martedì 12 settembre 2017

IMMIGRANTI: LA MERCE NUMERO UNO


di LIVIO ZANOTTI 
                                                                                                 (Corrispondente della RAI - TV dall'America Latina)


Roma, settembre

I trafficanti, oggi, sono soprattutto arabi delle oltre 140 milizie e tribù in armi che spadroneggiano 
sul territorio libico, con o contro il governo di al-Serraj, interlocutore privilegiato del governo 
italiano, dice Emma Bonino, storica dirigente radicale ed ex ministro degli Esteri. Questi mercanti 
contrabbandano di tutto, dalle armi alla droga; e adesso controllano di fatto anche i campi in cui 
vengono recintati e stivati i profughi, privi di qualsiasi protezione, come merce respinta dai mercati 
e in attesa di non si sa quale destino. E’ difficile, infatti, pensare che nell’attuale frammentarietà 
della Libia ci sia un’istituzione con qualche parvenza di legalità capace di organizzarne il rimpatrio. 
Non c’era neppure con Gheddafi, adesso men che mai. 
Tenuti lontano dal nostro sguardo, prima o poi dimenticati dalle prime pagine dell’informazione 
internazionale, questi lager si configurano come bombe a orologeria, destinate a deflagrare con 
ancor più clamore di quelle che già affliggono luttuosamente i centri europei presi di mira dal 
terrorismo islamico. Vanno costituendo un debito umanitario che verrà presentato all’incasso in 
qualsiasi momento con interessi di usura. Il fenomeno migratorio è stato definito presso che 
unanimemente da storici e demografi, politici e commentatori come epocale, destinato a protrarsi 
per decenni, sia pure con fasi più o meno acute: possiamo davvero credere di avviarlo a soluzione 
affidandolo a organizzazioni improvvisate? 
E’ per riscattarli dalla genericità del branco in cui sono costretti, per ricordare la distinta 
individualità di ciascuno, dignità e speranze, che raccontiamo di seguito la storia di un pellegrino di 
quest’interminabile carovana di dannati della globalizzazione (tragico segno della sua più evidente 
contraddizione: abbattendo ogni barriera ne costruisce di nuove), già da qualche tempo approdato
in Italia che gli ha riconosciuto lo status di rifugiato:                                                                                     
la storia di As. *
Abbandonata alla deriva di tirannie e speculazioni, alle guerre fratricide, ai signori della guerra e 
all’ estremismo islamico, l’Africa sbarca clandestinamente in Europa alla disperata ricerca di 
sopravvivenza. Si chiama As l’uomo di sguardo vivace e aspetto robusto, la testa quasi calva e la 
faccia inquieta segnata dai patimenti, che mi si presenta un giorno accompagnato da un mio 
familiare. In Italia ha appena cominciato una nuova vita, profugo politico. E’ fuggito da Mogadiscio 
per sottrarsi alla persecuzione degli al- Shabaab , la milizia fondamentalista legata ad Al Qaeda . 
Volevano arruolarlo a forza e per vendicarsi della fuga il giorno seguente hanno fatto irruzione 
nella sua casa. Erano in due: con una raffica di mitra gli hanno assassinato il padre e la neonata che
in quel momento teneva tra le braccia, ferito la moglie e madre della bimba, Han. Gli altri tre figli 
(Ad, Is e Ran), tra i 7 e i 12 anni, sono corsi a rifugiarsi da uno zio. Spinta da un’incontenibile 
panico, la donna è fuggita. Su una terra stritolata da congiure e odi tribali, in cui appena un soffio 
separa la vita dalla morte, neppure i sentimenti materni sono al sicuro da oscuri istinti primordiali.
 Sopravvivenze illegali , costrette ad attraversare frontiere cosparse di tagliole, i fuggiaschi sono 
niente più che indifesa selvaggina per cacciatori da tempo ormai ridotti a loro volta a fameliche 
bestie che pur di catturare la preda frodano ogni rispetto umano, qualsiasi regola di quelle poche 
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che hanno preservato la nostra specie nei cataclismi millenari. Questa caccia dell’uomo all’uomo 
corre di nuovo lungo tutti i continenti.
As è un sopravvissuto allo sterminio. La sua fuga è più dolorosa di quella di Giuseppe in Egitto, 
reale, certa e comune ad altre decine e centinaia di migliaia, milioni di perseguitati dalla 
sopraffazione e dalla miseria su tre continenti. Sono numerosi e non meno sanguinari gli Erode che
dalla Mesopotamia all’ equatore nero e al sudest asiatico vogliono uccidere i bambini e i loro padri 
e madri, chiunque tenti di sfuggire a una sottomissione settaria e violentissima, del tutto priva di 
quella misericordia che pure predicava con la medesima forza con cui faceva proseliti l’ ultimo dei 
profeti , Maometto, il Lodato da Allah .
Non finivo più di scappare, nascondermi, scappare, scappare: di giorno sui camion e quando si 
fermavano perchè col buio gli autisti temono brutti incontri, proseguivo a piedi. Facciamo tutti così.
Ombre incolonnate mantenute in fila dalla paura. La notte le iene perlustrano le radure. In quelle 
più chiare il loro dorso grigio spelacchiato diventa argenteo sotto i riflessi della luna. Sfiorano e 
qualche volta attraversano con spavalderia le piste di terra battuta e anche le strade asfaltate. Nell’ 
oscurità, quelle bestiacce lanciano riflessi che fanno gelare il sangue. Possono restare a lungo nel 
medesimo posto, anche ore: girano in circolo mentre fiutano l’aria. 
A un tratto annusano qualcosa e il capo branco parte di corsa con dietro tutte le altre. Ne ho viste 
fino a una dozzina. Quando scompaiono, salti giù dall’ albero su cui uno si è rifugiato, se è una 
palma ti sanguinano le mani per i tagli. Sempre finisci mezzo scorticato. E riprendi la marcia 
cercando di stare contro vento. Nella savana la vita è così. Con le zanzare che ti entrano nelle 
orecchie; se ti stendi a terra per riposare puoi risvegliarti con la tasca in cui conservi un uovo sodo 
o una frittella di segala trasformata in un brulicante formicaio. O non risvegliarti più...
“ Muqdisho –in  soomaali  si chiama così -  non è Roma ma è pur tuttavia una città: quando ci alziamo 
dal letto al mattino, noi infiliamo i piedi nelle scarpe. Fuori della porta la strada è sempre affollata, 
traffico da ogni parte. Non mancano i serpenti, ma sono una metafora. Negli anni, molti quartieri 
sono stati distrutti dai combattimenti, schegge di una guerra civile a tratti latente. Gli scontri tra i 
clan Habargidir e Ab Gaal all’inizio, poi Ali Mahdi contro Mohammad Farrah Aidid, i signori della 
guerra ; infine i terroristi, gli attentati. Quando cessano di sparare, però, non dirò che tutto torna 
come prima; ma di nuovo è possibile andare al bar. Si riprende a respirare.
Ero proprietario di un cinema all’ aperto, un’arena, dite voi: il Waberi , lo conoscevano tutti. 
Proiettavo soprattutto film americani, ma anche qualcuno italiano. Con le Corti islamiche -fine anni 
Ottanta- si sono complicate le cose, però mi arrangiavo. Lo stesso Mahdi, un tipaccio, non era 
intrattabile. Ma nel 2006 arrivano gli al Shabaab :”Tu buon musulmano, non puoi fare film 
americani”, mi dicono. Riesco a procurarmi quelli indiani. Mostro il calcio, il calcio non ha religione:
anzi, le comprende tutte. Quella sera di fine dicembre –me lo ricordo bene-, c’erano mille e 600 
persone a seguire Liverpool-Milan. Hanno tirato il grilletto entrando di corsa e subito sono partite 
le raffiche, urla, esplosioni: otto morti e chissà quanti feriti, povera gente
Sono stato colpito anch’io, a una mano e alla schiena, guarda le cicatrici, guarda... Ho sentito un 
bruciore, perdevo sangue. A Mogadiscio non ci sono più ospedali. Sono corso a rifugiarmi in casa di
un amico, un infermiere. Lui è andato in farmacia a comprare il necessario per medicarmi e mi ha 
tenuto nascosto 3 giorni. Mio padre mi ha fatto arrivare del denaro e sono partito di notte per l’ 
Etiopia, ad Addis Abeba abbiamo qualche conoscenza. Quando ho saputo che potevo tornare 
erano passati 3 mesi. Gli al Shabaab erano sempre lì. E si sono rifatti subito vivi. 

l’autista: tra l’indice e il pollice della mano destra stringe uno scorpione nero, velenosissimo, e ci
guarda...
Di fronte a noi parlano dai cellulari, non sappiamo con chi. Mi sembra di capire che rassicurino l’ 
interlocutore che tutti stiamo pagando. Ripartiamo. Il viaggio però dura poco. Dovrebbero condurci
in un posto in cui sia possibile almeno bere un pò d’ acqua, lavarci la faccia, avere un minimo di 
riposo. Invece ci fanno scendere davanti a una caserma e ci consegnano alla polizia libica che ci 
arresta tutti per ingresso clandestino. Il giorno dopo veniamo trasferiti nel carcere di Sawiya. Mi 
mettono con altri quattro in una cella di pochi metri quadrati e due soli giacigli sulla terra battuta. 
Niente cibo, un secchio d’acqua a cella per bere e tutto il resto. Nella notte gelida arrivano a farti 
compagnia i topi, a decine, se non ti difendi ti rosicchiano le dita dei piedi. Oscenità e maledizioni 
in varie lingue mi riempiono le orecchie. Ci sono soprattutto arabi e somali tanto tra i viaggiatori 
quanto tra i trafficanti. Io sono stordito, arrabbiato con me stesso per non essere stato più cauto. 
Questo mi dice la testa che mi bolle dentro. Il corpo ne sa di più, è più saggio: ha imparato a 
resistere e riesce a farlo anche questa volta. 
E’ necessario essere pazienti per salvare la vita: lo ripeto a me stesso come una litania per calmare 
la rabbia che mi divora e poi per spronarmi, non sprofondare nel fatalismo dei miei compagni di 
prigione. Devo capire dove siamo, com’è la routine  del carcere. Il venerdi ci fanno uscire tutti all’ 
aria aperta, ammucchiati sul piazzale, per la preghiera. In lontananza ma nitide vediamo due 
ciminiere che sputano un fumo denso e nerissimo. 
 E’ una raffineria”, mi dice un libico incarcerato perchè ruba capre (“Altrimenti niente mangiare e 
poi le capre le ha fatte Allah, e le ha fatte per tutti”, si giustifica). A nord-ovest delle ciminiere dev’ 
esserci il mare, il Mediterraneo, mi spiega un altro. Ci sono momenti in cui sento che ce la posso 
fare, che ce la farò ad arrivare in Italia. E’ un momento. In quello seguente mi guardo attorno e 
tremo dall’ angoscia di restare preso in questa trappola. Una delle guardie è un sadico, lo si 
riconosce dalla faccia, lo sguardo affamato, da lupo.
     Passano altri dodici venerdi di preghiera e di pena. Al tredicesimo siamo in 6, d’ accordo per 
fuggire. Abbiamo corrotto un guardiano: 300 dollari. Dobbiamo arrangiarcela per restare tra gli 
ultimi, in modo che tutti siano rivolti alla parte opposta a quella su cui si affaccia la porta carraia, 
sul retro, dove lui ci farà uscire. Riusciamo a restare in fondo a tutti, ultimi degli ultimi. Spiamo 
furtivamente da ogni parte. Ma lui non si presenta. Nessuno che lo sostituisca. Il guardiano più 
vicino è a 20 metri. Non capiamo se per noi sia meglio o peggio... 
Scambiamo un paio d’occhiate e decidiamo di tentare. Retrocediamo lentamente, senza il minimo 
rumore. Prima in ginocchio, trascinandoci sul terreno; poi, appena individuata la porta, la 
raggiungiamo in quattro salti: è solo socchiusa! Siamo fuori in un lampo. Corriamo come conigli 
selvatici. . . Mi sta per scoppiare il petto quando mi guardo attorno: gli altri sono scomparsi e non 
mi metto certo a cercarli. Ciascuno ha preso la sua via.
     Il sole sta scendendo rapido dietro le dune quando incrocio la grande pista di sabbia che porta a 
bin Qasim , una vecchia capitale della Cirenaica (ma questo lo apprendo dopo). E’ invasa da 
dozzine di cammelli carichi di pacchi voluminosi avvolti in plastica, una lunga carovana diretta a 
occidente che procede lentamente e in disordine. Un motociclista va avanti e indietro per 
assicurarsi che non si disperdano troppo, come fa un cane pastore con le pecore: frena i 
cammellieri più veloci e incita quelli rimasti in coda. 
La seconda o terza volta che mi passa davanti gli sventolo in faccia un biglietto da 20 dollari. Ferma 
con una slittata che per poco non lo trascina a terra, e accetta di portarmi fino all’ incrocio con la 
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camionabile per Bengasi. Ma poi di lì per arrivare a Tripoli non trovo di meglio che ricadere 
nuovamente in braccio ai soliti mediatori somali, che mi spillano altri 2mila dollari. Il denaro che 
abbiamo difeso passandocelo da uno all’altro nelle perquisizioni sparisce così... Come la solidarietà 
tra noi dannati.  
     Mi resta in tasca appena il necessario per pagarmi un paio di polpette fritte quando un 
compagno di viaggio mi guida alla nostra vecchia ambasciata, dietro il lungomare e piazza dei 
Martiri, da anni occupata da somali come me bisognosi di un rifugio. E’ ridotta male, i due piani 
della villetta sono affollati e sporchi, un puzzo perenne di cipolla putrefatta . Mi sistemo in un 
angolo sotto una finestra. Attraverso Western Union chiedo di nuovo aiuto a mia sorella a Londra. 
Lei mi fa avere altri 5mila dollari, avvertendomi che sono gli ultimi: con questi fanno 14 mila e non 
è in condizione di mandarmene altri. Senza di lei sarei già morto. Ma anche così non è affatto detto
che mi salvi. Ogni passo è a rischio. Cercare un imbarco per l’Italia richiede prudenza: i trafficanti 
vogliono essere pagati prima, senza dare in cambio alcuna garanzia; Gheddafi non amava i profughi
e men che meno quelli somali. 
      Però ucciso lui è diventato peggio... L’ansia della mia traversata su un gommone che in vista di 
Lampedusa s’è afflosciato come carta straccia svanisce, davanti ai naufragi che negli ultimi tempi 
hanno riempito il mare di cadaveri corrosi dalla salsedine e smozzicati dai pesci. Ma non posso 
dimenticare quella donna assetata alla quale abbiamo impedito di bere l’acqua del mare perché le 
avrebbe bruciato lo stomaco. Con la lingua cercava le lagrime che le scendevano sulla faccia.
Quando è morta le ho visto la bocca ridotta a una piaga sanguinolenta. Qualcuno aveva ancora un 
pò d’acqua, l’ha tenuta per sè... Là sopra stai così stretto agli altri che quasi soffochi, eppure sei 
solo: devi concentrarti a ogni costo su te stesso se vuoi sperare di sopravvivere, negli occhi non hai 
i vicini ma le migliaia di chilometri che ti sei lasciato dietro e quanto manca alla salvezza, tutto il 
resto scivola via con le onde che t’inzuppano e ti lasciano intirizzito.  
Livio Zanot
Ildiavolononmuoremai.it
* Per considerazioni di riservatezza, il nome del protagonista e quelli dei suoi familiari non sono citati per esteso.

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