionarsi proprio vicino alle milizie sciite libanesi, numerose in tutta l’area.



La seconda riguarderebbe una serie di sanzioni economiche e di controlli sulle banche, libanesi e non, al fine di diminuire l’afflusso finanziario diretto verso il “partito di Dio”. Un’ulteriore dimostrazione sarebbe, infine, il discorso conclusivo di Trump, durante il summit di Riyadh, contro Hezbollah. Il movimento sciita è stato dipinto come uno dei “principali mali della regione”, alla stessa maniera di Daesh o al Qa’ida, e non come un partito, eletto legittimamente dai libanesi, che guida il paese dei cedri, all’interno di un governo di unità nazionale, o di una forza militare che sta combattendo contro il terrorismo jihadista.

I segnali di un possibile inasprimento della situazione sarebbero confermati anche dalle manovre e dal cambio di strategia da parte dello stesso movimento sciita libanese. Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, le milizie di Hezbollah starebbero ripiegando dalla regione orientale del Monte Libano, considerata ormai libera dalla minaccia jihadista di Al Nusra e Daesh, verso le posizioni di confine del sud del paese. Stesse manovre riguarderebbero anche il territorio siriano. L’impegno di Hezbollah resta ancora consistente, in termini di truppe a sostegno di Damasco, ma il loro dislocamento e utilizzo avverrebbe in punti strategici “caldi” e non in tutto il territorio siriano. Un rientro di forze legato anche al ricongiungimento delle milizie libanesi con l’altra forza emergente di questi anni: le truppe irachene di Harakat Hizbollah Al Nujaba (considerate il ramo iracheno di Hezbollah).

Nella recente apparizione televisiva, legata alla commemorazione della liberazione da Israele, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affermato: “Noi siamo pronti ad un conflitto che se ci sarà avverrà anche in territorio israeliano”. Tutti i rapporti dell’intelligence di Tel Aviv sostengono che il partito sciita non sia più quello del 2006. “Hezbollah è diventato una potenza regionale – riporta il quotidiano Yediot Aharonot – con una capacità di oltre 100mila truppe, tra miliziani effettivi e riservisti, e un potenziale di quasi 140mila missili”. La principale preoccupazione dei militari israeliani sarebbe legata alla capacità, grazie all’esperienza di questi anni nell’arena siriana, di poter affrontare qualsiasi nemico visto che “le sue milizie come armamenti, efficacia e preparazione sono equiparabili ad un vero e proprio esercito”.

Alla stessa maniera lo stato maggiore di Tel Aviv, per preparare il terreno nell’opinione pubblica nazionale e internazionale, ha precisato come “la presenza dei combattenti nelle zone e nei villaggi non permetterà ad Israele di eliminare questa minaccia se non attraverso forti danni alle infrastrutture e numerose vittime tra i civili (come nel 2006 o a Gaza, ndr).

In un suo editoriale, relativo proprio al prossimo conflitto contro Hezbollah, Abdel Barri Atwan, direttore del quotidiano Ray Al Youm, spiega come le guerre che ci sono nell’area attualmente avvengono per “rinforzare la sicurezza e la stabilità d’Israele, pur di mantenere il suo potere militare e la sua supremazia nella regione”. Un possibile conflitto, secondo numerosi analisti, sarebbe dagli esiti incerti, ma avrebbe delle ripercussioni terribili per tutta un’area già martoriata da anni di conflitti. 


Nena News

martedì 30 maggio 2017

CAMP DERBY: NO AI TRENI DELLA MORTE



Venerdì 2 giugno ore 10:30 davanti all'ingresso di Camp Darby

per dire NO AI TRENI DELLA MORTE

https://www.facebook.com/event s/133009303924862/


SI VUOLE COSTRUIRE UNA NUOVA LINEA FERROVIARIA PER POTENZIARE IL COLLEGAMENTO TRA LA BASE USA DI CAMP DARBY E IL PORTO DI LIVORNO, TRASPORTANDO ARMI ED ESPLOSIVI ATTRAVERSO UN TERRITORIO DENSAMENTE POPOLATO
Il progetto, presentato dalla Commissione mista costruzioni italo-statunitense, è stato approvato il 26 aprile dal Consiglio direttivo dell’Ente Parco Regionale Migliarino San Rossore Massaciuccoli.
Esso prevede la realizzazione di una nuova linea ferroviaria che dalla Stazione di Tombolo porta ad un grande terminal all’interno di Camp Darby. La nuova linea, integrata da un ponte girevole sul Canale dei navicelli, permette il transito di due treni al giorno.
Dopo l’allargamento della darsena interna alla base e i lavori per accrescere la navigabilità del Canale dei navicelli e dello Scolmatore, si vuole ora potenziare anche il collegamento ferroviario tra la base Usa e il porto di Livorno.
La spesa per la sua realizzazione è a carico delle Ferrovie e degli Enti locali, ossia di noi contribuenti. Sulle nostre spalle già grava una spesa militare che supera in media i 70 milioni di euro al giorno, pagati con denaro pubblico, destinata a crescere a circa 100 milioni a scapito delle spese sociali per il lavoro, la sanità e la scuola.
Dobbiamo cioè pagare per realizzare un collegamento ferroviario che permette di far transitare attraverso il nostro territorio maggiori carichi di armi Usa. Esse vengono inviate soprattutto in Medioriente – per le guerre in Siria, Iraq e Yemen – per mezzo di grandi navi statunitensi che fanno scalo ogni mese a Livorno. 
Come conseguenza, il nostro territorio verrebbe ulteriormente militarizzato. Crescerebbero allo stesso tempo i rischi per i suoi abitanti, dovuti al transito di treni carichi di armi ed esplosivi in zone densamente popolate. 
UN PROGETTO DI TALE PORTATA NON PUO’ PASSARE SULLE TESTA DI NOI CITTADINI, FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA VOCE, DICIAMO NO AI TRENI DELLA MORTE. 

Appuntamento Venerdì 2 Giugno alle 10:30 davanti all'ingresso della Base di Camp Darby per un presidio / conferenza stampa
Campagna Territoriale di Resistenza alla Guerra - Area PisaLivornoPisa e Livorno
per contatti adesioni informazioni 
comitatoterritorialenoguerra@i nventati.org

lunedì 29 maggio 2017

LA PIÙ GRANDE STRAGE DI CRISTIANI NELLA STORIA AFRICANA È OPERA DEI FASCISTI ITALIANI



di Valerio Evangelista


Ottant’anni fa le truppe dell’Impero fascista attuarono il maggiore eccidio di cristiani in terra africana: accusati di essere ostili all’occupazione imperialista, centinaia di residenti del monastero di Debrà Libanòs furono fucilati dalle truppe italiane per ordine del Maresciallo Rodolfo Graziani. Nessun italiano venne mai punito per questo e per altri massacri.
Quando nell’aprile 1935 componeva le prime bozze di “Faccetta Nera”, Renato Micheli volle decantare in maniera spiritosa lo spirito romantico del colonialismo italiano in Africa. Un’ode alla “missione civilizzatrice” di Roma in Abissinia, allo sforzo liberatore della gioventù italica impegnata a rimuovere le catene dal collo negro.
Un’esaltazione in romanesco dell’unione tra le razze, che però a Mussolini non piacque affatto (anzi, tentò pure di bandirla). Quel testo era troppo meticcio e troppo poco imperiale. Per giustificare il proprio espansionismo, l’Impero fascista avrebbe avuto bisogno di più solennità, di più rigore razziale; e fu così che dal Ministero “consigliarono” al poeta di trasformare la scherzosa canzonetta in un inno di conquista e di sottomissione degli abissini, privandola inoltre di ogni parola ed inflessione dialettale.
Se per Micheli il verso “Faccetta Nera, sarai romana” era una promessa che puntava all’elevazione di una presunta inferiorità del popolo etiope, una “concessione d’umanità” dei colonizzatori mediterranei, il regime l’intendeva come una minaccia dal potere distruttivo: sarai romana, oppure non sarai affatto.
Fu il Maresciallo Rodolfo Graziani ad essere nominato “ambasciatore” di tale ideale totalizzante. Ottenute fama e popolarità in seguito alle gesta di “pacificazione” (leggasi “riconquista”) in Libia, che gli valsero il soprannome di “Macellaio di Fezzan“, Graziani fu incaricato di reprimere ogni resistenza in Abissinia.
Graziani ordinò ai suoi bombardieri di sganciare ordigni all’iprite e al fosgene (vietati dalla convenzione di Ginevra del 1925) contro civili e resistenti africani. In un dispaccio telegrafico proclamò trionfante che “le ultime azioni compiute hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas”.
Ma il Macellaio (che l’ONU inserì nella lista dei criminali di guerra per l’uso di gas tossici e bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa) fu responsabile anche di un altro atroce episodio: il maggiore eccidio di cristiani in terra africana, una strage ancora oggi poco raccontata.
Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia (primogenito di Umberto), la resistenza anti-colonialista fece esplodere otto bombe.
Subito dopo l’attentato, un commando armato aprì il fuoco, attirandosi la reazione dei carabinieri italiani. Il bilancio dell’attacco fu di quattro carabinieri italiani e due zaptiè uccisi (carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene) e una cinquantina di feriti.
In un telegramma del 21 febbraio, il Duce diede a Graziani indicazioni ben precise: “Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi“. Sentendosi il vero obiettivo dell’attentato, dall’ospedale della Consolata (dove rimase ricoverato per 68 giorni) il Maresciallo Graziani ordinò dunque rastrellamenti e pogrom. Nei tre giorni successivi la rappresaglia italiana portò a numerose vittime nella popolazione etiopica.
Il prof. Harold J. Marcus parla del clima post-attentato in questi termini:

“Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina.
Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte”.

Se fonti etiopiche hanno contato ben 30mila persone uccise, stime italiane hanno ridotto il numero a circa 300 vittime. Fonti britanniche parlano invece di almeno 3mila vittime. Ma a prescindere dal numero effettivo di caduti (non fu mai condotta una ricerca internazionale e indipendente che potesse verificarne la precisione), la vendetta italiana continuò implacabile anche a distanza di mesi dall’attentato.

Il medico ungherese Ladislav Shaska ricorda l’azione del Federale Guido Cortese subito dopo l’attacco:

“Il maggior massacro si è verificato dopo le sei di sera… In quella notte terribile, gli etiopi vennero ammucchiati nei camion, strettamente sorvegliati dalle camicie nere armate. Pistole, manganelli, fucili e pugnali furono usati per massacrare gli etiopi disarmati di tutti i sessi, di tutte le età. Ogni nero incontrato era arrestato e fatto salire a bordo di un camion e ucciso o sul camion o presso il piccolo Ghebi. Le case o le capanne degli etiopi erano saccheggiate e quindi bruciate con i loro abitanti. Per accelerare gli incendi vennero usate in grandi quantità benzina e petrolio.
I massacri non si fermarono durante la notte e la maggior parte degli omicidi furono commessi con armi bianche e colpendo le vittime con manganelli. Intere strade erano bruciate e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano in strada erano pugnalati o mitragliati al grido “Duce! Duce Duce!”. Dai camion, in cui gruppi di prigionieri erano stati portati per essere massacrati vicino al Ghebbi, il sangue colava letteralmente per le strade, e da questi camion si sentiva gridare “Duce! Duce! Duce!”.
Non dimenticherò mai quello che ho visto quella notte degli ufficiali italiani che passano con le loro auto lussuose per le strade piene di cadaveri e sangue, fermandosi nei luoghi dove avrebbero avuto una migliore visione delle stragi e degli incendi, accompagnati dalle loro mogli, che mi rifiuto di definire donne!”

Non potendo contenere l’ardore di chi lottava per la propria libertà – con buona pace della propaganda “liberatrice” fascista – il contingente imperiale in terra d’Abissinia dovette trovare un responsabile morale di tali ondate di guerriglia.
Percorrendo il sentiero del “ripulisti” tracciato mesi prima da Mussolini in persona, il Maresciallo ordinò quindi una spedizione punitiva verso Debrà Libanòs – città santa della chiesa copta a 150 km da Addis Abeba – i cui residenti erano ritenuti colpevoli di fomentare le ribellioni e di nascondere gli insorti.
Nel tragitto, le truppe italiane e somale comandate da Pietro Maletti operarono una cieca rappresaglia in cui furono incendiati 115.422 tucul e tre chiese, mentre furono ben 2.523 i partigiani etiopi giustiziati.
Non sazia del sangue versato, la colonna imperiale proseguì il suo viaggio. Dopo aver incendiato il convento di Gulteniè Ghedem Micael ed averne fucilato tutti i monaci, il 19 maggio i soldati raggiunsero ed occuparono Debrà Libanòs.
Raggiunta la destinazione, le truppe ricevettero un telegramma di Graziani in cui ordinò di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore“.
Il grande monastero del XIII secolo, centro principale della spiritualità etiopica, era stato fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot. Era formato da due grandi chiese e dei modesti tucul dove vivevano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore.
I residenti furono trucidati in circa una settimana; l’ultimo giorno del massacro vennero fucilati anche i 126 giovani diaconi che erano stati inizialmente risparmiati.
Graziani fece sapere a Benito Mussolini che furono 449 le vittime del massacro di Debrà Libanòs, ma ricerche portate avanti dall’inglese Ian L. Campbell e dall’etiopico Defige Gabre-Tsadik (studiosi dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba) sostengono che il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe addirittura tra le 1.423 e le 2.033.
Graziani, forte dell’approvazione di Mussolini, rivendicò “la completa responsabilità” di quella che definì trionfante la “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia”, compiaciuto di “aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”.

Negli anni ’40 l’archeologo David Buxton confermò che i resti dell’eccidio erano ancora visibili: “Ci sono innumerevoli teschi e ossa, sacchi e scatole piene di ossa, mucchi sparsi di ossa che aspettavano ancora una sepoltura”.
Nel dopoguerra a nulla valsero le richieste etiopiche: nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri. Rodolfo Graziani fu inserito dall’ONU nella lista dei criminali di guerra, ma non venne mai processato. Il Boia dell’Impero fu invece processato e condannato a 19 anni di carcere per collaborazionismo, ma scontati quattro mesi fu scarcerato.

Tv2000 ha prodotto un docu-film, girato tra Addis Abeba e Debre Libanos, che ricostruisce i fatti storici grazie al contributo di Ian Campbell, il maggiore studioso della strage, al monaco di Debre Libanos, Abba Hbte Gyorgis e ad un testimone ultranovantenne di quei tragici avvenimenti, Ato Zewede Geberu. A questi, si aggiungono il Patriarca della chiesa ortodossa di Etiopia, Abuna Matthias I e l’ Arcivescovo di Addis Abeba, il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel.

Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?



di Vincenzo Brandi

Roma 27.5.2017   

“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?” : 

è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di “Famiglia Cristiana”.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti.  Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso, quando gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Pakistan e altri alleati formarono l’organizzazione Al Qaida, diretta da Bin Laden, e finanziarono ed armarono i più retrivi, misogini, feudali signori della guerra, i più feroci mercenari accorsi da tutto il mondo islamico, e gruppi di fanatici locali per scacciare il governo comunista e far cadere in una trappola mortale i suoi alleati Sovietici.
I fanatici islamici ed i soliti mercenari accorsi da vari paesi servirono anche negli anni ’90 per spazzare via i resti della Jugoslavia socialista, prima con la guerra di Bosnia, poi con quella del Kossovo, entrambe finite con interventi diretti della NATO, e con la partecipazione diretta anche dell’Italia.
I miliziani musulmani bosniaci e kossovari furono fatti passare per vittime dei cattivi Serbi. La propaganda occidentale non ha mai detto la verità su episodi chiave come la presunta strage di Serbenica (ovvero “la città dei Serbi”, chiamata sempre Srebrenica sui giornali nostrani), su cui non vi sono prove ma solo racconti di parte, mentre ha sempre ignorato i dossier (editi da Zambon o dalla Città del Sole) che documentano le stragi compiute nella zona dai fanatici musulmani a danno dei civili serbi (3500 morti civili accertati). Non viene mai ricordata la “fake news” della falsa strage di Racak che fornì la scusa per la liquidazione finale dei resti della Jugoslavia nel 1999, con il plauso diretto di D’Alema.
Anche la rivolta della Cecenia fu in gran parte diretta ed attuata da fanatici musulmani integralisti, opportunamente sostenuti dall’esterno da paesi islamici sunniti e organizzazioni occidentali, per mettere in difficoltà la Russia.
Le organizzazioni estremiste della Libia, come Ansar Al Sharia a Bengasi o le feroci milizie di Misurata legate ai Fratelli Musulmani ed armate dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, servirono come truppe di terra per appoggiare l’attacco della NATO che distrusse il paese. Non è un caso che il “kamikaze” di Manchester era stato a capo di una di queste milizie di fanatici che odiavano il governo laico di Gheddafi, e che molti dei suoi parenti siano membri di formazioni estremiste.
Il nome del “kamikaze”, i suoi liberi spostamenti dall’Inghilterra alla Libia, alle zone occupate dall’ISIS in Siria, alla Turchia, erano note alle polizie di mezzo mondo (occidentale), ma nessuno è intervenuto.
Inutile ricordare i continui finanziamenti e le forniture di armi a tutte le formazioni armate estremiste che cercano di destabilizzare il governo laico socialista siriano, come Daish, Al Qaida, Jaish Al Islam, Achrar Al Sham, e centinaia di altre milizie mercenarie e fanatiche in gran parte formate da Turcmeni, Uzbechi, Uiguri, Tunisini, Libici, Sauditi e gruppi militanti che sono stati fatti uscire liberamente dall’Europa e sono stati addestrati in Turchia o Giordania.
Ma a questo punto bisogna sottolineare un altro cinico uso che l’Occidente imperialista e neo-colonialista fa di questi terroristi, sfruttando anche gli attentati (non ostacolati), o addirittura i falsi attentati che avvengono sistematicamente in Occidente, a partire dalla “madre di tutti gli attentati” , quello delle Torri Gemelle che permise di scatenare la “guerra al terrore”, l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Iraq baathista.
Oggi, con la scusa di combattere Daish, che per anni si è esteso in Siria ed Iraq con gli Occidentali che facevano finta di combatterlo (in alleanza con Turchia ed Arabia Saudita, cioè insieme ai principali finanziatori di Daish!), Gli Statunitensi, i Turchi, ed ultimamente anche gli Inglesi provenienti dalla Giordania, hanno invaso zone della Siria. Nel nord gli USA hanno impiantato le loro basi con l’aiuto dei Curdi, che nel loro cieco nazionalismo sono disponibili ad allearsi anche col diavolo (che li scaricherà quando non serviranno più). Le difese siriane di Deir Es Zor, città assediata da 4 anni da Daish, sono state bombardate “per sbaglio” da aerei USA, australiani e danesi. Non per sbaglio, ma in seguito ad una manifesta provocazione di Al Qaida che si dichiarava vittima di un attacco chimico, è stato bombardato il più importante aeroporto del centro della Siria da cui partivano le missioni aeree che colpivano Al Qaida. Oggi si sta verificando un fatto gravissimo che ha avuto scarsa eco sui mass media, ma che è gravido delle peggiori conseguenze.
L’esercito siriano e le milizie filo-governative irachene stavano convergendo sul punto di frontiera strategico di Al Tanf, posto all’incrocio tra le frontiere di Iraq, Siria e Giordania, da dove passavano rifornimenti per Daish attraverso il deserto. Truppe inglesi e statunitensi hanno occupato la zona, insieme a mercenari locali definiti Syria Democratic Forces ed aerei statunitensi hanno bombardato sia le truppe siriane che quelle irachene avanzanti “perché costituivano una minaccia ai soldati statunitensi”.
La Russia ha protestato (blandamente) dicendo che nessuno avrebbe minacciato i soldati USA se fossero rimasti a casa e non avessero apertamente violato il diritto internazionale.
Ora, capiamo sempre meglio perché nessuno ferma i “kamikaze” di Manchester e continua a fornire armi ai loro finanziatori.             

domenica 28 maggio 2017

L’imperatore visita le province.





MAY 24, 2017 

di MIKO PELED
Israele tira un sospiro di sollievo, mentre Trump lascia la regione  e senza una proposta di  “accordo”  gli permette di continuare a uccidere, trasferire, arrestare e torturare i palestinesi, prendere la loro terra e l’acqua per darli agli ebrei. La visita di Trump a Gerusalemme è stata come la venuta di Cesare in visita nelle province lontane. Israele lo ha accolto con sorrisi, bandiere e una parata militare perfettamente organizzata, mentre i palestinesi hanno manifestato il loro stato d’animo mettendo in atto uno sciopero generale – il primo sciopero che  dopo oltre venti anni ha incluso anche la Palestina del 1948 . Lo sciopero e le proteste, il cui significato ha raggiunto  probabilmente  Trump, è stata  anche una dimostrazione di solidarietà nei confronti dei prigionieri in sciopero che a questo punto sono  senza cibo da quasi quaranta giorni.
Trump è arrivato a  Tel Aviv dall’Arabia Saudita dove ha annunciato un accordo tra i due paesi che sicuramente porterà alla morte di molti innocenti nello Yemen. Vicino  al corrotto e invecchiato  Re saudita Salman, Trump ha annunciato che l’accordo sulle armi vale molti miliardi di dollari e ha assicurato che questo accordo porterà investimenti negli Stati Uniti e fornirà “lavoro, lavoro, lavoro,” per gli americani.
A Gerusalemme i media non hanno potuto e tuttora non riescono a ottenere abbastanza da Trump. Nessuno si è  lamentato del fatto che, sebbene Trump abbia raggiunto Gerusalemme in volo da Tel Aviv, l’autostrada che collega le due città è stata chiusa per parecchie ore “per sicurezza”. In un notiziario mattutino un gruppo che comprendeva l’intero schieramento politico sionista ha discusso la visita di Trump ed è risultato ovvio dalle loro discussioni chi  effettivamente comanda qui. Trump non rappresenta i  sionisti liberali “sani”,  né  il Likud del “centro destra”, ma piuttosto la fanatica e allucinante Daniella Weiss, la voce  dei più estremisti e fanatici coloni osservanti.
Ha esordito affermando che Trump non avrebbe portato alcun cambiamento, perché anche Trump , bravo a stipulare accordi, non può annullare ciò che è stato concordato tra Dio e il popolo ebraico quando  promise a “noi” la terra d’Israele. Poi ha dichiarato che ora ci sono 750.000 ebrei che vivono in Giudea e Samaria, e nessuno di loro potrà  o sarà mai rimosso.
“Che ne pensa dei circa tre milioni di palestinesi?”, le è stato chiesto.  Ha risposto chiaramente che non fanno parte della sua visione messianica. Il numero tre milioni è quello che i sionisti considerano come il numero degli abitanti palestinesi. Benché in Palestina vivano più di sei milioni di palestinesi, vengono presi in considerazione solo i palestinesi della Cisgiordania. Weiss è stata contestata da Omer Bar-Lev, veterano del gruppo liberista sionista Peace Now e membro della Knesset per il partito “Zionist Camp”, che con fervore ha affermato che “persone come lei stanno distruggendo la visione sionista” perché forzano una realtà in cui gli ebrei non saranno più una maggioranza e finirà in uno stato bi-nazionale (questo è il risultato della “sinistra”).
La differenza tra fanatici zelanti come Daniella Weiss e i liberisti sionisti è che i primi non vedono i palestinesi mentre questi ultimi hanno l’incubo ricorrente in cui Israele è costretto a concedere ai cittadini dei diritti di cittadinanza. Entrambe le parti credono che finché i palestinesi non avranno diritti Israele potrà pretendere di essere uno Stato ebraico.
I sionisti liberali sostengono che perché ci sia la “pace” gli ebrei debbano poter mantenere una maggioranza nella Palestina occupata nel 1948 e pochi “adeguamenti”  dei confini. Quella che gli ebrei liberali considerano  pace è una grande prigione palestinese a cielo aperto che si estende lungo quella che un tempo era la Cisgiordania. Chiameranno questo carcere uno stato e tutto andrà bene. Questo è secondo loro ciò che salverà gli ebrei dal dover vivere in mezzo ad una maggioranza araba. In questa visione pacifica e liberale, la maggior parte della Cisgiordania rimarrà parte di Israele. “Il consenso nazionale”, ha affermato Bar-Lev, “è che i principali blocchi di insediamenti rimangano”. Inoltre, secondo il consenso nazionale, tutta la valle del fiume Giordano e tutta Gerusalemme Est con i suoi sobborghi – o in altre parole la maggior parte di quello che era la Cisgiordania – rimarrà come parte di “Israele”.
Daniella Weiss rappresenta il vero volto del sionismo che ha sempre sostenuto che gli ebrei non dovrebbero preoccuparsi di  cose banali come di alcuni milioni di arabi. Bar-Lev, che comandava una delle unità più criminali di Israele, rappresenta la foglia di fico che copre il vero volto del sionismo. Quando si viaggia nella regione montuosa a sud di Hebron, che è per lo più un deserto bello e selvaggio, si avvistano città palestinesi e piccoli villaggi e si vede l’azione sionista in azione. I villaggi palestinesi sono piccoli, quindici o venti famiglie che vivono in grotte e tende, alcuni hanno costruito case. Di solito non c’è acqua corrente o elettricità e pochissime strade asfaltate. Anche dopo cinquant’anni di controllo israeliano, l’acqua, l’elettricità e le strade asfaltate non hanno raggiunto queste aree remote finché non sono arrivati  i coloni ebrei. Non appena sono arrivati hanno cacciato i palestinesi dalla loro terra e hanno costruito “avamposti” che sono come piccoli insediamenti. Poi, miracolosamente, sono arrivate l’acqua corrente, l’elettricità e strade ben asfaltate che però non hanno raggiunto nessuno dei villaggi palestinesi circostanti.
È così che gli ebrei fanno fiorire il deserto.
“Possiamo sentir dire che Trump è un grande amico”, ha detto un operatore Likud alla televisione. “Parla di pace e naturalmente anche noi vogliamo la pace, ma non abbiamo alcun partner per la pace”.
Così, mentre Trump parla di un “accordo” possiamo leggere i segnali.” I segnali sono il genero come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, che è un vero sionista come Daniella Weiss. Sono stato rimproverato una volta per aver affermato che il genero è ebreo, come se non avesse importanza, ma se qualcuno pensa che l’essere ebraico di Jared Kushner non sia importante, può chiedere a qualsiasi israeliano per strada. Vi diranno esattamente che cosa è un “buon amico” di Israele e quanti soldi la sua famiglia ha dato agli insediamenti e all’IDF.

Kushner con la moglie Ivanka e il suocero, Donald Trump
Quindi, per riassumere la politica in Medio Oriente di Trump, la dinastia saudita è al sicuro e può continuare a uccidere i civili nello Yemen usando le migliori tecnologie in grado di acquistare e, in tal modo, fornisce anche “lavoro, lavoro, lavoro, ” agli americani. Trump è un grande amico di Israele, siamo tutti d’accordo sul fatto che Israele non ha partner per la pace e, a differenza di Obama, Trump sembra non mettere restrizioni all’espansione e alla campagna di pulizia etnica di Israele.
È una grande giornata per Israele quando l’imperatore viene in visita!
Trad. Invictapalestina.org

Il processo contro i comunisti ucraini



27 Maggio 2017 

da "Avante!”, Settimanale del Partito Comunista Portoghese | 
Traduzione di Marx21.it

Il processo per la messa fuori legge dei comunisti ucraini prosegue e, probabilmente, si sta avvicinando alla sua conclusione (il 31 maggio potrebbe essere emessa la sentenza sul ricorso presentato dal Partito Comunista di Ucraina contro il provvedimento liberticida).

Con questo resoconto, pubblicato nel settimanale dei comunisti portoghesi, continuiamo ad informare sugli sviluppi di una vicenda che, nel nostro paese, continua ad essere avvolta dal colpevole silenzio, non solo dell'apparato mediatico dominante, ma anche delle forze presenti nel nostro Parlamento. (Marx21.it)

Si è tenuta a Kiev, alla Corte Amministrativa di Appello, il 15 maggio, una nuova sessione del processo contro il Partito Comunista di Ucraina  (PCU), che mira alla sua messa fuori legge. La solidarietà con il PCU – che è stata costante durante l'intero processo – è stata riaffermata dalla presenza di João Pimenta Lopes, deputato del PCP al Parlamento Europeo, in rappresentanza del Gruppo della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica, e anche dal rappresentante del Partito Comunista di Boemia e Moravia e da una rappresentante dell'Associazione Internazionale dei Giuristi Democratici.

Nella sessione sono state presentate le argomentazioni finali della difesa, tra cui va rilevato l'intervento di Petro Simonenko, segretario generale del PCU, che ha denunciato l'incostituzionalità della messa al bando del partito e della cosiddetta “Legge di decomunistizzazione”.

Il segretario generale del PCU ha avvertito dei rischi per la democrazia di quella decisione e ha denunciato la violazione del principio del pluralismo politico, il danno già causato e l'assenza della separazione dei poteri giudiziario ed esecutivo, che compromette l'indipendenza dei giudici, come è stato dimostrato nel corso di tutto il processo, di cui sono state enumerate le irregolarità.

Nel suo intervento, Petro Simonenko ha anche affrontato gli sviluppi politici nel paese, mettendo in rilievo gli eventi che, dal golpe del febbraio 2014 con la deriva fascistizzante in Ucraina, hanno portato alla persecuzione dei comunisti e di altri democratici, con l'obiettivo di mettere al bando il PCU, cercando attraverso un processo politico di compromettere e, possibilmente, annientare una forza politica conseguente con “più di 100.000 militanti e 3 milioni di elettori, che affronta il regime di natura fascista attualmente al potere”.

Sono stati riportati numerosi esempi, non solo della persecuzione giudiziaria, ma anche degli attacchi e delle aggressioni contro militanti comunisti, e degli assalti e saccheggi delle sedi del PCU. E' stato rivendicato il fatto che qualsiasi decisione venga presa, essa dovrà rispettare, oltre che la Costituzione dell'Ucraina, la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, e gli altri obblighi internazionali assunti dall'Ucraina, compresi quelli derivanti dall'Accordo di Associazione con l'UE. Sono stati anche ricordati diversi esempi di tentativi di messa fuori legge di Partiti Comunisti in altri paesi dell'Europa (Moldavia, Ungheria)  sventati e rientrati dopo il ricorso al Tribunale Europeo dei Diritti dell'Uomo.

Simonenko ha concluso con il riferimento storico al fatto che è la terza volta che si tenta di mettere fuori legge il PCU – la prima fu tra il 1941 e il 1944, dopo l'occupazione nazista; la seconda nel 1991, con la fine dell'Unione Sovietica, decisione rientrata nel 2000; e il terzo tentativo è quello in corso dal 2014. E' servito questo esempio per affermare la determinazione dei comunisti ucraini a proseguire la lotta contro il tentativo di messa al bando del PCU, la manipolazione e la riscrittura della storia e il potere di natura fascistizzante in Ucraina.

L'udienza si è conclusa con la calendarizzazione di una nuova sessione del processo per il prossimo 31 maggio, quando saranno presentate le argomentazioni della difesa ancora mancanti e  probabilmente sarà emessa la sentenza da parte del collegio giudicante per quanto riguarda il ricorso presentato dal PCU.

Il rapporto che smonta tutte le fake news dei media mainstream sulle morti in Venezuela



Il documento sui 51 giorni di violenza promossa dall'opposizione è stato 

presentato alla stampa dal ministro Villegas



da Alba Ciudad





Il ministro del Potere Popolare per la Comunicazione e l’Informazione Ernesto Villegas; Il ministro degli Esteri del Venezuela Delcy Rodríguez e il Segretario Esecutivo del Consiglio Nazionale per i Diritti Umani, Larry Devoe, hanno tenuto una conferenza stampa con i mezzi d’informazione nazionali e internazionali, presentando un rapporto sui 51 giorni di violenza provocati dai partiti estremisti dell’opposizione, che hanno causato la morte di 60 persone. 


Villegas presentato una lista delle persone assassinate, sulla base di un rapporto della Procura sulle vittime mortali della violenza in Venezuela. «Tutte le vite hanno lo stesso valore, indipendentemente dall’età, il genere, la condizione sociale, il luogo dove sono cadute, la bandiera politica che hanno innalzato, i metodi che hanno utilizzato per esprimere la propria posizione politica. Tutte queste morti ci addolorano allo stesso modo!», ha dichiarato. 

L’opposizione si è concentrata su un piccolo gruppo di casi emblematici, anche se in realtà vi sono tra i 55 e i 60 morti durante i 51 giorni di violenza, la maggior parte dei quali sconosciuti al paese. 
«Vogliamo evitare che questa lista cresca. L’elenco non deve crescere. Necessario è porre fine immediatamente agli appelli alla violenza da parte di esponenti politici che hanno abbandonato la politica, per imporre un’agenda al paese attraverso la violenza, fuori dalla nostra Costituzione». 

Mostrando la copertina del quotidiano ‘Tal Cual’ che attribuisce le morti allo Stato, ha chiesto di fermare l’uso perverso dei loro nomi «per incolpare il governo bolivariano e il Presidente Nicolás Maduro di adottare una politica che ha portato alla morte di questi venezuelani». 
Villegas ha spiegato che secondo le cifre fornite dalla Guardia Nazionale Bolivariana, in Venezuela vi sono state oltre 1600 manifestazioni di diverso colore politico e con differenti metodi di espressione. «Circa 600 sono state violente». Con una politica repressiva ci sarebbe stato almeno un morto in ogni manifestazione, «avremmo avuto una cifra scandalosa», ma siccome la Costituzione proibisce l’utilizzo di armi da fuoco per il controllo delle manifestazioni pubbliche, e il Presidente Maduro ha ordinato che i corpi di sicurezza dello Stato controllino le manifestazioni senza nemmeno l’uso di manganelli, «non stiamo piangendo una tragedia ancora più grande».

«Se fossero vigenti i metodi della quarta repubblica, con manifestazioni così numerose, in luoghi diversi e con grande ferocia, sarebbero molte di più le famiglie a lutto». 

Bilancio delle persone uccise 

«L’aria è troppo simile a quella dell’aprile 2002. Questo è quello che abbiamo vissuto nell’aprile del 2002: una fazione politica ha utilizzato delle morti, che causarono lutti in tutto il Venezuela, per accusare il Comandante Chavez», ha dichiarato Villegas, mostrando un cartellone contente i volti di tutte le persone uccise. 

Il ministro ha inoltre mostrato un video dove Henry Ramos Allup anticipa che vi sarebbero stati ulteriori vittime. 
Sei vittime delle barricate 

Angel Moreira: un giovane morto mentre circolava a bordo di una motocicletta ed è stato investito da un veicolo che marciava controsenso per evitare una barricata.
Ana Victoria Colmenares
María Guanipa
Oliver Villa
Efraín Sierra
Carlos Hernández

Tre vittime chaviste assassinate nello Stato di Mérida

Anderson Dugarte
Luis Márquez
Jesús Sulbarán

Villegas ha lamentato che Ramos Allup ha attribuito la morte di Dugarte alla «repressione del regime» così come Freddy Guevara ha parlato di «assassinio della dittatura». Il ministro ha mostrato un video di German Dugarte, zio di Anderson Dugarte, afferma che suo nipote era chavista e antimperialista. 

Quattro chavisti vittime di omicidi su commissione

Quattro venezuelani sono stati vittima di omicidi su commissione, due di essi erano militanti chavisti che si trovavano in un’assemblea studentesca a El Tigre, nello Stato Anzoátegui:

Juan Bautista López
César Guzman
José Jesús Alcolado
Pedro Josué Carrillo:
Alcolado era un militante rivoluzionario cileno assassinato a Caracas, che «era venuto in Venezuela per realizzare quei sogni che la destra fascista aveva intercorro nel Cile di Allende». Carrillo, sequestrato e sottoposto a brutali torture dello Stato di Lara, perché chavista. 

Quattro membri della Polizia e della Guardia Nazionale Bolivariana morti

Villegas ha inoltre evidenziato che quattro uomini in divisa hanno perso la vita durante le proteste:

Yey Amaro: il deputato oppositore Alfonso Marquina aveva dichiarato che era stato ucciso dalla «dittatura di Maduro», ma è stato smentito dal governatore antichavista Henry Falcón che ha spiegato come sia morto a seguito di un incidente stradale. «Spesso viene utilizzato il dolore dei familiari, e nel bel mezzo del dolore e della necessità di giustizia, viene piantata una verità che dopo è molto difficile da smentire». 

Inumar Sanclemente: Effettivo della Guardia Nazionale Bolivariana assassinato nel municipio Los Salias da uno sconosciuto che gli ha sparato. 

Gerardo Barrera: Effettivo di Policarabobo assassinato con molteplici colpi di pistola.

Jorge Escandón: Altro effettivo di Policarabobo assassinato da terroristi che sparavano dagli edifici.

Tredici persone non si trovavano in zone interessate da manifestazioni

Altre tredici persone, secondo i rapporti messi a disposizione dai giornalisti dalla Procura Generale, non si trovavano in zone interessate da manifestazioni quando sono state uccise. Tra questi vi sono:

Brayan Principal: bambino morto a Barquisimeto. Villegas ha mostrato un video con la testimonianza della madre, segnalando che il bambino di un colpo sparato da bande criminali dal quartiere Yucatan verso la Città Socialista Alí Primera di Barquisimeto.
Di questo omicidio dirigenti dell’opposizione come Lilian Tintori e Maria Corina Machado hanno fatto un «uso bastardo», cercando di far passare il messaggio che il bambino era morto a causa della politica repressiva dello Stato.

Almelina Carrillo: muore mentre attraversa La Candelaria, nei pressi di una mobilitazione chavista contro la quale è stata lanciata una bottiglia d’acqua congelata, che l’ha centrata in pieno. Villegas ha denunciato che alcune ore prima il sociologo oppositore Tulio Hernández con un tweet aveva esortato a lanciare vasi e fioriere contro i chavisti. 

Ramón Martínez

Gruseny Canelón: nel suo caso abbiamo 14 effettivi della Guardia Nazionale imputati dalla Procura Generale. 

Daniel Rodríguez

Albert Rodríguez

Christian Ochoa

Jonathan Quintero, tra gli altri.

Altre persone che non stavano manifestando

Sono stati presentati anche i casi di altre persone i cui familiari o testimoni affermano che non stavano manifestando:

Jairo Ortiz: uscito per incontrare un amico non era coinvolto nelle proteste. L’agente di polizia stradale che lo ha ucciso non stava esercitando funzioni di ordine pubblico. È stato immediatamente arrestato dal Cicpc. Suo padre ha chiesto che il nome del figlio non sia utilizzato in maniera strumentale. 

Carlos Moreno, morto a San Bernardino. Uno dei responsabili è un agente della Polizia di Sucre, Stato Miranda, diretta dall’oppositore Carlos Ocariz, del partito Primera Justicia. 

Ricarda González: la sua morte è stata attribuita ai gas lacrimogeni della Guardia Nazionale Bolivariana, ma sua figlia ha scartato questa versione, affermando che è stata vittima di un attacco cardiovascolare, aggiungendo che le barricate e le guarimbas hanno ostacolato e impedito il trasferimento al più vicino ospedale. 

Mervins Guitian

Orlando Medina

Isabel Torrealba

Carlos Aranguren, tra gli altri.

Quattro vittime di armi non convenzionali

Villegas ha inoltre illustrato i casi di quattro vittime di armi non convenzionali, colpiti da oggetti metallici, che non possono essere vittime dei corpi di sicurezza: 

Armando Cañizales

Miguel Castillo

Juan Pernalete, che nel suo petto porta i segni di un dispositivo che corrisponde a una pistola spara bulloni

Diego Arellano

Otto folgorati durante i saccheggi

Ha denunciato anche la «mescola della politica con la criminalità», rappresentata dal saccheggio di una panetteria avvenuta a El Valle, che ha causato la morte per folgorazione di 8 persone. 

Morti manifestando

Ci sono altri cittadini morti nel corso delle manifestazioni, secondo la Procura Generale:

Paola Ramírez: assassinata a San Cristóbal il 19 di aprile. Nel suo caso «si è avuta una rapida risposta da parte della Procura Generale guidata dalla Procuratrice Luisa Ortega Diaz». Imputato un militante di Vente Venezuela che ha confessato di aver sparato oltre 27 colpi. 

Francisco González

Kevin León

Paúl Romero: investito da una persona civile mentre si trovava in una barricata.

Hecder Lugo: si tratta di un caso molto particolare perché «il padre ha inviato un messaggio al Presidente della Repubblica. Voglio dire  al padre che il suo messaggio è arrivato al Presidente, che è particolarmente interessato affinché sia fatta giustizia in tutti questi casi, particolarmente in quello di Hecder Lugo». 

Daniel Queliz

Edy Terán

Un rapporto simile a quello presentato dal ministro Villegas è stato realizzato da Alba Ciudad e può essere visionato cliccando qui. Il rapporto ufficiale della Procura Generale può essere letto cliccando qui.

Gli agenti che commettono abusi saranno processati

Sul caso di Lugo, «il Presidente Nicolás Maduro è stato chiaro: non avalla o nasconde nessun tipo di deviazione, eccesso o abuso nell’utilizzo della forza», ha spiegato Villegas. «Ha dato istruzioni molto chiare e determinate ai corpi di sicurezza affinché si astengano anche dall’utilizzo di manganelli o proiettili di gomma per il controllo di manifestazioni pubbliche, nonostante siano armi autorizzate dalla legislazione internazionale». 

Ha poi spiegato che «se qualche ufficiale, anche in situazioni drammatiche arriva a disobbedire a questi ordini, affronterà l’applicazione della giustizia». 

Appoggio agli agenti che hanno subito attacchi con escrementi 

Villegas ha spiegato che il 99,99% degli uomini e donne che compongono la Polizia Nazionale Bolivariana e la Guardia Nazionale Bolivariana hanno svolto il proprio lavoro secondo la legge, e hanno dovuto sopportare fatti ripugnanti e abominevoli come il lancio di escrementi, per questo ha rivendicato il lavoro della stragrande maggioranza di chi compone questi corpi. 

«La strategia del lancio di escrementi, oltre che ripugnante, risponde a una strategia politica», ha spiegato il ministro. «La strategia del cosiddetto golpe morbido, delle cosiddette rivoluzioni colorate, che puntano alla provocazione affinché la forze dello Stato eccedano nella risposta. Lo hanno fatto alla lettera!». 
«Voi immaginate uomini e donne venezuelane subire per ore attacchi di questa natura?», ha dichiarato riguardo il lancio delle «puputov» o di recipienti in vetro contenti escrementi. « È ammirevole la capacità di autocontrollo che hanno avuto i nostri agenti sottoposti a questa disgustosa strategia, volta a provocarli affinché reagissero in maniera eccessiva a questa aggressione». 

Ha poi sottolineato che tutte le informazioni sono a disposizione dei giornalisti. 

Invitato infine l’opposizione ad accettare il dialogo: «Parlato le persone si capiscono», ha ribadito il ministro. 

(Traduzione dallo spagnolo per l’AntiDiplomatico di Fabrizio Verde)

Fonte: http://albaciudad.org/

sabato 27 maggio 2017

I MEDIOCRI AL POTERE!!!




IL LIBRO - «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». 
Così questo libro annuncia l’oggetto delle sue pagine: la presa del potere dei mediocri e l’instaurazione globale del loro regime, la mediocrazia, in ogni ambito della vita umana.
La trattazione che ne segue è una sorta di genealogia di questo evento che, nella prosa accattivante ed errabonda di Deneault, tocca campi differenti – dalla politica (affidata ormai al «centrismo» dei mediocri) all’economia, al sistema dell’educazione, alla stessa vita sociale – offrendo differenti modulazioni di questa forma di potere.
Tuttavia, per Deneault, l’avvento della mediocrazia è impensabile senza l’avvento dell’industrializzazione del lavoro – sia manuale che intellettuale – e, in particolare, della sua espressione ultima, quella «Corporate Religion», quella religione d’impresa che pretende, nella nostra epoca, di «unificare tutto» sotto la sua egida.
Oggi il termine «mediocrazia» designa standard professionali, protocolli di ricerca, processi di verifica attraverso i quali la religione d’impresa organizza il suo culto, quell’ordine grazie al quale «i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all’esecuzione pura e semplice». È il risultato di un lungo percorso che è cominciato quando il lavoro è diventato “forza-lavoro”, un’esecuzione, appunto, in virtù della quale è divenuto possibile «preparare i pasti in una lavorazione a catena senza essere nemmeno capaci di cucinare in casa propria, esporre al telefono ai clienti alcune direttive aziendali senza sapere di cosa si sta parlando, vendere libri e giornali senza neppure sfogliarli».
Il risultato è che oggi, nella società delle funzioni “tecniche” (“tecnica” qui designa, naturalmente il suo opposto, l’assenza totale, cioè, di téchne, di arte e perizia), per lavorare «bisogna saper far funzionare un determinato software, riempire un modulo senza storcere il naso, fare propria con naturalezza l’espressione “alti standard di qualità nella governance di società nel rispetto dei valori di eccellenza” e salutare opportunamente le persone giuste. Non serve altro.
Non va fatto nient’altro». E per affacciarsi alla vita pubblica in ogni sua forma (diventare un parlamentare oppure un preside di facoltà universitaria) non occorre altro che occupare «il punto di mezzo, il centro, il momento medio elevato a programma» e abbracciare nozioni feticcio quali «provvedimenti equilibrati», «giusto centro» o «compromesso». Insomma, essere perfettamente, impeccabilmente mediocri.

«Mediocrità è un sostantivo che indica una posizione intermedia tra superiore e inferiore, ovvero suggerisce uno stare nel mezzo, una qualità modesta, non del tutto scarsa ma certo non eccellente; indica insomma uno stato medio tendente al banale, all’incolore, e la mediocrazia è di conseguenza tale stato medio innalzato al rango di autorità... In tale regime, definirsi libero sarà solo un modo di manifestarne l’efficacia».

«Curiosità, coraggio, talento? No, per essere cooptati, nelle imprese come nelle organizzazioni e nei posti decisionali, vince il conformismo, denuncia in un saggio il filosofo canadese Alain Deneault».
Corriere della sera

Alain Deneault è un docente e filosofo canadese. Ha scritto saggi sulle politiche governative, sui paradisi fiscali e sulla crisi del pensiero critico. Insegna Scienze Politiche presso l’Università di Montréal e collabora con la rivista Liberté.

Traduzione dal francese di Roberto Boi
Euro 16,00
224 pagine
EAN 9788854514386
I COLIBRÌ

giovedì 25 maggio 2017

Assolti per lo striscione contro Israele sulla sinagoga di Vercelli: "Non fu odio razziale"



Lo striscione al centro della polemica Il tribunale di Vercelli ha assolto dall'accusa di incitamento all'odio razziale Alessandro Jacassi e Sergio Caobianco, due vercellesi che nel luglio 2014 avevano appeso uno striscione sulla sinagoga di via Foa con le scritte "Stop bombing Gaza", "Free Palestine" e "Israele Assassini". Assistiti dagli avvocati Gianluca Vitale e Laura Martinelli, i due avevano rivendicato la protesta, che era avvenuta nei giorni dell'operazione Margine protettivo condotta dall'esercito israeliano contro Hamas ma avevano
anche spiegato che "l'azione non era a sfondo razzista: era un grido di dolore di fronte al bombardamento di Gaza. Non aveva assolutamente niente a che fare con il popolo ebraico, la cui storia amiamo e rispettiamo più di chiunque altro".

La procura, invece, aveva chiesto per loro quattro mesi di reclusione. La Comunità ebraica di Vercelli, assistita dall'avvocato Tommaso Levi, si era costituita parte civile. All'indomani dell'episodio i responsabili della sinagoga avevano presentato una denuncia per diffamazione, mentre il reato contestato dalla procura era stato di istigazione all'odio razziale. "Dal nostro punto di vista - spiega la presidente della
comunità, Rossella Bottini Treves - non è mai stato un processo di natura politica né un processo sul conflitto israelo-palestinese, ma il gesto è ritenuto grave perché possibile oggetto di pericolose strumentalizzazioni.
Riteniamo, infatti, che il tempio israelita sia un luogo sacro e inviolabile e quindi sarà nostro compito tutelarne l'integrità, la sicurezza e denunciare qualsiasi tipo di oltraggio si dovesse verificare in futuro".

COMUNICATO STAMPA

Oggi 24 maggio a Vercelli si è concluso il processo istruito contro due giovani: Alessandro Jacassi e Sergio Capobianco che nel luglio del 2014 avevano - come loro stessi hanno ammesso - affisso uno striscione sulla cancellata della sinagoga di Vercelli recante la scritta “Stop bombing Gaza, Free Palestine, Israele assassino” in seguito all'attacco
militare di Israele contro Gaza noto come Margine Protettivo. Lo striscione è stato affisso nella notte del 17 luglio a ridosso dell'uccisione di 4 bambini che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza La presidente della Comunità ebraica di Vercelli ha sporto denuncia contro i due giovani identificati dalla telecamera di sorveglianza, accusandoli di propaganda di idee basate sulla discriminazione e istigazione all'odio razziale.

In una memoria scritta i due giovani hanno affermato: “Il nostro gesto non ha nulla a che vedere con il razzismo” e più avanti “ Lo Stato di Israele e le scelte perpetrate dal suo governo sono cosa per noi distinta dal popolo ebraico e contestare il governo israeliano non vuol dire attaccare il popolo ebraico.”
Il processo si è svolto in un periodo caratterizzato da numerosi interventi in Italia delle Comunità ebraiche spalleggiate dall'Ambasciata israeliana volte a impedire dibattiti nelle aule universitarie o proiezioni di film in solidarietà con il popolo palestinese che fra pochi giorni dovrà subire il cinquantesimo anniversario dell'occupazione israeliana.
Dopo quattro udienze il processo è arrivato alla conclusione finale con l'assoluzione piena degli imputati “perché il fatto non sussiste”, mentre il pubblico ministero aveva chiesto la
condanna a 4 mesi degli imputati con le attenuanti generiche.

Questo processo assume una rilevante importanza in quanto è la prima volta che dinanzi alla denuncia alla magistratura di una Comunità ebraica contro la manifestazione di un pensiero critico nei confronti dello Stato di Israele si arriva a una sentenza assolutoria facendo cadere le accuse di istigazione all'odio razziale e di propaganda di idee basate sulla discriminazione.