di Livio Zanotti
Cosa dicono, arrivati alla vecchiaia, quegli accaniti guerrieri della notte che hanno combattuto con diabolici intrighi, menzogne e violenze sanguinose per affermare le proprie verità assunte come dogmi: mors tua vita mea…? Hanno rischiato la vita, violato quella dei nemici e spinti dal principio che il fine giustifica i mezzi, talvolta anche la fiducia dei compagni, ucciso e spinto a uccidere. Il tramonto della loro avventura personale coincide con quello di un’epoca, quel XX secolo che taluni storici definiscono “breve” e altri -al contrario- “lungo”, per il suo protrarsi nel successivo, che stiamo appunto vivendo. Esistenze intere spese per ragioni di stato non sempre condivise, spesso camuffate o del tutto occulte ai loro stessi occhi: quanto valgono una volta giunte sulla soglia della fine, hanno avuto davvero un senso?
Legacy of spiesMolte verità storiche e qualche fantasia narrativa, informazioni riservate e riflessioni filosofiche sono ormai da tempo lo sfondo incrociato di romanzi, film e serie TV, che finiscono così per scorrere ai bordi della realtà e rivelarne indirettamente pieghe spesso scabrose, talvolta terribili, che stupiscono le platee e al medesimo tempo le assuefanno al peggio. Sono più d’uno gli ex agenti segreti che in un modo o nell’altro raccontano dall’interno gli inganni dello spionaggio internazionale. In un mondo che ha superato la guerra fredda ma non la sua logica strategica, per impantanarsi in tensioni sempre sul punto di esplodere e conflitti che sommano migliaia e migliaia di morti. Si tratta di confessioni a metà, che tuttavia diventano esemplari quando ne sono autori personaggi che per la notorietà o per la rilevanza del ruolo svolto diventano simbolici.
John Le Carré
A 86 anni, John Le Carré (David Moore Cornwell), una doppia identità: celebre scrittore e agente segreto di Sua Maestà britannica (Military Intelligence Section 6: MI6), pubblica “Il Testamento delle spie”, un addio alle spy-stories con cui per decenni ha raccontato come anche quei combattenti sconosciuti della guerra fredda avessero un’anima, sentimenti profondi. Con ansia s’interrogassero a chi o cosa dovessero riservare la loro estrema lealtà, posta continuamente alla prova, e soffrivano oltre a far soffrire. Lo spericolato mestiere, al quale ciascuno di essi -non importa da quale parte stessero-, è arrivato per circostanze e inclinazioni diverse, ha reso particolarmente difficili le vite private di tutti loro, amori, disamori, rapporti con i rispettivi affetti, con i figli specialmente, per chi ne ha avuti. Ne è valsa la pena, è andata come credevano?
Giunta l’ora della verità, il personaggio più emblematico dello scrittore inglese, George Smiley, responsabile delle covert operations, dice all’interlocutore, suo agente fidatissimo: ”Ho l’impressione che tu mi voglia accusare di qualcosa, per ciò che abbiamo fatto, per le ragioni che dicevamo di avere? (…) L’abbiamo fatto in nome del capitalismo? Spero di no. O -Dio non voglia- per il cristianesimo? Tutto per l’Inghilterra? In un certo momento, si. Però quale Inghilterra, l’Inghilterra di chi? L’Inghilterra solitaria, perduta chissà dove? Io mi sento europeo. Ben oltre la disputa con il nemico (sovietico n.d.r.), se mi sono sentito qualcosa mi sono sentito europeo. Se ho avuto un ideale è stato restituire all’Europa una nuova età della ragione e quest’ideale lo sento ancora”. Dunque uno Smiley-Le Carré che rifiuta la Brexit per invocare un’Europa europeista e umanitaria, capace di un nuovo illuminismo; tutt’altro che l’obiettivo unico d’un crudo pareggio di bilancio delle sue economie nazionali.
Mappa di Berlino divisa
Non molto diversi sono i toni di delusione che ho ascoltato nelle parole dell’ebreo tedesco Markus Wolf, sempiterno nemico dell’Intelligence britannica (e della CIA americana), tirato fuori in carne ed ossa dalla viva realtà della guerra fredda e trasportato sulle pagine del più fortunato dei romanzi di Le Carré, “La Talpa”. Wolf ha diretto per 35 anni il servizio di spionaggio all’estero della Repubblica Democratica Tedesca (DDR); e per tutto questo tempo, dall’oscurità dei suoi rifugi a Berlino Est ha giocato con l’MI6 un’ininterrotta partita a scacchi in cui torri, pedoni, re, regine e alfieri erano uomini e donne addestrati ad ottenere in ogni modo il massimo delle informazioni sul nemico. Non escluse quelle sulle sue questioni private, in quanto potevano costituire un varco per meglio colpirlo. E a Le Carré, che in qualche misura vi ha avuto accesso, hanno permesso di rendere tanto verosimili i suoi personaggi.
il “Glienicke brucke”, fino al 1989 confine tra le due Germanie, detto “Ponte delle spie”
Soltanto verso la fine degli anni Settanta lo spionaggio britannico ha ottenuto dati rilevanti sulla vera identità di Markus Wolf, ma da tempo intuiva che chiunque egli fosse, era in forte dissidio politico con il suo superiore diretto, il generale Erich Mielke, lo spietato generale stalinista che dirigeva la STASI, la metastasi poliziesca della Germania Est. E ne ricavava l’ipotesi che se conservava il posto lo doveva alla fiducia dei sovietici. Come in effetti era. Figlio di uno scrittore comunista rifugiatosi con la famiglia in Unione Sovietica all’avvento al potere di Hitler, aveva studiato a Mosca e al momento dell’invasione nazista ricevuto addestramento militare nell’Armata Rossa. Nei cruciali anni Ottanta fu protetto da Yurij Andropov, che prima di comandare il KGB e poi -brevemente- l’Unione Sovietica, aveva studiato sociologia e guidava la corrente riformista alternativa all’immobilismo di Breznev e dei suoi.
Da sinistra: Livio Zanotti, Andrea Wolf, Alicia Zanotti, Markus Wolf
Ho conosciuto Markus Wolf poco dopo l’abbattimento del Muro e poi l’ho incontrato più volte: a Berlino, dove allora risiedevo come corrispondente della RAI-TV, e a Roma, quando successivamente è venuto a visitarci con la moglie, Andrea, che aveva stabilito un rapporto cordiale con la mia, Alicia. Era una persona molto orgogliosa, oltre che colta e di temperamento risoluto: però crollato il blocco sovietico, scomparsa la DDR con la riunificazione tedesca, a volte appariva perplesso se non smarrito. Le vecchie certezze del marxismo positivista incrinate da un certo fatalismo. Se ne coglieva qualche segno anche nei suoi libri, memorie personali e familiari, ricettari di cucina come metafora politica. “Si -ammise in un’occasione- finalmente ne posso parlare, quella di scrivere è stata una libera scelta…”. Sinceramente sorpreso, gli domandai se fino ad allora fosse stato invece costretto, e da chi. “Ma che domande, come da chi… Ma dalla vita!”, rispose di getto.
Kim Philby, il leader intellettuale del brillante gruppo di studenti di Cambridge anni ‘50 divenuti comunisti, poi doppi agenti dell’MI6 e del KGB
E prese a spiegare: “Attenzione, non sono un pentito… Ma se una volta passati in Svizzera, come tanti altri ebrei tedeschi fossimo andati in America, la mia vita, quella di tutta la nostra famiglia, sarebbe stata con ogni probabilità diversa. Così come per le scelte successive: tutte! Ma l’URSS era la trincea principale della battaglia anti-fascista, noi eravamo comunisti e siamo andati a combattere da quella trincea, la scelta era fatta. E’ venuta la guerra mondiale, potevamo avere dubbi sulla parte con cui stare? Poi tutto è risultato diverso, sempre più diverso da come l’avevamo immaginato. E c’è voluto tempo per frugare fino in fondo nelle nostre coscienze, capire e smettere di concedere proroghe ai nostri giudizi sulla realtà che avevamo davanti, quelle della DDR, dell’URSS; poichè neppure ci convinceva l’altra che intravvedevamo oltre frontiera, in Occidente…”. L’uomo è un mistero che non cessa di affascinare, commenterebbe Feodor Dostoevskij.
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