lunedì 5 febbraio 2018

LA VIGENZA DI STEFANO RODOTA’ NELLA CULTURA ITALIANA DI OGGI



FONTE: DAL BLOG DI LIVIO ZANOTTI 
"ILDIAVOLONON MUORE MAI"

Una commemorazione può essere un’atto vivo d’informazione e intervento sull’attualità presente, dunque sulle problematiche di fondo che alimentano il dibattito pubblico nel paese, oltre che un gesto alla memoria. E’ perciò che ildiavolononmuoremai pubblica di seguito quella del più che illustre giurista e politico Stefano Rodotà, pronunciata il 25 gennaio 2018 a Cosenza da Franco Gallo, presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e presidente emerito della Corte Costituzionale.

Nato a Cosenza nel 1933 da una famiglia di borghesia intellettuale di origine albanese, Stefano Rodotà è deceduto nel giugno dello scorso anno. Dopo una lunga esistenza dedicata per intero all’evoluzione del diritto e dei concetti di giustizia e libertà, attraverso l’impegno politico militante, la docenza universitaria e le istituzioni della nostra Repubblica.

Sono stati infatti innumerevoli e tutti di altissimo prestigio i suoi incarichi scientifici, politici, istituzionali; e tuttavia sempre esterni ai sistemi di potere che hanno governato l’Italia.

Tra i molti, noti e autorevoli presenti alla commemorazione, sono intervenuti anche il prof. Giacomo Marramao, dell’università Roma Tre e il prof. Vincenzo Roppo, dell’università di Genova.

L.Z.

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Ricordo di Stefano Rodotà

Cosenza, 25 gennaio 2018


Ho conosciuto Stefano Rodotà negli anni Sessanta. Erano i tempi in cui Stefano ed io frequentavamo i c.d. liberali di sinistra che collaboravano attivamente al “Mondo” di Pannunzio e di Ernesto Rossi e si riunivano al ridotto dell’Eliseo insieme a Venerio Cattani, Leopoldo Piccardi, Eugenio Scalfari, Nicolò Carandini, il mio maestro Tullio Ascarelli e tanti altri politici, intellettuali e giuristi di estrazione non comunista. Abbiamo poi seguito percorsi diversi. Lui scriveva già sul Mondo e si era dedicato al diritto civile privilegiando gli aspetti più prettamente costituzionali della materia. Sul piano dell’impegno politico, dopo una breve militanza nel vecchio Partito Radicale, aveva aderito al gruppo degli Indipendenti di sinistra entrando nel 1979 in Parlamento nelle liste del PCI insieme a molti di essi. Io, dopo la morte di Ascarelli, mi ero dedicato al diritto tributario e finanziario e alla professione di avvocato ricoprendo molto più tardi anche incarichi di Governo nella qualità di tecnico. Non ci siamo, però, mai persi di vista e abbiamo frequentato gli stessi ambienti della sinistra italiana alternando momenti di più convinta adesione a momenti di distacco dai partiti che la rappresentavano. Soprattutto, non ci siamo mai trovati in disaccordo sulle scelte politiche di fondo. Egli, per ragioni che non sto qui a commentare, nel 1994 decise di non ricandidarsi ed è tornato all’insegnamento universitario e ad altri incarichi pubblici (Garante per la protezione dei dati personali e Presidente del Gruppo Europeo per la tutela della privacy) senza però dismettere il suo impegno politico e sociale e la sua collaborazione a La Repubblica.


Franco Gallo


Ma non voglio qui raccontare le nostre storie personali, le nostre assonanze e i nostri pochi punti di divergenza. Vorrei solo tentare di dare il senso dell’importanza che Stefano ha avuto nella cultura giuridica del nostro Paese e, soprattutto, sottolineare il notevole contributo che il suo pensiero ha dato alla costruzione di una società che garantisca non solo le classi dei potenti e dei benestanti.

Egli è partito dall’essere un cultore del diritto privato, uno studioso della proprietà, della responsabilità e del contratto ed è divenuto, strada facendo, un raffinato costituzionalista che ha concorso, tra l’altro, alla scrittura della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, e cioè di un atto comunitario che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha acquistato – almeno in via di principio – lo stesso valore giuridico dei Trattati. Un costituzionalista, insomma, sensibile ai temi delle libertà fondamentali, della persona sociale e del diritto della coscienza, più che a quelli dell’homo oeconomicus, della persona giuridica di Kelsen, del diritto soggettivo e del diritto dello Stato.
La rivista Politica del diritto, da lui fondata insieme ad alcuni suoi colleghi nel 1976, è stato il punto d’incontro degli studiosi che convergevano nell’idea di fare del diritto e della sua cultura uno strumento di trasformazione della politica e della società in attuazione dei principi costituzionali. Questa rivista non voleva politicizzare il diritto nel senso di far diventare i giuristi forze collaterali di questo o di quel partito. Come ci ha ricordato Gustavo Zagrebelsky[1], aspirava semmai a giuridificare la politica, a inquadrarla in categorie giuridiche adeguate alle esigenze di rinnovamento e di valorizzazione dei principi di libertà e di uguaglianza. Tutto l’opposto della tradizionale figura del giurista con funzioni ancillari e interessi particolari.


Il filosofo Bernardino Telesio

Sotto questo punto di vista si capisce, quindi, l’evoluzione di Stefano da giurista, diciamo così, tradizionale dell’apprezzata scuola civilistica romana a giurista al di sopra delle formali classificazioni che poneva l’accento non tanto sul diritto in sé quanto sulla cultura, sull’etica, sull’interesse e, in particolare, sulla centralità della persona e sul rispetto della dignità. E’ sulla base di questi valori che Stefano ha condotto, con l’intensità ed il rigore che tutti ricordiamo, le sue battaglie contro il normativismo del dopoguerra e il formalismo giuridico. Prova ne è, solo per fare degli esempi più recenti, il suo costante impegno a favore dei beni comuni, del biotestamento, dello ius soli, della tutela della privacy e dei diritti all’identità e all’oblio. Dispiace che egli non abbia potuto gioire dell’approvazione parlamentare del disegno di legge che in questo scorcio di legislatura ha introdotto il biotestamento.

Questa continua attenzione ai diritti delle persone, questa sua forte predilezione per la legittimazione sociale del diritto lo hanno portato ad essere molto amato dai giovani, ma – mi duole dirlo – non dal ceto politico e dirigente, che lo ha spesso tacciato di moralismo. E si capisce questa antipatia delle classi dominanti, visto che Stefano, specie negli ultimi anni, non ha avuto alcuna remora a rivolgere ai rappresentanti di tali classi quelle critiche che sono così ben sintetizzate nel seguente passo del suo libro Il diritto di avere diritti: «In Europa – egli scriveva – siamo di fronte ad un mutamento strutturale che spinge qualcuno ad adoperarsi per azzerare completamente i diritti sociali, espellere progressivamente i cittadini dalla cittadinanza e far ritornare il lavoro addirittura a prima di Locke. Per accedere ai beni fondamentali della vita, come l’istruzione o la salute, dobbiamo passare per il mercato e acquistare servizi o prestazioni».

Del resto, alle accuse di moralismo egli rispondeva dicendo che la parola gli piaceva, che si sentiva “un vecchio, incallito, mai pentito moralista[2]”. E, in effetti, tutta la sua vita, tutti i suoi scritti testimoniano che la sua non era una moralità passiva e compiaciuta. Era, invece,  un’attitudine critica da non abbandonare, era una tensione continua verso la realtà che, nel caso di Stefano, si è incarnata in azione e si è fatta proposta politica.

Nelle opere dedicate alla proprietà, da lui definita “il terribile diritto”, emerge la sua critica all’egoismo dei ricchi che divide la società in due fronti contrapposti. L’originalità della critica a tale istituto sta non tanto e non solo nella non proporzionalità ed iniquità della redistribuzione della ricchezza, ma nello stesso cuore della logica proprietaria, e cioè nell’appropriazione in sé e nello specifico rapporto che si instaura tra beni e soggetti.


Giordano Bruno
Filosofo e Scrittore Giordano Bruno

Da qui l’importanza che egli attribuisce alla categoria dell’inappropriabile. Per Stefano ciò che si sottrae all’appropriazione porta, infatti, necessariamente a relazioni non proprietarie fuori dall’alternativa tra proprietà privata e proprietà pubblica. E da qui anche la sua predilezione per la categoria dei beni comuni, la cui forza sta, appunto, nel sostituire la centralità del rapporto appropriativo con la centralità della gestione dei beni medesimi: i beni comuni sono, per Stefano, “l’opposto della proprietà”[3].  Come ha posto in evidenza Giso Amendola[4], a Rodotà interessa come si governa il bene, come lo si usa e non solo chi ne è il titolare. E se sono fondamentali la gestione e l’uso e non la titolarità e l’appropriazione, diviene cruciale e qualificante la dimensione sociale della proprietà o, meglio, la sua  funzionalizzazione ai fini sociali, espressamente riconosciuta dalla nostra Costituzione (art. 42, secondo comma), ma non dalla Carta Europea dei Diritti fondamentali (la c.d. Carta di Nizza), nonostante la proposta di modifica in tal senso avanzata dallo stesso Rodotà, dall’On. Paciotti e dal Sen. Manzella in sede di redazione della Carta stessa[5].

Ma c’è di più. Così ragionando, Stefano intende indebolire l’individualismo possessivo come inteso nella tradizione giuridica moderna. Il suo fine è di rompere il collegamento permanente tra uguaglianza e libertà da una parte e proprietà dall’altra e di offrire alla libertà la possibilità di svolgersi anche oltre i confini della proprietà e dell’individualismo soggettivo.

E’ in questo contesto teorico che egli colloca i beni di rilevanza collettiva, come quelli culturali e ambientali. Per Stefano, tali beni,  richiedono  una “proprietà di terzo grado” che li faccia addirittura divenire “patrimonio comune dell’umanità”[6], sottratto alla logica di uno sfruttamento legato ad una loro circolazione affidata all’uso libero dello strumento contrattuale. «La produzione della conoscenza – dice Stefano – la creazione scientifica di nuove realtà mostrano ogni giorno i limiti delle tecniche di appropriazione privata. Di accesso ai beni – egli aggiunge – non si parla soltanto per indicare l’attitudine ad impadronirsene in maniera esclusiva, ma in senso del tutto opposto: per individuare forme di godimento collettivo che mettano in moto meccanismi di “inclusione” degli interessi e, al tempo stesso, sottraggono i beni a forme di sfruttamento distruttivo».

Il pensiero di Stefano sull’istituto proprietario merita alcune brevi  considerazioni che non devono sembrare una critica e che si risolvono, in ultima analisi, nei seguenti interrogativi: la sua ricostruzione sarebbe in qualche modo possibile nel presente momento storico? Potrebbe la auspicata rivoluzione culturale contro il possessivismo giuridico essere condotta senza che sia accompagnata da un ribaltamento degli effetti della globalizzazione? Non si richiederebbe, in ogni caso, per raggiungere questo obiettivo una coesione sociale che invece, allo stato, è del tutto negata dall’individualismo, dalla finanziarizzazione in atto e dalla crisi dei valori prodotta dal neoliberismo?

Per finire, intendo soffermarmi su quello che definirei l’ultimo Rodotà, e cioè il Rodotà della tutela della privacy, dell’influenza delle nuove tecnologie e della lotta contro le degenerazioni della Rete. Ricordo che egli, oltre che come Garante della Privacy, come studioso si è occupato dei profili costituzionali delle tecniche informatiche relative alla Rete fino a prendere atto con preoccupazione dei possibili esiti della rivoluzione digitale in corso. Sono a tutti note le sue battaglie contro la formazione dei grandi imperi informatici, capaci non solo di abbattere le barriere che proteggono la vita privata, ma anche di controllare e ricattare i governi.
Egli è stato uno dei primi a porsi la domanda sui costi e sui benefici dell’innesto di elementi della democrazia diretta digitale nella democrazia rappresentativa in crisi, dandovi una risposta che così sintetizzerei: la democrazia diretta è un bene se la Rete è vista come un essential facility, e cioè come un essenziale strumento di maggiore partecipazione che colmi parzialmente la lacuna prodotta dalla crisi dei partiti; come un indispensabile veicolo per il fondamentale diritto di informare ed essere informati; come un ulteriore mezzo di controllo degli elettori sugli eletti. E’, però, un male e i suddetti benefici potrebbero annullarsi se la Rete non ha una sua disciplina a livello di garanzie costituzionali; se produce disintermediazione e resta in mano ad un’elite del web capace di gestirla senza controllo pubblico e, quindi, di determinare i comportamenti altrui e minare la sicurezza sui procedimenti e sul voto.


Stefano Rodotà
Stefano Rodota’ in una foto del  1980.

Per Rodotà questa problematica tocca la stessa nozione di democrazia in senso sostanziale e lo ha portato a prodigarsi per la costruzione di un sistema giuridico, nazionale ed internazionale, secondo un paradigma che, da una parte, tuteli a livello costituzionale il diritto di accesso alla Rete e, dall’altra, ponga a livello sovranazionale limiti ai possibili abusi di essa da parte sia dei gestori che degli utilizzatori. Il tutto sul presupposto di una netta separazione tra la proprietà della Rete (in mano ad un piccolo nucleo di oligopolisti nel mondo) e il suo uso e la sua gestione sotto il controllo delle Autorità di regolazione.

Quanto alla tutela del diritto di accesso la via da lui indicata è quella di intervenire nell’ordinamento interno integrando l’art. 21 della Costituzione con un comma che garantisca tale diritto e lo qualifichi come un diritto di rango costituzionale alla stessa stregua dei diritti sociali classici. La formulazione emendativa, proposta da Stefano nella c.d. Carta dei Diritti di Internet, è la seguente: «Tutti hanno uguale diritto di accedere alla Rete in condizioni di parità e con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». L’originalità di questa proposta sta nel fatto che, inserendo questa frase, il diritto di accesso non sarebbe un diritto nuovo, ma un mezzo di esercizio dei diritti e delle libertà di manifestazione del pensiero già garantiti dalla nostra Costituzione[7].

Ma la fondamentale garanzia di accesso non esaurisce, nel pensiero di Rodotà, l’ambito della tutela di tali diritti e libertà. Rimane il problema di fondo, di difficilissima soluzione, della predisposizione di articolate regole di comportamento relative all’uso e ai contenuti della Rete che siano in grado di operare con efficacia vincolante a livello planetario.

E’ convincente al riguardo la sua critica al pensiero di Gunther Teubner, secondo il quale la regolamentazione della Rete dovrebbe essere solo il frutto della stessa società civile e delle dinamiche sociali ed economiche da essa prodotte, da cui dovrebbero emergere “Costituzioni civili che prevalgono come fonte normativa sui tradizionali poteri politici e costituzionali”. Giustamente in diversi suoi interventi egli ha tacciato questa tesi di “medioevalismo istituzionale”, perché essa lascia la tutela dei diritti in Rete solo all’iniziativa dei soggetti privati, i quali, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche istituzioni capaci di intervenire. Sarebbe come accettare una privatizzazione del governo di Internet senza che altri attori, ai livelli più diversi, possano dialogare e mettere a punto regole comuni[8].


Tommaso Campanella
Il filosofo Tommaso Campanella

Ed ha ragione Stefano anche quando sostiene che il problema del controllo dei contenuti della Rete non può essere risolto facendo ricorso alle categorie astratte del costituzionalismo cosmopolitico, e cioè a costruzioni che, a parte ogni altra ragione, sarebbero per la loro universalità di difficile realizzazione. Per lui la via è semmai quella – impervia, ma più sicura – della graduale definizione di Carte internazionali di principi, dei c.d. Bill of rights. E se è vero che queste Carte non hanno ancora, nell’attuale contesto globalizzato non regolato, una forza pienamente cogente, è anche vero che  hanno pur sempre un loro valore giuridico in quanto indicano un modello sociale e politico che si contrappone a quello iperprivatistico teubneriano ed è comunque preferibile a quello, astratto, cosmopolita.

Su questi e altri temi Stefano è puntualmente intervenuto con attitudine spesso visionaria, dimostrando una eccezionale sensibilità costituzionale che è la sua vera cifra scientifica, il suo modo di essere giurista, la sua vocazione civica, come appunto recita il titolo del libro che contiene saggi a lui dedicati dai colleghi.
Un’ultima osservazione che vorrei fare non riguarda, però, la figura di Stefano giurista (anche) politicamente impegnato, ma il suo tratto umano. Era una persona che stava a suo agio più tra la gente comune che tra i politici, gli esperti e i rappresentanti del professionalismo politico. Egli ha dialogato volentieri con i movimenti sociali e con il sindacato. Basti pensare alla sua presidenza della Fondazione Lelio Basso, ai suoi incontri con i giovani che avevano occupato il Cinema America e il Teatro Valle e ai suoi interventi nei dibattiti organizzati dal suo sindacato preferito, la FIOM.

Stefano credeva nella Costituzione con fede laica; una fede che guarda ai valori della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà. Un omaggio che, nel compimento del 70° anniversario della Costituzione, chi crede in questi valori dovrebbe rendere a Stefano Rodotà è battersi perché si realizzino le promesse dei nostri costituenti.

[1] G. ZAGREBELSKY, Rodotà, giurista che metteva la persona sopra le regole, in La Repubblica, 2 ottobre 2017.

[2] La frase è tratta dall’incipit del suo libro Elogio del moralismo, edito nel 2011.

[3] S. RODOTA’, Il terribile diritto, Bologna, 2013, pp. 459 ss.

[4] G. AMENDOLA, Smontare la logica proprietaria. Uno stile critico tra regole e autonomia, in www.euronomade.info, 7 luglio 2017.

[5] Su questo delicato passaggio, vedi C. SALVI, Teologie della proprietà privata, Soveria Mannelli, 2017, p. 140 e A. GAMBARO, La proprietà, trattato di diritto privato, Milano, II edizione, 2017, p. XXI.

[6] Vedi, sullo specifico punto, il suo saggio Intorno alla proprietà, ricerche, ipotesi, problemi dal dopoguerra ad oggi, in  Rivista critica del diritto privato, 1988, pp. 153-241.

[7] E’ ciò che ha fatto, nel 2014, il Brasile approvando la Carta dei Diritti di Internet nella quale si riconosce, appunto, il diritto all’eguale accesso ad Internet e quello alla neutralità del WEB (Net neutrality).

[8] Così G. AZZARITI, Internet e Costituzione, in www.costituzionalismo.it, 6 ottobre 2011.


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