domenica 30 dicembre 2018

CRONACA DI UN VIAGGIO IN GIORDANIA

(Amman, l'anfiteatro romano)

di Diego Siragusa

Il Ministero per gli affari religiosi della Giordania ha invitato me ed altri amici a partecipare ad un convegno internazionale su Gerusalemme che doveva svolgersi nei giorni 20 e 21 dicembre 2018. Per motivi logistici, considerata l'eccessiva partecipazione di delegati, si è deciso di annullare l'evento e programmarlo per il mese di aprile 2019, prolungando la durata da due a tre giorni. Nel frattempo, gli organizzatori hanno voluto concederci l'opportunità di conoscere la realtà giordana e di visitare alcune istituzioni di assistenza, partiti politici e campi profughi. 



Assieme a tre amici giornalisti free lance: Luca Steinmann, Matteo Meloni e Damiano Greco, abbiamo avuto una serie di incontri di rilevante interesse conoscitivo ed esplorativo. Gli amici palestinesi, presenti in gran numero in Giordania, ci hanno aiutato, come guide e interpreti, conducendoci a visitare i campi profughi di Jabal e Baq'a, che si trovano ad Amman, e facendoci incontrare varie personalità della società civile e politica giordana attive nelle organizzazioni assistenziali. La nostra guida preziosa è stato Kazim Ayesh, palestinese, presidente della RETURN AND REFUGEES SOCIETY, parla inglese e ci ha fatto da interprete. 


(Kazim Ayesh)

CAMPO PROFUGHI DI JABAL

Fu costruito a nord-ovest di Amman nel 1952 per accogliere le famiglie palestinesi che sfuggivano alla pulizia etnica e ai massacri che i sionisti avevano commesso sulla popolazione civile per indurla a spopolare i villaggi ed entrarne in possesso. Vi abitano circa 30.000 palestinesi che, nel corso degli anni, hanno costruito case e negozi fino a trasformare il campo in un quartiere ormai incorporato alla città di Amman. Qui si è sviluppata una "economia del campo" fatta di artigiani, di negozi, di commercio di generi alimentari, ristoranti e servizi vari. L'immagine ci parla della povertà dei palestinesi, il disordine, la sporcizia lungo le strade, l'assenza di qualunque piano regolatore dovuta all'urgenza di provvedere ad una casa, a un tetto per questo popolo di profughi.  Le strade sono attraversate da un reticolo di fili elettrici che pendono da tutte le parti e i tetti mostrano centinaia di antenne paraboliche.
La UNRWA (United Nations Relief and Works Agency), dove Kazim ha lavorato per 27 anni, provvede, in parte, a fornire assistenza sanitaria e istruzione scolastica. I mercati sono colmi di merce. I negozi alternano vetrine pretenziose che mostrano abiti alla moda e prodotti elettronici con bottegucce umili, sudicie in prossimità di gallerie e cunicoli che diventano veri bazar, mercati coperti dove non manca nulla. 



Le donne sono numerose: in maggioranza indossano il velo ma solo una minoranza si attarda a indossare il fastidioso burka mostrando solo la fessura degli occhi. Sono quasi sempre le donne che chiedono l'elemosina, sia palestinesi che siriane fuggite dalla guerra. Mostro un euro, ma rifiutano, vogliono il dinaro giordano. Una bimba mi tende la mano. Un negoziante mi ha regalato una lattina di Coca Cola, gliela do ed è felice. L'amico palestinese che ci accompagna ci ha raccomandato di non dire di essere giornalisti, potrebbero essere reticenti e sospettosi a causa di tutte le menzogne che la stampa occidentale racconta su di loro. 






Nel campo ci sono anche delle piccole banche che elargiscono microcredito in aiuto ad artigiani e imprenditori. Una città nella città dove non vediamo ufficiali di polizia, ma ci sono, vestiti in borghese e svolgono funzioni di controllo alle dirette dipendenze del dipartimento di polizia giordana. Infatti, uno di loro si avvicina e ci chiede di seguirli nella loro sede. Ci offrono il té mentre attendiamo il responsabile dell'ufficio che arriva quasi subito. Si siede alla scrivania, ci chiede i passaporti e non nasconde il suo piglio di poliziotto, di piccola autorità locale. Alla fine ci saluta e ci accompagna all'uscita raccomandandoci di segnalare la nostra presenza in una eventuale prossima volta. 




CAMPO PROFUGHI DI BAQA'A

Istituito nel 1968, si trova a mezz'ora di macchina da Amman e ci vivono 120.000 rifugiati palestinesi. È il più grande campo profughi palestinese in Giordania e uno dei 10 campi profughi ufficialmente registrati dalla UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione. Si trova su un terreno basso dove l'acqua piovana si raccoglie e si riversa dalle montagne circostanti. 
Su un muro bianco qualche artista ha provato a disegnare alcune pagine dell'epopea palestinese: la mancanza d'acqua e i rubinetti collettivi un tempo diffusi nel campo, la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, la bandiera palestinese sventolata con orgoglio, la morte di Muhammad al-Dura nel 2000, il bambino palestinese intrappolato in una sparatoria assieme al padre e colpito da pallottole israeliane.
Solo un anno dopo l'allestimento del campo, le forze armate giordane bombardarono e invasero le strade di Baqa'a dopo gli scontri scoppiati ad Amman tra l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l'esercito giordano in quel tragico evento passato alla storia come "Settembre Nero". Il conflitto costrinse l'OLP a spostare il suo quartier generale nella capitale libanese, a Beirut, e il re giordano Hussein riprese il controllo delle aree catturate dai combattenti palestinesi.



Nel 1968 il campo accolse gli sfollati che avevano lasciato la West Bank e la striscia di Gaza dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967. Fu costruito in tre fasi: 1 - distribuendo le tende; 2 - dotando i rifugiati di strutture portatili; 3 - costruendo case di cemento per gli abitanti. Qui  la UNRWA,  che ha una sede piuttosto ampia e moderna, distribuisce cibo, assistenza sanitaria e istruzione scolastica, ma non riesce ad assicurare tutto. Sono necessarie altre organizzazioni di beneficenza per affiancare l'UNRWA in questo compito immenso e difficile.

(La sede dell'UNRWA nel campo di Baqa'a)







Soccorre una organizzazione: THE ISLAMIC CHARITY CENTER SOCIETY. Incontriamo il direttore, il sig. Ziad Qteshat che ci spiega le attività del centro istituito nel 1987 per assistere gli orfani, le vedove e i poveri. Le attività non sono diverse da qualsiaso organizzazione cattolica di beneficenza: cure sanitarie, sostegno economico continuato, attività sportive e di intrattenimento, fornitura di cibo, addestramento ai lavori manuali e artigianali, corsi di formazione e attività religiose ispirate ai valori dell'islam. 



 (A sinistra, il direttore del THE ISLAMIC CHARITY CENTER SOCIETY, 
Ziad Qteshat)


THE ISLAMIC ACTION FRONT PARTY

Una parte del nostro viaggio è dedicata all'incontro coi partiti politici presenti in Giordania. Abbiamo avuto la fortuna della disponibilità per una intervista dall'ing. Murad al-Adaileh, portavoce e Segretario Generale del ISLAMIC ACTION FRONT PARTY. Si tratta in realtà della sezione giordana della Fratellanza Musulmana. 




 (L'ing. Murad al - Adaileh - al centro -, portavoce del 
ISLAMIC ACTION FRONT PARTY)


(Il simbolo del ISLAMIC ACTION FRONT PARTY)

Il Segretario Aidaleh ci illustra gli obiettivi del suo partito che ha eletto 15 deputati al parlamento nelle elezioni del 2016:

 La ripresa della vita islamica nella società, l'attuazione della legge islamica "Sharia" in tutti gli aspetti della vita, la partecipazione alla costruzione della nazione, materialmente e moralmente, e il contributo al progetto arabo-rinascimentale islamico. Preparare la nazione a combattere i sionisti e i coloniali; servire la causa palestinese nella sua cornice arabo-islamica, e cercare la liberazione della Palestina dai sionisti .
- Cercare l'unità e la libertà della nazione; resistere all'influenza coloniale straniera. Promozione dell'unità nazionale e del sistema consultivo democratico; difendere i diritti e la dignità del popolo oltre alle libertà in generale; curare i problemi della vita delle persone; servire il popolo; sviluppo globale della società da un punto di vista islamico.
(I ritratti del re Abdallah II e del principe Hussein sono dappertutto)

Inizia la conversazione mettendo al centro il problema di una nuova legge elettorale che sia rappresentativa della forza reale dei vari partiti presenti in Giordania. Attualmente i partiti alleati della monarchia ashemita godono di un trattamento favorevole e, praticamente, sono inamovibili dall'esercizio del potere. Il partito di Adaileh si dichiara contro la politica degli Stati Uniti ma non contro il popolo americano. 
A una mia precisa domanda sulla causa palestinese e sul trattato di pace tra la Giordania e Israele, risponde riaffermando il sostegno alla causa palestinese che fa parte degli obiettivi del partito, e critica la politica del re di Giordania verso Israele e gli Stati Uniti. Il re Abdullah II - gli faccio osservare - ha ereditato dal padre, Hussein, quel trattato di pace per il quale riceve ogni mese un sostanzioso assegno in dollari dagli americani. In Giordania la presenza americana è visibile: banche, multinazionali, ristoranti Mc Donald, Burghy ecc. Adaileh si mostra d'accordo: "Non penso che la politica verso Israele serva alla Giordania" - dice - E critica la dipendenza economica dagli Stati Uniti voluta dal re. Aggiunge una polemica sulla gestione delle acque ricordando le deviazioni del fiume Giordano da parte di Israele che hanno impoverito giordani e palestinesi e arricchito Israele. 


Chiedo cosa pensa della gestione dei luoghi santi dell'Islam a Gerusalemme, affidati in custodia alla dinastia hashemita, e come sono i rapporti tra musulmani e cristiani. "I rapporti tra noi e i cristiani sono buoni. L'oltraggio che gli israeliani e, soprattuto, i coloni ebrei rivolgono alla spianata delle moschee a Gerusalemme non ha ricevuto da parte del re una reazione appropriata, bensì molto limitata". Ultima domanda: la questione siriana. La risposta di Adaileh è sintetica e ferma: "In Siria c'è una dittatura familiare. Nonostante le elezioni con più candidati, il potere è sempre nelle mani della famiglia Assad. Un cambiamento è necessario". 

I PROFUGHI SIRIANI

In Giordania vi sono cinque campi profughi per siriani che accolgono circa 1.350.000 persone.  Oltre a due milioni di palestinesi, vi sono circa un milione di iracheni. L'Alto Commissariato dell'ONU per i rifugiati assiste la gente assieme a organizzazioni giordane non governative. I siriani che hanno deciso di rientrare volontariamente in Siria sono pochi: circa 35.000. Tra quelli rimasti, il 70% non vorrebbe più tornare per motivi di sicurezza o economici, oppure per non precisate minacce di rappresaglia da parte del governo. Di loro si occupa la AL-KETAB & AL SONNA ASSOCIATION, una organizzazione umanitaria islamica che eroga assistenza ai profughi. Il suo presidente, Zayed Ibrahim Hammad, ci assicura che non praticano proselitismo religioso, sono imparziali, ed evitano ogni forma di settarismo. In altri termini: non fanno distinzione tra musulmani sciiti e sunniti, drusi, alawiti, cristiani, non credenti ecc... I criteri di lavoro sono simili a quelli adottati dalla Croce Rossa Internazionale. La sede si trova nella parte sud di Amman e fornisce i seguenti servizi: aiuti finanziari, assistenza sanitaria, sostegno psicologico, progetti di sviluppo economico, formazione professionale. E' una delle maggiori associazioni in Giordania tra quelle che assistono i profughi siriani. Finora hanno speso 150 milioni di dollari. Chiediamo da dove arrivano i soldi: 40% dal Qatar, 37% dall'Arabia Saudita, 6% dalla Giordania, 4,5% dalla Libia, 1,5% dagli USA, 2% dall'Unione Europea, 1,5% dal Bahrein, 1,5% dagli Emirati Arabi. A questi si aggiungono le donazioni private. 
Chiediamo se è possibile intervistare alcune famiglie di profughi. Il sig. Hammad si dimostra subito disponibile e ci mette a disposizione una persona che ci accompagnerà il giorno dopo a visitare cinque famiglie di profughi provenienti dalla città siriana di Homs e che abitano nel quartiere di Nazzal, ad Amman. 



Il mattino dopo eravamo in un quartiere povero formato da case popolari, vecchie e sudicie. Ci accolgono con imbarazzo, ci togliamo le scarpe e ci sediamo sui materassi foderati che di notte diventano letti. Le donne e i bambini sono reticenti e dobbiamo familiarizzare prima di riuscire ad avere qualche risposta che abbia senso. Dicono che la loro casa è stata distrutta e non vogliono più tornare in Siria. Evitano di dire se stanno dalla parte del governo o dei mercenari dell'ISIS. Gli uomini, attorniati da nidiate di figli, ci raccontano la loro professione: tappezziere, lavoratore a contratto nel settore delle costruzioni, muratore e falegname. Due donne si presentano a noi completamente velate. Ci lanciano occhiate curiose e poi si ritirano in cucina. Il falegname, un uomo giovane e con una faccia simpatica, è molto loquace. Dice di aver avuto una buona situazione economica in Siria. Racconta che i suoi nipoti sono stati uccisi e decapitati, la sua famiglia sterminata. Alla nostra domanda: "Da chi?", dà una risposta che non ci convince: "Dalle milizie sciite". Io e miei amici giornalisti abbiano una discreta conoscenza della guerra contro la Siria, ma questa è la prima volta che sentiamo un racconto simile. Neanche i più faziosi giornali occidentali o sauditi o qatarioti hanno mai fatto una simile affermazione. Sia Hetzbollah che gruppi sciiti iracheni, schierati col governo del presidente Assad, non sono mai stati soggetti ad accuse di questo genere. Ho rivolto il quesito il giorno dopo ad un esponente dal Partito Nazionale Sociale Siriano che mi ha dato questa risposta: "I combattenti di Hetzbollah sono molto disciplinati. Si tratta della solita bugia della propaganda". Prima di andar via, ho chiesto al falegname se potevo scattare una foto a lui e alla moglie completamente velata. Cortesemente mi ha detto di no. Potevo fotografare solo lui. Ho risposto che non mi interessava fotografare lui. Credo che abbia capito. 




(Profughi siriani)

Venerdì 21 dicembre 2018. Amman è vuota. Giorno di riposo come per noi la domenica. Si va in moschea per pregare, per incontrarsi, per stare insieme. Il Ministero per gli Affari Religiosi ci ha messo a disposizione un autista che ci conduce, su nostra richiesta, a visitare il monte Nebo dove, secondo la Bibbia, Mosè ricevette la promessa della terra. E' un luogo suggestivo visitato da molti turisti che vengono da ogni angolo del mondo. Dalla sommità del monte si vede la valle del Giordano, il Mar Morto e, nelle giornate limpide, anche Gerusalemme e Nablus. I francescani sono custodi di questo sito della Terra Santa e papa Woytila, prima di morire, venne qui e piantò un alberello di ulivo, simbolo di una pace che, forse, non arriverà mai. 


(La valle del Giordano vista dal Monte Nebo. A sinistra si nota uno scorcio del Mar Morto)

Incontro un frate e mi presento come ex allievo dei francescani e compagno di studi di padre Eugenio Alliata, illustre archeologo dei luoghi santi. Quando ero ragazzo, avevo studiato in un convento francescano e avevo avuto come compagno di banco Eugenio Alliata. Io abbandonai il convento, ma Eugenio divenne frate, andò in Terra Santa e divenne, assieme a padre Piccirillo, uno dei più grandi studiosi di archeologia dei luoghi santi. Quando nel 2004 andai in Palestina per incontrare Arafat, cercai Eugenio tramite un frate che era nel mio stesso albergo e che mi aveva dato il suo numero di telefono. Lo chiamai ma, nonostante lo sollecitassi coi miei ricordi di scuola, Eugenio non si ricordava più di me. Mi esortò ad andarlo a trovare nella chiesa della Flagellazione dove lui risiede tuttora, però non ebbi più l'opportunità. Padre Piccirillo è morto ed ora Eugenio ha preso il suo posto facendo un lavoro di elevato valore scientifico e filologico.  

(Padre Ammar Shahin)



(L'albero di ulivo piantato da Giovanni Paolo II)

Il frate che ho incontrato si chiama Ammar Shahin ed è stato per circa 20 anni custode della chiesa della Natività a Betlemme. Parla perfettamente l'italiano. Si mostra disponibile alle domande dei miei amici giornalisti e, inevitabilmente, gli confidiamo di essere simpatizzanti della causa palestinese. Padre Ammar non è diplomatico e, dopo averci detto che in Terra Santa tra cristiani e musulmani i rapporti sono "ottimi", si abbandona a considerazioni molto severe sulla condotta degli israeliani. "Non vogliono la pace", dice alla fine. Ci dà il suo indirizzo di posta elettronica e ci saluta alla maniera francescana: "Pace e bene". 



Torniamo ad Amman dopo aver visitato nei dintorni la chiesa di San Giorgio. Abbiamo conosciuto un grande amico durante la nostra permanenza in Giordania che ci ha aiutato nei nostri vari incontri: Issam Khatatbeh, rappresentante in Giordania dell'associazione italo-araba ASSADAKAH. In gioventù ha vissuto dieci anni in Italia laureandosi in Scienze Politiche all'Università di Perugia. Pur essendo giordano, militava nell'OLP. In Italia simpatizzava per il PCI e la domenica andava a diffondere l'Unità. Si era legato di una fraterna amicizia col grande storico comunista Giuliano Procacci a cui aveva insegnato l'arabo. Dopo la laurea era tornato in Giordania e, nonostante le diffidenze per la sua precedente militanza nell'OLP, divenne il portavoce del Ministero dell'informazione. Siamo tutti invitati a pranzo a casa sua. Il giorno dopo, sabato 22 dicembre, ritorneremo in Italia, e Issam, prima della nostra partenza, vuole farci conoscere la sua piccola famiglia: la moglie, una figlia e un figlio. 

(Il giornalista Luca Steinmann e, a destra,  Issam Khatatbeh)

Nel tardo pomeriggio ci aspettano in albergo due deputati del Parlamento giordano componenti la Commissione per la Palestina:  Saud Salem Ali Abu Mahfouz e Ahmed Sulaiman Awad Al Raqab. Riceviamo la visita anche del segretario generale della Waqf di Gerusalemme, la fondazione islamica che gestisce la Spianata delle Moschee, sotto la supervisione giordana. Ci motivano le ragioni che hanno consigliato agli organizzatori di spostare la data del convegno nel mese di aprile 2019 e di stabilire la durata in tre giorni. Con gli auspici di poterci rivedere tutti insieme in occasione del convegno, i due parlamentari ci hanno offerto una cena in un ristorante tipicamente giordano stringendo un rapporto reciproco di amicizia, di fiducia e di stima. 

 (A destra, il deputato Saud Salem Ali Abu Mahfouz)

 (A destra, il deputato Ahmed Sulaiman Awad Al Raqab)









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