LETTERA
ENCICLICA
FRATELLI
TUTTI
DEL SANTO
PADRE
FRANCESCO
SULLA
FRATERNITÀ
E
L'AMICIZIA SOCIALE
1. «Fratelli tutti»,[1] scriveva
San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e
proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli
voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere
della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro
«quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».[2] Con queste
poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che
permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della
vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.
2. Questo Santo dell’amore
fraterno, della semplicità e della gioia, che mi ha ispirato a scrivere
l’Enciclica Laudato si’, nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova Enciclica
alla fraternità e all’amicizia sociale. Infatti San Francesco, che si sentiva
fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a
quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò
accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi.
Senza frontiere
3. C’è un episodio della sua vita
che ci mostra il suo cuore senza confini, capace di andare al di là delle
distanze dovute all’origine, alla nazionalità, al colore o alla religione. È la
sua visita al Sultano Malik-al-Kamil in Egitto, visita che comportò per lui un
grande sforzo a motivo della sua povertà, delle poche risorse che possedeva,
della lontananza e della differenza di lingua, cultura e religione. Tale
viaggio, in quel momento storico segnato dalle crociate, dimostrava ancora di
più la grandezza dell’amore che voleva vivere, desideroso di abbracciare tutti.
La fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore per i fratelli e le
sorelle. Senza ignorare le difficoltà e i pericoli, San Francesco andò a
incontrare il Sultano col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli:
che, senza negare la propria identità, trovandosi «tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o
dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio».[3] In quel
contesto era una richiesta straordinaria. Ci colpisce come, ottocento anni fa,
Francesco raccomandasse di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche
di vivere un’umile e fraterna “sottomissione”, pure nei confronti di coloro che
non condividevano la loro fede.
4. Egli non faceva la guerra
dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che
«Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv
4,16). In questo modo è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una
società fraterna, perché «solo
l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento,
non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé
stesse, si fa realmente padre».[4] In quel mondo pieno di torri di
guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie
potenti, mentre crescevano le zone miserabili delle periferie escluse. Là
Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di
dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con
tutti. A lui si deve la motivazione di queste pagine.
5. Le questioni legate alla
fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie preoccupazioni.
Negli ultimi anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi.
Ho voluto raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli
in un contesto più ampio di riflessione. Inoltre, se nella redazione della
Laudato si’ ho avuto una fonte di ispirazione nel mio fratello Bartolomeo, il
Patriarca ortodosso che ha proposto con molta forza la cura del creato, in
questo caso mi sono sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale mi
sono incontrato ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri
umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a
convivere come fratelli tra di loro».[5] Non si è trattato di un mero atto
diplomatico, bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno
congiunto. Questa Enciclica raccoglie e sviluppa grandi temi esposti in quel
Documento che abbiamo firmato insieme. E qui ho anche recepito, con il mio
linguaggio, numerosi documenti e lettere che ho ricevuto da tante persone e
gruppi di tutto il mondo.
6. Le pagine che seguono non
pretendono di riassumere la dottrina sull’amore fraterno, ma si soffermano
sulla sua dimensione universale, sulla sua apertura a tutti. Consegno questa
Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a
diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di
reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si
limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni
cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la
riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà.
7. Proprio mentre stavo scrivendo
questa lettera, ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia del
Covid-19, che ha messo in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie
risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di
agire insieme. Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una
frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano
tutti. Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello
che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi
e le regole già esistenti, sta negando la realtà.
8. Desidero tanto che, in questo
tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana,
possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra
tutti: «Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una
bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è
bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo
a vicenda a guardare avanti. Com’è
importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per
cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme».[6]
Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana,
come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la
ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce,
tutti fratelli!
CAPITOLO PRIMO
LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO
9. Senza la pretesa di compiere
un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della
realtà che viviamo, propongo soltanto di porre attenzione ad alcune tendenze
del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale.
Sogni che vanno in frantumi
10. Per decenni è sembrato che il
mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente
verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di
un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la
diversità che la abita. Ricordiamo «la ferma convinzione dei Padri fondatori
dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di
lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la
comunione fra tutti i popoli del continente».[7] Ugualmente ha preso forza
l’aspirazione ad un’integrazione latinoamericana e si è incominciato a fare
alcuni passi. In altri Paesi e regioni vi sono stati tentativi di pacificazione
e avvicinamenti che hanno portato frutti e altri che apparivano promettenti.
11. Ma la storia sta dando segni
di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si
ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e
aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione,
impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del
senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali. E
questo ci ricorda che «ogni generazione deve far proprie le lotte e le
conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. È il
cammino. Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si
raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi di
quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale
situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora
situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti».[8]
12. “Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata
fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente
all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di
investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse
per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre
un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone
e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma
non ci rende fratelli».[9] Siamo più soli che mai in questo mondo massificato
che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza.
Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori
o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità
dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità
delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa
sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano
il “divide et impera”.
La fine della coscienza storica
13. Per questo stesso motivo si
favorisce anche una perdita del senso della storia che provoca ulteriore
disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”,
per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il
bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di
individualismo senza contenuti. In questo contesto si poneva un
consiglio che ho dato ai giovani: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice di ignorare la storia, di
non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di disprezzare tutto ciò che è
passato e guardare solo al futuro che lui vi offre, non è forse questo un modo
facile di attirarvi con la sua proposta per farvi fare solo quello che lui vi
dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di
tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse e sottomettervi ai suoi
piani. È così che funzionano le ideologie di diversi colori, che distruggono (o
de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare
senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino
la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata
attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha preceduti».[10]
14. Sono le nuove forme di colonizzazione culturale. Non
dimentichiamo che «i
popoli che alienano la propria tradizione e, per mania imitativa, violenza impositiva,
imperdonabile negligenza o apatia, tollerano che si strappi loro l’anima,
perdono, insieme con la fisionomia spirituale, anche la consistenza morale e,
alla fine, l’indipendenza ideologica, economica e politica».[11] Un modo
efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per
la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o
alterare le grandi parole. Che
cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia,
unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di
dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare
qualsiasi azione.
Senza un progetto per tutti
15. Il modo migliore per dominare
e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la
sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti Paesi si utilizza
il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con
varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale
scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di
loro, di accerchiarli. Non
si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società
si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte. La politica
così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo
di tutti e del bene comune, bensì
solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la
risorsa più efficace. In questo gioco meschino delle squalificazioni, il
dibattito viene manipolato per mantenerlo allo stato di controversia e
contrapposizione.
16. In questo scontro di interessi che ci pone tutti contro
tutti, dove vincere viene ad essere sinonimo di distruggere, com’è possibile
alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a chi è caduto
lungo la strada? Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di
tutta l’umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e il
cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e
drastico arretramento.
17. Prendersi cura del mondo che
ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo
bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri
economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa
dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità
quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo
producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte
all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per
nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni».[12]
Lo scarto mondiale
18. Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una
selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti. In
fondo, «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e
tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i
nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati
insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra
i più deprecabili».[13]
19. La mancanza di figli, che
provoca un invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle
persone anziane a una dolorosa solitudine, afferma implicitamente che tutto
finisce con noi, che contano solo i nostri interessi individuali. Così,
«oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli
stessi esseri umani».[14] Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in
alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma
in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore e
in altre circostanze: crudelmente scartati. Non ci rendiamo conto che isolare
le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e
premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia
stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le
loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere.
20. Questo scarto si manifesta in molti modi, come
nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi
conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come
effetto diretto di allargare i confini della povertà.[15] Lo scarto,
inoltre, assume forme spregevoli che credevamo superate, come il razzismo, che
si nasconde e riappare sempre di nuovo. Le espressioni di razzismo rinnovano in noi la vergogna
dimostrando che i presunti progressi della società non sono così reali e non
sono assicurati una volta per sempre.
21. Ci sono regole economiche che
sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo
umano integrale.[16] È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che
accade è che «nascono nuove povertà».[17] Quando si dice che il mondo moderno
ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non
paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non
avere accesso all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e
non era motivo di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle
possibilità reali di un momento storico concreto.
Diritti umani non
sufficientemente universali
22. Molte volte si constata che,
di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali
diritti «è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico
di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti
vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza
e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del
bene comune».[18] Ma «osservando con attenzione le nostre società
contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci
se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata
70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni
circostanza. Persistono
oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche
riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a
sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte
dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità
disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati
o violati».[19] Che cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti
fondata sulla medesima dignità umana?
23. Analogamente,
l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare
con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici
diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la
realtà gridano un altro messaggio. È un fatto che «doppiamente povere sono le
donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché
spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti».[20]
24. Riconosciamo ugualmente che,
«malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di
porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse
strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne
di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni
assimilabili a quelle della schiavitù. […] Oggi come ieri, alla radice
della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la
possibilità di trattarla come un oggetto. […] La persona umana, creata ad
immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica
o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di
qualcuno; viene trattata
come un mezzo e non come un fine». Le reti criminali «utilizzano
abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e
giovanissimi in ogni parte del mondo».[21] L’aberrazione non ha limiti quando
si assoggettano donne, poi forzate ad abortire. Un atto abominevole che arriva
addirittura al sequestro delle persone allo scopo di vendere i loro organi.
Tutto ciò fa sì che la tratta di persone e altre forme di schiavitù diventino
un problema mondiale, che esige di essere preso sul serio dall’umanità nel suo
insieme, perché «come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per
raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno
richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori
che compongono la società».[22]
Conflitto e paura
25. Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o
religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi
diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente
economici. Ciò che è
vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo
interesse. Tali situazioni di violenza vanno «moltiplicandosi dolorosamente
in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si
potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”».[23]
26. Questo non stupisce se
notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché
in ogni guerra ciò che risulta distrutto è «lo stesso progetto di fratellanza,
inscritto nella vocazione della famiglia umana», per cui «ogni situazione di
minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento».[24] Così, il nostro mondo
avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità
e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di
paura e sfiducia».[25]
27. Paradossalmente, ci sono
paure ancestrali che non sono state superate dal progresso tecnologico; anzi,
hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie. Anche oggi,
dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il
deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non
è familiare, non appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è
“barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo. Di conseguenza si creano
nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste
unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati
esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”. Riappare «la tentazione di fare una
cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per
impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un
muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito,
senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità».[26]
28. La solitudine, le paure e
l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate dal sistema, fanno
sì che si vada creando un terreno
fertile per le mafie. Queste infatti si impongono presentandosi come
“protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di aiuto, mentre
perseguono i loro interessi criminali. C’è una pedagogia tipicamente mafiosa
che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di
subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi.
Globalizzazione e progresso senza
una rotta comune
29. Con il Grande Imam Ahmad
Al-Tayyeb non ignoriamo gli sviluppi positivi avvenuti nella scienza, nella
tecnologia, nella medicina, nell’industria e nel benessere, soprattutto nei
Paesi sviluppati. Ciò nonostante, «sottolineiamo che, insieme a tali progressi
storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che
condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e
del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione
generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione […]. Nascono focolai
di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale
dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e
controllata dagli interessi economici miopi». Segnaliamo altresì «le forti
crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle
risorse naturali. […] Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame
milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e
della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile».[27] Davanti a
questo panorama, benché ci attraggano molti progressi, non riscontriamo una
rotta veramente umana.
30. Nel mondo attuale i
sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la
giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina
un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda
disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che
possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca.
Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce «a una
sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo
per questa strada della disillusione o della delusione. […] L’isolamento e la
chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare
speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura
dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura
dell’incontro, sì».[28]
31. In questo mondo che corre
senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra
l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa
sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana
sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi
costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza
dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme».[29] La
tecnologia fa progressi continui, ma «come sarebbe bello se alla crescita delle
innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre
maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo
nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che
mi orbitano attorno!».[30]
Le pandemie e altri flagelli
della storia
32. Una tragedia globale come la
pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la
consapevolezza di essere una
comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno
di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può
salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che «la tempesta smaschera la
nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con
cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini
e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con
cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è
rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla
quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».[31]
33. Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che,
utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e
qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché
tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di
questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri
umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo riconoscere che
«ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per
mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni
e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido
e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della
virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà».[32] Il dolore,
l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia
ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le
nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso
della nostra esistenza.
34. Se tutto è connesso, è
difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il
nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni
assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si
tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il
danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la
realtà stessa che geme e si ribella. Viene
alla mente il celebre verso del poeta Virgilio che evoca le lacrimevoli
vicende umane.[33]
35. Velocemente però
dimentichiamo le lezioni della storia, «maestra di vita».[34] Passata la crisi
sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un
febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il
Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia
stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di
imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori,
in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un
così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo
di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori
gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le
mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato.
36. Se non riusciamo a recuperare
la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla
quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna
crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto.
Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che «l’ossessione per uno stile di vita consumistico,
soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto
violenza e distruzione reciproca».[35] Il “si salvi chi può” si tradurrà
rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia.
Senza dignità umana sulle
frontiere
37. Tanto da alcuni regimi
politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che
occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti. Al tempo stesso si
argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il
fondo e decidano di adottare misure di austerità. Non ci si rende conto che,
dietro queste affermazioni astratte difficili da sostenere, ci sono tante vite
lacerate. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali.
Altri, con pieno diritto, sono «alla ricerca di opportunità per sé e per la
propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni
perché si realizzi».[36]
38. Purtroppo, altri sono
«attirati dalla cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative
irrealistiche che li espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo,
spesso legati ai cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei
migranti, che lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la
tratta, l’abuso psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili».[37]
Coloro che emigrano «sperimentano la separazione dal proprio contesto di
origine e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura
riguarda anche le comunità di origine, che perdono gli elementi più vigorosi e
intraprendenti, e le famiglie, in particolare quando migra uno o entrambi i
genitori, lasciando i figli nel Paese di origine».[38] Di conseguenza, «va
riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere
nella propria terra».[39]
39. Per giunta, «in alcuni Paesi di arrivo, i fenomeni migratori
suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici. Si
diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se
stessi».[40] I migranti vengono considerati non abbastanza degni di
partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che
possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono
essere “protagonisti del proprio riscatto”.[41] Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le
decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor
valore, meno importanti, meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa
mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze
politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile
dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della
religione, e la legge suprema dell’amore fraterno.
40. «Le migrazioni costituiranno
un elemento fondante del futuro del mondo».[42] Ma oggi esse risentono di una
«perdita di quel senso della responsabilità fraterna, su cui si basa ogni
società civile».[43] L’Europa, ad esempio, rischia seriamente di andare per
questa strada. Tuttavia, «aiutata dal suo grande patrimonio culturale e
religioso, [ha] gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e
per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i
diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza
dei migranti».[44]
41. Comprendo che di fronte alle
persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un
aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e
un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé
l’apertura agli altri. Invito ad andare oltre queste reazioni primarie, perché
«il problema è quando [esse] condizionano il nostro modo di pensare e di agire
al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene –
razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare
l’altro».[45]
L’illusione della comunicazione
42. Paradossalmente, mentre
crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli
altri, si riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il
diritto all’intimità. Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere
spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante. Nella
comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa
oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera
anonima. Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso
tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore
posso invadere la sua vita fino all’estremo.
43. D’altra parte, i movimenti
digitali di odio e distruzione non costituiscono – come qualcuno vorrebbe far
credere – un’ottima forma di mutuo aiuto, bensì mere associazioni contro un
nemico. Piuttosto, «i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza,
di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta,
ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche».[46] C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni
del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito
delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della
comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di
coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura
con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un
“noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si
esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non
basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità.
Aggressività senza pudore
44. Proprio mentre difendono il
proprio isolamento consumistico e comodo, le persone scelgono di legarsi in
maniera costante e ossessiva. Questo
favorisce il pullulare di forme insolite di aggressività, di insulti,
maltrattamenti, offese, sferzate verbali fino a demolire la figura dell’altro,
con una sfrenatezza che non potrebbe esistere nel contatto corpo a corpo perché
finiremmo per distruggerci tutti a vicenda. L’aggressività sociale trova
nei dispositivi mobili e nei computer uno spazio di diffusione senza uguali.
45. Ciò ha permesso che le
ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di
nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può
esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e
rimanere impuniti. Non va ignorato che «operano nel mondo digitale
giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto
sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e
del processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso
per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo,
ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano
la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e
odio».[47]
46. Occorre riconoscere che i fanatismi che inducono a distruggere gli
altri hanno per protagonisti anche persone religiose, non esclusi i cristiani,
che «possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i
diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si
possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e
sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui».[48] Così
facendo, quale contributo si dà alla fraternità che il Padre comune ci propone?
Informazione senza saggezza
47. La vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà. Ma oggi tutto
si può produrre, dissimulare, modificare. Questo fa sì che l’incontro diretto
con i limiti della realtà diventi insopportabile. Di conseguenza, si attua
un meccanismo di “selezione” e si crea l’abitudine di separare immediatamente
ciò che mi piace da ciò che non mi piace, le cose attraenti da quelle
spiacevoli. Con la stessa logica si scelgono le persone con le quali si decide
di condividere il mondo. Così le persone o le situazioni che hanno ferito la
nostra sensibilità o ci sono risultate sgradite oggi semplicemente vengono
eliminate nelle reti virtuali, costruendo un circolo virtuale che ci isola dal
mondo in cui viviamo.
48. Il mettersi seduti ad
ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento
accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta
attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. Tuttavia, «il mondo di oggi è
in maggioranza un mondo sordo […]. A volte la velocità del mondo moderno, la
frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E
quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle
mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di
ascolto». San Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la
voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della
natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita. Spero che il seme di
San Francesco cresca in tanti cuori».[49]
49. Venendo meno il silenzio e
l’ascolto, e trasformando tutto in battute e messaggi rapidi e impazienti, si
mette in pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana. Si
crea un nuovo stile di vita in cui si costruisce ciò che si vuole avere
davanti, escludendo tutto quello che non si può controllare o conoscere
superficialmente e istantaneamente. Tale dinamica, per sua logica intrinseca,
impedisce la riflessione serena che potrebbe condurci a una saggezza comune.
50. Possiamo cercare insieme la
verità nel dialogo, nella conversazione pacata o nella discussione
appassionata. È un cammino perseverante, fatto anche di silenzi e di
sofferenze, capace di raccogliere con pazienza la vasta esperienza delle
persone e dei popoli. Il cumulo opprimente di informazioni che ci inonda non
equivale a maggior saggezza. La
saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non è una
sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo modo non
si matura nell’incontro con la verità. Le conversazioni alla fine ruotano
intorno agli ultimi dati, sono meramente orizzontali e cumulative. Non
si presta invece un’attenzione prolungata e penetrante al cuore della vita, non
si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza. Così, la
libertà diventa un’illusione che ci viene venduta e che si confonde con la
libertà di navigare davanti a uno schermo. Il problema è che una via di
fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi
e disposti a incontri reali.
Sottomissioni e disprezzo di sé
51. Alcuni Paesi forti dal punto
di vista economico vengono presentati come modelli culturali per i Paesi poco
sviluppati, invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è
peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori
della propria cultura. Questa nostalgia superficiale e triste, che induce a
copiare e comprare piuttosto che creare, dà luogo a un’autostima nazionale
molto bassa. Nei settori benestanti di molti Paesi poveri, e a volte in coloro
che sono riusciti a uscire dalla povertà, si riscontra l’incapacità di
accettare caratteristiche e processi propri, cadendo in un disprezzo della
propria identità culturale, come se fosse la causa di tutti i mali.
52. Demolire l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo. Dietro
le tendenze che mirano ad omogeneizzare il mondo, affiorano interessi di potere
che beneficiano della scarsa stima di sé, nel momento stesso in cui, attraverso
i media e le reti, si cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più
potenti. Da ciò traggono vantaggio l’opportunismo della speculazione
finanziaria e lo sfruttamento, dove i poveri sono sempre quelli che perdono.
D’altra parte, ignorare la cultura di un popolo fa sì che molti leader politici
non siano in grado di promuovere un progetto efficace che possa essere
liberamente assunto e sostenuto nel tempo.
53. Si dimentica che «non c’è
peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a
nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare
futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi
membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le
diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le
spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri».[50]
Speranza
54. Malgrado queste dense ombre,
che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti
percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di
bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti
compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la
propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate
e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli
avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e
infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie,
badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi
essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,… hanno capito che
nessuno si salva da solo.[51]
55. Invito alla speranza, che «ci
parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente
dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla
di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata,
di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo
spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia
e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale,
le piccole sicurezze e compensazioni che
restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più
bella e dignitosa».[52] Camminiamo nella speranza.
CAPITOLO
SECONDO
UN
ESTRANEO SULLA STRADA
56. Tutto ciò che ho menzionato
nel capitolo precedente è più di un’asettica descrizione della realtà, poiché
«le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei
poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di
genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».[53] Nell’intento di
cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune
linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù
duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone
di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si
esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare.
«In quel tempo, un dottore della
Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa devo
fare per ereditare la vita eterna?”.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui
rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come
te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello,
volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un
uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli
portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo
morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo
vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe
compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino;
poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di
lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore,
dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio
ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto
nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).
Lo sfondo
57. Questa parabola raccoglie uno
sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e
dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi.
Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele,
tuo fratello?» (Gen 4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono
forse io il custode di mio fratello?» (ibid.). Con la sua domanda, Dio mette in
discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare
l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a
creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a
prenderci cura gli uni degli altri.
58. Il libro di Giobbe ricorre al
fatto di avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti
comuni: «Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo
stesso a formarci nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si
esprimerà in modo diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la
verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né
immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro
l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno
solo».[54]
59. Nelle tradizioni ebraiche,
l’imperativo di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle
relazioni tra i membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il
tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai
connazionali. Tuttavia, specialmente nel giudaismo sviluppatosi fuori dalla
terra d’Israele, i confini si andarono ampliando. Comparve l’invito a non fare
agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (cfr Tb 4,15). Il saggio Hillel (I
sec. a.C.) diceva al riguardo: «Questo è la Legge e i Profeti. Tutto il resto è
commento».[55] Il desiderio di imitare gli atteggiamenti divini condusse a
superare quella tendenza a limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo
riguarda il suo prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir
18,13).
60. Nel Nuovo Testamento, il
precetto di Hillel ha trovato espressione positiva: «Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e
i Profeti» (Mt 7,12). Tale appello è universale, tende ad abbracciare tutti,
solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il Padre celeste «fa
sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). E di conseguenza si
esige: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
61. C’è una motivazione per
allargare il cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare
già nei testi più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo
ebraico di aver vissuto come straniero in Egitto:
«Non molesterai il forestiero né
l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20).
«Non opprimerai il forestiero:
anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in
terra d’Egitto» (Es 23,9).
«Quando un forestiero dimorerà
presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante
fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te
stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv
19,33-34).
«Quando vendemmierai la tua
vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano
e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto» (Dt
24,21-22).
Nel Nuovo Testamento risuona con
forza l’appello all’amore fraterno:
«Tutta la Legge infatti trova la
sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal
5,14).
«Chi ama suo fratello, rimane
nella luce e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è
nelle tenebre» (1 Gv 2,10-11).
«Noi sappiamo che siamo passati
dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella
morte» (1 Gv 3,14).
«Chi infatti non ama il proprio
fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
62. Anche questa proposta di
amore poteva essere fraintesa. Non per nulla, davanti alla tentazione delle
prime comunità cristiane di formare gruppi chiusi e isolati, San Paolo esortava
i suoi discepoli ad avere carità tra di loro «e verso tutti» (1 Ts 3,12); e
nella comunità di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli,
benché stranieri» (3 Gv 5). Tale contesto aiuta a comprendere il valore della
parabola del buon samaritano: all’amore non importa se il fratello ferito viene
da qui o da là. Perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci
separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande
famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione
e di dignità».[56]
L’abbandonato
63. Gesù racconta che c’era un
uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse
persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con
funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il
bene comune. Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il
ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza,
lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato
di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso
lesiniamo tanto: gli ha dato
il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare
quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace
di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha
considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.
64. Con chi ti identifichi?
Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo
riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri,
specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma
siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli
delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a
passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano
direttamente.
65. Aggrediscono una persona per
la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla. Spesso ci sono
persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a
non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi
però sono segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari
modi, forse più sottili. Inoltre,
poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno
che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per
colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di una società malata, perché
mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.
66. Meglio non cadere in questa
miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a
far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo
intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo,
benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si
incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa
finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il
suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon
samaritano ha mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella
degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro».[57]
67. Questa parabola è un’icona
illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo
bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a
tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon
samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da
quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore
dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si
può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la
fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma
si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia
comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi
atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico
delle esigenze ineludibili della realtà umana.
68. Il racconto, diciamolo
chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si
circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica
essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la
pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta
possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”.
Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per
sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.
Una storia che si ripete
69. La narrazione è semplice e
lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene
nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via
per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo,
immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone
ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce
tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci
troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti
indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità
della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come
questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei
briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon
samaritano.
70. È interessante come le
differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente trasformate
nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non
c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è
sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle
che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si
chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano
il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i
nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e
curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni
gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei
momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo
momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o
sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
71. La storia del buon samaritano
si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di
molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e
internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra
sul bordo della strada. Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative,
come ad esempio: che cosa sarebbe stato di quell’uomo gravemente ferito o di
colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero trovato spazio
nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con
la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e
costruisca una società degna di questo nome.
I personaggi
72. La parabola comincia con i
briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione già consumata.
Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo
verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense
ombre dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di
potere, accumulazione e divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la
persona ferita a terra per correre ciascuno a ripararsi dalla violenza o a
inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre divisioni
inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri
intestini?
73. Poi la parabola ci fa fissare
chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa pericolosa
indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del
disprezzo o di una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del
levita un non meno triste riflesso di quella distanza che isola dalla realtà.
Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è
ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro
sarebbe guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare
a distanza, in alcuni Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei
poveri e della loro cultura, e un vivere con lo sguardo rivolto al di fuori,
come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro posto. Così
si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero
toccare il loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono
fuori dal loro orizzonte di interessi.
74. In quelli che passano a
distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose.
Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è
degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non
garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere
fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e
ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che
favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di
un’autentica apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con
grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani: «Volete onorare
veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo. Non onoratelo
nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire il freddo e
la nudità».[58] Il paradosso è
che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio
meglio dei credenti.
75. I “briganti della strada”
hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada
guardando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e
ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la
purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel
sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità del
delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi personali o corporativi, e
altri mali che non riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente
squalificare tutto, al costante seminare sospetti propagando la diffidenza e la
perplessità. All’inganno del “tutto va male” corrisponde un “nessuno può
aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal modo, si alimenta il
disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di
solidarietà e di generosità. Far
sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo
vizioso: così opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si
sono impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
76. Guardiamo infine all’uomo
ferito. A volte ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra sul bordo della
strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e
carenti, o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e
all’interno. Infatti, «nella società globalizzata, esiste una maniera elegante
di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento
del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che
soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche
un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi».[59]
Ricominciare
77. Ogni giorno ci viene offerta
una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro
che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità
capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere
parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi
siamo di fronte alla grande occasione di
esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che
prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e
risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo
il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e
instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è
caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la
logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e
diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica
o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e
mettiamoci al servizio del bene.
78. È possibile cominciare dal
basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino
all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante
di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e
facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o
l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore
dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per
crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la
sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano
cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo
chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di
piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche
più della loro semplice somma».[60] Rinunciamo alla meschinità e al
risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine.
Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri
delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne. La riconciliazione
riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri.
79. Il samaritano della strada se
ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al
servizio era la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per
questo un dovere. Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è
il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità
di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con
quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon
samaritano.
Il prossimo senza frontiere
80. Gesù propose questa parabola
per rispondere a una domanda: chi è il mio prossimo? La parola “prossimo” nella
società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si
intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio
gruppo, alla propria razza. Un samaritano, per alcuni giudei di allora, era
considerato una persona spregevole, impura, e pertanto non era compreso tra i
vicini ai quali si doveva dare aiuto. Il giudeo Gesù rovescia completamente
questa impostazione: non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi,
bensì a farci noi vicini, prossimi.
81. La proposta è quella di farsi
presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della
propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui
che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha
attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è
una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella
perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci
facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da
aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri.
82. Il problema è che,
espressamente, Gesù mette in risalto che l’uomo ferito era un giudeo – abitante
della Giudea – mentre colui che si fermò e lo aiutò era un samaritano –
abitante della Samaria –. Questo particolare ha una grandissima importanza per
riflettere su un amore che si apre a tutti. I samaritani abitavano una regione
che era stata contaminata da riti pagani, e per i giudei ciò li rendeva impuri,
detestabili, pericolosi. Difatti, un antico testo ebraico che menziona nazioni
degne di disprezzo si riferisce a Samaria affermando per di più che «non è
neppure un popolo» (Sir 50,25), e aggiunge che è «il popolo stolto che abita a
Sichem» (v. 26).
83. Questo spiega perché una
donna samaritana, quando Gesù le chiese da bere, rispose enfaticamente: «Come
mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»
(Gv 4,9). Quelli che cercavano accuse che potessero screditare Gesù, la cosa
più offensiva che trovarono fu di dirgli «indemoniato» e «samaritano» (Gv
8,48). Pertanto, questo incontro misericordioso tra un samaritano e un giudeo è
una potente provocazione, che smentisce ogni manipolazione ideologica, affinché
allarghiamo la nostra cerchia, dando alla nostra capacità di amare una
dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le
barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini.
L’appello del forestiero
84. Infine, ricordo che in un
altro passo del Vangelo Gesù dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt
25,35). Gesù poteva dire queste parole perché aveva un cuore aperto che faceva
propri i drammi degli altri. San Paolo esortava: «Rallegratevi con quelli che
sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). Quando
il cuore assume tale atteggiamento, è capace di identificarsi con l’altro senza
badare a dove è nato o da dove viene. Entrando in questa dinamica, in
definitiva sperimenta che gli altri sono “sua stessa carne” (cfr Is 58,7).
85. Per i cristiani, le parole di
Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere
Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45). In
realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro,
perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con
un amore infinito e che «gli conferisce con ciò una dignità infinita».[61] A
ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e
per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale. E se
andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una
comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune. La
teologia continua ad arricchirsi grazie alla riflessione su questa grande
verità.
86. A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la
Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e
diverse forme di violenza. Oggi, con lo sviluppo della spiritualità e della
teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di
sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie
forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e
persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. La fede, con l’umanesimo
che ispira, deve mantenere vivo un senso critico davanti a queste tendenze e
aiutare a reagire rapidamente quando cominciano a insinuarsi. Perciò è
importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e
chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della
spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le
motivazioni per amare e accogliere tutti.
CAPITOLO
TERZO
PENSARE E
GENERARE UN MONDO APERTO
87. Un essere umano è fatto in
modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria
pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé».[62] E ugualmente non giunge
a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri:
«Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico
con l’altro».[63] Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore della
vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza
umana, perché «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è
una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di
fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a
sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la
morte».[64]
Al di là
88. Dall’intimo di ogni cuore,
l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé
stessa verso l’altro.[65] Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi «una
specie di legge di “estasi”: uscire da se stessi per trovare negli altri un
accrescimento di essere».[66] Perciò «in ogni caso l’uomo deve pure decidersi
una volta ad uscire d’un balzo da se stesso».[67]
89. D’altra parte, non posso
ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia
famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di
relazioni: non solo quello attuale ma anche quello che mi precede e che è
andato configurandomi nel corso della mia vita. La mia relazione con una
persona che stimo non può ignorare che quella persona non vive solo per la sua
relazione con me, né io vivo soltanto rapportandomi con lei. La nostra
relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci
arricchiscono. Il più nobile senso sociale oggi facilmente rimane annullato
dietro intimismi egoistici con l’apparenza di relazioni intense. Invece,
l’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di
amicizia abitano cuori che si lasciano completare. Il legame di coppia e di
amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di
uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie
autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero,
di solito sono forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione.
90. Non è un caso che molte
piccole popolazioni sopravvissute in zone desertiche abbiano sviluppato una
generosa capacità di accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio,
dando così un segno esemplare del sacro dovere dell’ospitalità. Lo hanno
vissuto anche le comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola
di San Benedetto. Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei
monasteri, Benedetto esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati «con
tutto il riguardo e la premura possibili».[68] L’ospitalità è un modo concreto
di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità
al di là del proprio gruppo. Quelle persone riconoscevano che tutti i valori
che potevano coltivare dovevano essere accompagnati da questa capacità di
trascendersi in un’apertura agli altri.
Il valore unico dell’amore
91. Le persone possono sviluppare
alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà,
laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti delle varie
virtù morali, bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un
dinamismo di apertura e di unione verso altre persone. Tale dinamismo è la carità
che Dio infonde. Altrimenti, avremo forse solo un’apparenza di virtù, e queste
saranno incapaci di costruire la vita in comune. Perciò San Tommaso d’Aquino –
citando Sant’Agostino – diceva che la temperanza di una persona avara non è
neppure virtuosa.[69] San Bonaventura, con altre parole, spiegava che le altre
virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti «come Dio li
intende».[70]
92. La statura spirituale di
un’esistenza umana è definita dall’amore, che in ultima analisi è «il criterio
per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana».[71] Tuttavia, ci sono credenti che
pensano che la loro grandezza consista nell’imporre le proprie ideologie agli
altri, o nella difesa violenta della verità, o in grandi dimostrazioni di
forza. Tutti noi credenti dobbiamo riconoscere questo: al primo posto c’è
l’amore, ciò che mai dev’essere messo a rischio è l’amore, il pericolo più
grande è non amare (cfr 1 Cor 13,1-13).
93. Cercando di precisare in che
cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia,
San Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione
sull’altro «considerandolo come un’unica cosa con sé stesso».[72] L’attenzione
affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare
gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento,
che in definitiva è quello che sta dietro la parola “carità”: l’essere amato è
per me “caro”, vale a dire che lo considero di grande valore.[73] E «dall’amore
per cui a uno è gradita una data persona derivano le gratificazioni verso di
essa».[74]
94. L’amore implica dunque
qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da
un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno,
gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro
per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando
questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non
esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti.
La progressiva apertura
dell’amore
95. L’amore, infine, ci fa
tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria
pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva
apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita
che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca
appartenenza. Gesù ci ha detto: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
96. Questo bisogno di andare oltre
i propri limiti vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Di fatto, «il
numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano
il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della
condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi
della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture,
vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli
che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[75]
Società aperte che integrano
tutti
97. Ci sono periferie che si
trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è
anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma
esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare
a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché
siano vicino a me. D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente,
abbandonato o ignorato dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se
è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in
regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta
facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato.
98. Voglio ricordare quegli
“esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società.[76]
Tante persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza
partecipare». Ci sono ancora molte cose «che [impediscono] loro una
cittadinanza piena». L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro
«partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino
esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre più a formare coscienze
capaci di riconoscere ognuno come persona unica e irripetibile». Ugualmente
penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite
a volte come un peso». Tuttavia, tutti possono dare «un singolare apporto al
bene comune attraverso la propria originale biografia». Mi permetto di insistere:
bisogna «avere il coraggio di dare voce a quanti sono discriminati per la
condizione di disabilità, perché purtroppo in alcune Nazioni, ancora oggi, si
stenta a riconoscerli come persone di pari dignità».[77]
Comprensioni inadeguate di un
amore universale
99. L’amore che si estende al di
là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni
città e in ogni Paese. Quando è genuina, questa amicizia sociale all’interno di
una società è condizione di possibilità di una vera apertura universale. Non si
tratta del falso universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente
perché non sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con
disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda
classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci
sia spazio per tutti.
100. Neppure sto proponendo un
universalismo autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e
presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e
depredare. C’è un modello di globalizzazione che «mira consapevolmente a
un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le
tradizioni in una superficiale ricerca di unità. […] Se una globalizzazione
pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa
globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun
popolo».[78] Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo
della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua
umanità. Perché «il futuro
non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile
guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare.
Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in
armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!».[79]
Andare oltre un mondo di soci
101. Riprendiamo ora la parabola
del buon samaritano, che ha ancora molto da proporci. C’era un uomo ferito
sulla strada. I personaggi che passavano accanto a lui non si concentravano
sulla chiamata interiore a farsi vicini, ma sulla loro funzione, sulla
posizione sociale che occupavano, su una professione di prestigio nella
società. Si sentivano importanti per la società di quel tempo e ciò che premeva
loro era il ruolo che dovevano svolgere. L’uomo ferito e abbandonato lungo la
strada era un disturbo per questo progetto, un’interruzione, e da parte sua era
uno che non rivestiva alcuna funzione. Era un “nessuno”, non apparteneva a un
gruppo degno di considerazione, non aveva alcun ruolo nella costruzione della
storia. Nel frattempo, il samaritano generoso resisteva a queste
classificazioni chiuse, anche se lui stesso restava fuori da tutte queste
categorie ed era semplicemente un estraneo senza un proprio posto nella
società. Così, libero da ogni titolo e struttura, è stato capace di
interrompere il suo viaggio, di cambiare i suoi programmi, di essere
disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo ferito che aveva bisogno di lui.
102. Quale reazione potrebbe
suscitare oggi questa narrazione, in un mondo dove compaiono continuamente, e
crescono, gruppi sociali che si aggrappano a un’identità che li separa dagli
altri? Come può commuovere quelli che tendono a organizzarsi in modo tale da
impedire ogni presenza estranea che possa turbare questa identità e questa
organizzazione autodifensiva e autoreferenziale? In questo schema rimane
esclusa la possibilità di farsi prossimo, ed è possibile essere prossimo solo
di chi permetta di consolidare i vantaggi personali. Così la parola “prossimo”
perde ogni significato, e acquista senso solamente la parola “socio”, colui che
è associato per determinati interessi.[80]
Libertà, uguaglianza e fraternità
103. La fraternità non è solo il
risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di
una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non
bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha
qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade
senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di
fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla
scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che
la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di
solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo
per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà,
che è orientata soprattutto all’amore.
104. Neppure l’uguaglianza si
ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è
il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità.
Coloro che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. Che senso può avere in questo
schema la persona che non appartiene alla cerchia dei soci e arriva sognando
una vita migliore per sé e per la sua famiglia?
105. L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più
fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare
un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali
che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più
difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare
briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e
sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune.
Amore universale che promuove le
persone
106. C’è un riconoscimento
basilare, essenziale da compiere per camminare verso l’amicizia sociale e la
fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto
vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto,
bisogna dire con chiarezza e fermezza che «il solo fatto di essere nati in un
luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone
vivano con minore dignità».[81] Questo è un principio elementare della vita
sociale, che viene abitualmente e in vari modi ignorato da quanti vedono che
non conviene alla loro visione del mondo o non serve ai loro fini.
107. Ogni essere umano ha diritto
a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare
tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente,
anche se è nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la
sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze
bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è
salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza
dell’umanità.
108. Vi sono società che
accolgono questo principio parzialmente. Accettano che ci siano opportunità per
tutti, però sostengono che, posto questo, tutto dipende da ciascuno. Secondo
tale prospettiva parziale non avrebbe senso «investire affinché quelli che
rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella
vita».[82] Investire a
favore delle persone fragili può non essere redditizio, può comportare minore
efficienza. Esige uno Stato presente e attivo, e istituzioni della società
civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi
sistemi economici, politici o ideologici, perché veramente si orientano prima
di tutto alle persone e al bene comune.
109. Alcuni nascono in famiglie
di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben
nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non
avranno bisogno di uno Stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma
evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è
nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità
e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge
primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è
posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica.
110. Il fatto è che «la semplice proclamazione della libertà economica,
quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi
realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso
contraddittorio».[83] Parole come libertà, democrazia o fraternità si svuotano
di senso. Perché, in realtà, «finché il nostro sistema economico-sociale
produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà
essere la festa della fraternità universale».[84] Una società umana e
fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile
che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per
provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se
il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se
lo loro efficienza sarà poco rilevante.
111. La persona umana, coi suoi
diritti inalienabili, è naturalmente aperta ai legami. Nella sua stessa radice
abita la chiamata a trascendere sé stessa nell’incontro con gli altri. Per
questo «occorre prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che
possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un
loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione
sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici
–, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e
antropologico, quasi come una “monade” (monás), sempre più insensibile […]. Se
il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce
per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e
di violenze».[85]
Promuovere il bene morale
112. Non possiamo tralasciare di
dire che il desiderio e la ricerca del bene degli altri e di tutta l’umanità
implicano anche di adoperarsi per una maturazione delle persone e delle società
nei diversi valori morali che conducono ad uno sviluppo umano integrale. Nel
Nuovo Testamento si menziona un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22)
definito con il termine greco agathosyne. Indica l’attaccamento al bene, la
ricerca del bene. Più ancora, è procurare ciò che vale di più, il meglio per
gli altri: la loro maturazione, la loro crescita in una vita sana, l’esercizio
dei valori e non solo il benessere materiale. C’è un’espressione latina simile:
bene-volentia, cioè l’atteggiamento di volere il bene dell’altro. È un forte
desiderio del bene, un’inclinazione verso tutto ciò che è buono ed eccellente,
che ci spinge a colmare la vita degli altri di cose belle, sublimi, edificanti.
113. In questa linea, torno a
rilevare con dolore che «già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale,
prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è
arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è
servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce
col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi».[86]
Volgiamoci a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta l’umanità, e così
cammineremo insieme verso una crescita genuina e integrale. Ogni società ha
bisogno di assicurare la trasmissione dei valori, perché se questo non succede
si trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle sue varie forme,
l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni trascendenza e
trincerata negli interessi individuali.
Il valore della solidarietà
114. Desidero mettere in risalto
la solidarietà, che «come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della
conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di
soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo. Il mio
primo pensiero va alle famiglie, chiamate a una missione educativa primaria e
imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si
trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della
condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito
privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici
gesti di devozione che le madri insegnano ai figli. Per quanto riguarda gli
educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione
infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i
giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità
riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori
della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere
trasmessi fin dalla più tenera età. […] Anche gli operatori culturali e dei
mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e
della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a
strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso».[87]
115. In questi momenti, nei quali
tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla
solidità[88] che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri
cercando un destino comune. La solidarietà si esprime concretamente nel
servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli
altri. Il servizio è «in
gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro
che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro
popolo». In questo impegno ognuno è capace di «mettere da parte le sue
esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo
concreto dei più fragili. […] Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne,
sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la
promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal
momento che non serve idee, ma persone».[89]
116. Gli ultimi in generale
«praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono,
tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha
molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace;
direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può
dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità
sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di
tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro
le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro,
della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti
distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso
più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti
popolari».[90]
117. Quando parliamo di avere
cura della casa comune che è il pianeta, ci appelliamo a quel minimo di
coscienza universale e di preoccupazione per la cura reciproca che ancora può
rimanere nelle persone. Infatti, se qualcuno possiede acqua in avanzo, e
tuttavia la conserva pensando all’umanità, è perché ha raggiunto un livello
morale che gli permette di andare oltre sé stesso e il proprio gruppo di
appartenenza. Ciò è meravigliosamente umano! Questo stesso atteggiamento è
quello che si richiede per riconoscere i diritti di ogni essere umano, benché
sia nato al di là delle proprie frontiere.
Riproporre la funzione sociale
della proprietà
118. Il mondo esiste per tutti,
perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità.
Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di
residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare
i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come
comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia
opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.
119. Nei primi secoli della fede
cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro
riflessione sulla destinazione comune dei beni creati.[91] Ciò conduceva a
pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché
un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri
parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e
quanto possediamo non è nostro, ma loro».[92] Come pure queste parole di San
Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non
elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene».[93]
120. Di nuovo faccio mie e
propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è
stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché
essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare
nessuno».[94] In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai
riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e
ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà
privata».[95] Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il
«primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale»,[96] è un diritto
naturale, originario e prioritario.[97] Tutti gli altri diritti sui beni
necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della
proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al
contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI.[98] Il diritto alla proprietà privata si
può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio
della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto
concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però
frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli
prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.
Diritti senza frontiere
121. Nessuno dunque può rimanere
escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che
altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e
le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come
è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere
donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già
di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.
122. Lo sviluppo non dev’essere
orientato all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i
diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti
delle Nazioni e dei popoli».[99] Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare
al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di
sopra del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per
amministrarla a beneficio di tutti».[100]
123. L’attività degli
imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre
ricchezza e a migliorare il mondo per tutti».[101] Dio ci promuove, si aspetta
da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di
potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio
sviluppo,[102] e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e
tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in
ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio,
dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al
superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità
di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è
il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà
privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il
diritto di tutti al loro uso.[103]
Diritti dei popoli
124. La certezza della
destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata
anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo
a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini
di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della
destinazione comune die beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello
straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una
persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato
i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono
qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in
quanto creata da Dio».[104]
125. Ciò inoltre presuppone un
altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi. Se ogni
persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia
sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui
o se vive fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia Nazione è
corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità
in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno
inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando
di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo
sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle
diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi
sperequazioni. Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa
sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della
“zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello
di consumo.
126. Parliamo di una nuova rete
nelle relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi
problemi del mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui
o piccoli gruppi. Ricordiamo
che «l’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a
pensare ad un’etica delle relazioni internazionali».[105] E la giustizia
esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali, ma anche i
diritti sociali e i diritti dei popoli.[106] Quanto stiamo affermando implica
che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al
progresso»,[107] che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione
derivante dal debito estero. Il
pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo
limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il principio che
ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo di adempiere
questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei Paesi ricchi, non
deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro crescita.
127. Senza dubbio, si tratta di
un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole
suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che
promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile
accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile
desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la
vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e
diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è
possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al
servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità
nell’intera famiglia umana».[108]
CAPITOLO
QUARTO
UN CUORE
APERTO AL MONDO INTERO
128. L’affermazione che come
esseri umani siamo tutti fratelli e sorelle, se non è solo un’astrazione ma
prende carne e diventa concreta, ci pone una serie di sfide che ci smuovono, ci
obbligano ad assumere nuove prospettive e a sviluppare nuove risposte.
Il limite delle frontiere
129. Quando il prossimo è una
persona migrante si aggiungono sfide complesse.[109] Certo, l’ideale sarebbe
evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei
Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità,
così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale.
Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere
rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non
solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche
realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle
persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi:
accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, «non si tratta di
calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino
attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur
conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle
differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana».[110]
130. Ciò implica alcune risposte
indispensabili, soprattutto nei confronti di coloro che fuggono da gravi crisi
umanitarie. Per esempio: incrementare e semplificare la concessione di visti;
adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi
umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso;
garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare
un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti
personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di
aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale;
dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i
minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere
programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà
religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento
familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione.[111]
131. Per quanti sono arrivati già
da tempo e sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il
concetto di “cittadinanza”, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei
doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario
impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena
cittadinanza e rinunciare
all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi
del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità
e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di
alcuni cittadini discriminandoli».[112]
132. Al di là delle diverse
azioni indispensabili, gli Stati non possono sviluppare per conto proprio
soluzioni adeguate «poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono
inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale». Pertanto «le risposte
potranno essere frutto solo di un lavoro comune»,[113] dando vita ad una
legislazione (governance) globale per le migrazioni. In ogni modo occorre
«stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di
emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei
migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei
Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli
aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture
dei popoli cui sono indirizzate».[114]
I doni reciproci
133. L’arrivo di persone diverse,
che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un
dono, perché «quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e
tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità
di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti».[115] Perciò «chiedo
in particolare ai giovani di non cadere nelle reti di coloro che vogliono
metterli contro altri giovani che arrivano nei loro Paesi, descrivendoli come
soggetti pericolosi e come se non avessero la stessa inalienabile dignità di
ogni essere umano».[116]
134. D’altra parte, quando si
accoglie di cuore la persona diversa, le si permette di continuare ad essere sé
stessa, mentre le si dà la possibilità di un nuovo sviluppo. Le varie culture,
che hanno prodotto la loro ricchezza nel corso dei secoli, devono essere
preservate perché il mondo non si impoverisca. E questo senza trascurare di
stimolarle a lasciar emergere da sé stesse qualcosa di nuovo nell’incontro con
altre realtà. Non va ignorato il rischio di finire vittime di una sclerosi
culturale. Perciò «abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di
ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come
possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente
e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano
trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente
dalle esperienze altrui».[117]
135. Riprendo degli esempi che ho
menzionato tempo fa: la cultura dei latini è «un fermento di valori e
possibilità che può fare tanto bene agli Stati Uniti […]. Una forte
immigrazione alla fine segna sempre e trasforma la cultura di un luogo. […] In
Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società,
e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa
duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una
benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a
crescere».[118]
136. Allargando lo sguardo, con
il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb abbiamo ricordato che «il rapporto tra Occidente
e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita
e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della
civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella
civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose
causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella
civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla
debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e
culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose,
culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della
personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante
consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una
vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso
della politica della doppia misura».[119]
Il fecondo interscambio
137. L’aiuto reciproco tra Paesi
in definitiva va a beneficio di tutti. Un Paese che progredisce sulla base del
proprio originale substrato culturale è un tesoro per tutta l’umanità. Abbiamo bisogno di far crescere
la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva. La
povertà, il degrado, le sofferenze di una zona della terra sono un tacito
terreno di coltura di problemi che alla fine toccheranno tutto il pianeta. Se
ci preoccupa l’estinzione di alcune specie, dovrebbe assillarci il pensiero che
dovunque ci sono persone e popoli che non sviluppano il loro potenziale e la
loro bellezza a causa della povertà o di altri limiti strutturali. Perché
questo finisce per impoverirci tutti.
138. Se ciò è stato sempre certo,
oggi lo è più che mai a motivo della realtà di un mondo così interconnesso per
la globalizzazione. Abbiamo bisogno che un ordinamento mondiale giuridico,
politico ed economico «incrementi e orienti la collaborazione internazionale
verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli».[120] Questo alla fine andrà a
vantaggio di tutto il pianeta, perché «l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri»
implica «creazione di ricchezza per tutti».[121] Dal punto di vista dello
sviluppo integrale, questo presuppone che si conceda «anche alle Nazioni più
povere una voce efficace nelle decisioni comuni»[122] e che ci si adoperi per
«incentivare l’accesso al mercato internazionale dei Paesi segnati da povertà e
sottosviluppo».[123]
Gratuità che accoglie
139. Tuttavia, non vorrei ridurre
questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È
la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone,
senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente
qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al
momento non porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono Paesi che pretendono di accogliere solo
gli scienziati e gli investitori.
140. Chi non vive la gratuità
fraterna fa della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando
quello che dà e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al
punto che aiuta persino quelli che non sono fedeli, e «fa sorgere il suo sole
sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Per questo Gesù raccomanda: «Mentre tu fai
l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua
elemosina resti nel segreto» (Mt 6,3-4). Abbiamo ricevuto la vita gratis, non
abbiamo pagato per essa. Dunque tutti possiamo dare senza aspettare qualcosa,
fare il bene senza pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. È quello che Gesù diceva ai suoi
discepoli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
141. La vera qualità dei diversi
Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma
anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi
critici. I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di
gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina
altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti. L’immigrato è visto
come un usurpatore che non offre nulla. Così, si arriva a pensare ingenuamente
che i poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi
benefattori. Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza
gratuita potrà avere futuro.
Locale e universale
142. Va ricordato che «tra la
globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare
attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana.
Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa
camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno
di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo
astratto e globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di
eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di
lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio
diffonde fuori dai loro confini».[124] Bisogna guardare al globale, che ci
riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è
recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come la causa finale che ci
attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la
dimensione locale, perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere
lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la
fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due
poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una
polarizzazione dannosa.
Il sapore locale
143. La soluzione non è
un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro
senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire
dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro
con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché
su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di
autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto
originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura.
Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa
per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa
perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo
richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze
del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato
positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo,
in modo che possa essere un contributo al bene di tutti.
144. Inoltre, questo è un
presupposto degli interscambi sani e arricchenti. L’esperienza di vivere in un
certo luogo e in una certa cultura è la base che rende capaci di cogliere
aspetti della realtà, che quanti non hanno tale esperienza non sono in grado di
cogliere tanto facilmente. L’universale non dev’essere il dominio omogeneo,
uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante, che alla fine
perderà i colori del poliedro e risulterà disgustosa. È la tentazione che
emerge dall’antico racconto della torre di Babele: la costruzione di una torre
che arrivasse fino al cielo non esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di
comunicare secondo la propria diversità. Al contrario, era un tentativo
fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione umana, di creare un’unità
diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le nazioni
(cfr Gen 11,1-9).
145. C’è una falsa apertura
all’universale, che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di
penetrare fino in fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un
risentimento non risolto verso il proprio popolo. In ogni caso, «bisogna sempre
allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a
tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario
affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è
un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una
prospettiva più ampia. […] Non
è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili»[125],
è il poliedro, dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, «il tutto è più
delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[126]
L’orizzonte universale
146. Ci sono narcisismi
localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria
cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un
certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé
stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e
cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che
succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza
solidarizzare con i drammi degli altri popoli. Tale localismo si rinchiude
ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze, incapace di ammirazione
davanti alle molteplici possibilità e bellezze che il mondo intero offre e
privo di una solidarietà autentica e generosa. Così, la vita locale non è più
veramente recettiva, non si lascia più completare dall’altro; pertanto, si
limita nelle proprie possibilità di sviluppo, diventa statica e si ammala.
Perché, in realtà, ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così
che «una cultura senza valori universali non è una vera cultura».[127]
147. Riscontriamo che una
persona, quanto minore ampiezza ha nella mente e nel cuore, tanto meno potrà
interpretare la realtà vicina in cui è immersa. Senza il rapporto e il
confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa
di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da
cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza
inesauribile della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista
dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità
della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i
limiti. L’esperienza che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in
contrasto” e “in sintonia” con le esperienze di altri che vivono in contesti
culturali differenti.[128]
148. In realtà, una sana apertura
non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con
elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o
una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo
provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti,
poiché la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta
alimentata. Perciò ho esortato i popoli originari a custodire le loro radici e
le loro culture ancestrali, ma ho voluto precisare che non era «mia intenzione
proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si
sottragga a qualsiasi forma di meticciato», dal momento che «la propria
identità culturale si approfondisce e si arricchisce nel dialogo con realtà
differenti e il modo autentico di conservarla non è un isolamento che
impoverisce».[129] Il mondo cresce e si riempie di nuova bellezza grazie a
successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni
imposizione culturale.
149. Per stimolare un rapporto
sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera,
conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei
vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la
reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo
particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo
umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un
determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la
quale non è possibile avere una piena comprensione di sé.
150. Questo approccio, in
definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura
o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari
per la costruzione di una vita piena. La consapevolezza del limite o della
parzialità, lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la quale
sognare ed elaborare un progetto comune. Perché «l’uomo è l’essere-limite che
non ha limite».[130]
Dalla propria regione
151. Grazie all’interscambio
regionale, a partire dal quale i Paesi più deboli si aprono al mondo intero, è
possibile che l’universalità non dissolva le particolarità. Un’adeguata e
autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino, in una
famiglia di nazioni. L’integrazione culturale, economica e politica con i
popoli circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo educativo che
promuova il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio indispensabile per
ottenere una sana integrazione universale.
152. In alcuni quartieri popolari
si vive ancora lo spirito del “vicinato”, dove ognuno sente spontaneamente il
dovere di accompagnare e aiutare il vicino. In questi luoghi che conservano
tali valori comunitari, si vivono i rapporti di prossimità con tratti di
gratuità, solidarietà e reciprocità, a partire dal senso di un “noi” di
quartiere.[131] Sarebbe auspicabile che ciò si potesse vivere anche tra Paesi
vicini, con la capacità di costruire una vicinanza cordiale tra i loro popoli.
Ma le visioni individualistiche si traducono nelle relazioni tra Paesi. Il
rischio di vivere proteggendoci gli uni dagli altri, vedendo gli altri come
concorrenti o nemici pericolosi, si trasferisce al rapporto con i popoli della
regione. Forse siamo stati educati in questa paura e in questa diffidenza.
153. Ci sono Paesi potenti e
grandi imprese che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono
trattare con ciascun Paese separatamente. Al contrario, per i Paesi piccoli o
poveri si apre la possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini,
che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti
marginali e dipendenti dalle grandi potenze. Oggi nessuno Stato nazionale
isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione.
CAPITOLO
QUINTO
LA
MIGLIORE POLITICA
154. Per rendere possibile lo sviluppo
di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da
popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore
politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la
politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo
diverso.
Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche,
che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio
degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la
difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda
in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.
Popolare o populista
156. Negli ultimi anni
l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il
linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e
diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di
pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a
partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è
possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di
classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per
esaltarlo in maniera esagerata.
157. La pretesa di porre il
populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto
debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il
tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a
eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante,
per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è
necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che
strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie;
inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per
attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare
qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno
collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e
nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida
critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della
realtà sociale.
158. Esiste infatti un malinteso.
«Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la
intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso
che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […]
Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi
spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al
popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in
maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta
di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un
processo lento, difficile… verso un progetto comune».[132]
159. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un
popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il
servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un
progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità
di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in
insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso
allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto
qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della
propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità
fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della
popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un
assoggettamento delle istituzioni e della legalità.
160. I gruppi populisti chiusi
deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero
popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e
con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi
assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto
con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere
allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.
161. Un’altra espressione
degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si
risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza
progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per
il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro
creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il
proporre un populismo irresponsabile».[133] Da una parte, il superamento
dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le
potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134]
Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si
dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]
162. Il grande tema è il lavoro.
Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare
a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno,
le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per
un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che
«aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per
fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di
consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto
cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo
di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un
modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non
esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del
lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione
irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il
pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni
sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi
corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come
popolo.
Valori e limiti delle visioni
liberali
163. La categoria di popolo, a
cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è
abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la
società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di
rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi
contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i
diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di
popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui
si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella
di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o
disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società
civile.[138]
164. La carità riunisce entrambe
le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica
un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare
tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti
professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così
via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine
pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la
tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla
forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione
del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla
cittadinanza politica».[139]
165. La vera carità è capace di
includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro
da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una
sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le
istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di
generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci
fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in
quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è
realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della
storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno
ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e
procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la
moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di
alcuni. Ciò dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità
della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più
efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che
soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una
sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta
economica che possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che
anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti.
166. Tutto ciò potrebbe avere ben
poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un
cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello
che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione
pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti
agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al
servizio di quelli che hanno già troppo potere. Perciò, la mia critica al
paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi
eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose,
nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le
utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante
all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama
“concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza
del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa
concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo
e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli,
utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però
è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.
167. L’impegno educativo, lo
sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più
integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità
ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte
alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici,
tecnologici, politici e mediatici. Ci sono visioni liberali che ignorano questo fattore della fragilità
umana e immaginano un mondo che risponde a un determinato ordine capace di per
sé stesso di assicurare il futuro e la soluzione di tutti i problemi.
168. Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci
credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero,
ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si
presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla
magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla –
come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il
presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme
di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile
una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che
favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale»,[140]
perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo
fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne
di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare
la propria funzione economica.Ed oggi è questa fiducia che è venuta a
mancare».[141] La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche
della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La
fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non
tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una
politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la
dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali
alternative di cui abbiamo bisogno».[142]
169. In certe visioni
economicistiche chiuse e monocromatiche, sembra che non trovino posto, per
esempio, i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e
informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti.
In realtà, essi danno vita a varie forme di economia popolare e di produzione
comunitaria. Occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica
in modalità tali «che includano i movimenti popolari e animino le strutture di
governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale
che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino
comune»; al tempo stesso, è bene far sì «che questi movimenti, queste
esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta,
confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino».[143] Questo, però, senza
tradire il loro stile caratteristico, perché essi sono «seminatori di
cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e
grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia».[144] In questo
senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e
liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di
superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso
i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un
progetto che riunisca i popoli».[145] Benché diano fastidio, benché alcuni
“pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di
riconoscere che senza di loro «la democrazia si atrofizza, diventa un
nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché
lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella
costruzione del suo destino».[146]
Il potere internazionale
170. Mi permetto di ripetere che
«la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova
economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione
dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è
stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che
continuano a governare il mondo».[147] Anzi, pare che le effettive strategie sviluppatesi
successivamente nel mondo siano state orientate a maggiore individualismo,
minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il
modo di uscire indenni.
171. Vorrei insistere sul fatto
che «dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia,
significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente,
autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o
dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere – politico, economico,
militare, tecnologico e così via – tra una pluralità di soggetti e la creazione
di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli
interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci
presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori
senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere».[148]
172. Il secolo XXI «assiste a una
perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione
economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla
politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni
internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate
in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del
potere di sanzionare».[149] Quando si parla della possibilità di qualche forma
di autorità mondiale regolata dal diritto,[150] non necessariamente si deve
pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare
vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare
il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa
certa dei diritti umani fondamentali.
173. In questa prospettiva,
ricordo che è necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si
possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».[151] Senza
dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di
un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire
imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più
deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, «quella internazionale è una
comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli
di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza».[152] Ma «il
compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi
articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la
promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito
indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna
assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al
negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle
Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale».[153] Occorre evitare che
questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue
carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.
174. Ci vogliono coraggio e
generosità per stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e assicurare
l’adempimento in tutto il mondo di alcune norme essenziali. Perché ciò sia
veramente utile, si deve sostenere «l’esigenza di tenere fede agli impegni
sottoscritti (pacta sunt servanda)»,[154] in modo da evitare «la tentazione di
fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto».[155]
Ciò richiede di potenziare «gli strumenti normativi per la soluzione pacifica
delle controversie […] in modo da rafforzarne la portata e
l’obbligatorietà».[156] Tra tali strumenti normativi vanno favoriti gli accordi
multilaterali tra gli Stati, perché garantiscono meglio degli accordi
bilaterali la cura di un bene comune realmente universale e la tutela degli
Stati più deboli.
175. Grazie a Dio tante
aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le
debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in
situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani
fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi. Così acquista
un’espressione concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la
partecipazione e l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, le
quali integrano in modo complementare l’azione dello Stato. Molte volte esse
portano avanti sforzi lodevoli pensando al bene comune e alcuni dei loro membri
arrivano a compiere gesti davvero eroici, che mostrano di quanta bellezza è
ancora capace la nostra umanità.
Una carità sociale e politica
176. Per molti la politica oggi è
una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso
gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si
aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia
o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza
politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace
sociale senza una buona politica?[157]
La politica di cui c’è bisogno
177. Mi permetto di ribadire che
«la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi
ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia».[158] Benché si
debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di
rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia
senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di
governare i vari aspetti della crisi attuale».[159] Al contrario, «abbiamo
bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un
nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi
aspetti della crisi».[160] Penso a «una sana politica, capace di riformare le
istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di
superare pressioni e inerzie viziose».[161] Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare
che questa assuma il potere reale dello Stato.
178. Davanti a tante forme di
politica meschine e tese all’interesse immediato, ricordo che «la grandezza
politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi
principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta
fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione»[162] e ancora di
più in un progetto comune per l’umanità presente e futura. Pensare a quelli che
verranno non serve ai fini elettorali, ma è ciò che esige una giustizia
autentica, perché, come hanno insegnato i Vescovi del Portogallo, la terra «è
un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione
successiva».[163]
179. La società mondiale ha gravi
carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci
meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con
reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica
potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari
saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale,
culturale e popolare che tenda al bene comune può «aprire la strada a
opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il
suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo
nuovo».[164]
L’amore politico
180. Riconoscere ogni essere
umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che
includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di
trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque
impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un
individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per
dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel
«campo della più vasta carità, della carità politica».[165] Si tratta di
progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità
sociale.[166] Ancora una
volta invito a rivalutare la politica, che «è una vocazione altissima, è una
delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune».[167]
181. Tutti gli impegni che
derivano dalla dottrina sociale della Chiesa «sono attinti alla carità che,
secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt
22,36-40)».[168] Ciò richiede di riconoscere che «l’amore, pieno di piccoli
gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le
azioni che cercano di costruire un mondo migliore».[169] Per questa ragione,
l’amore si esprime non solo in relazioni intime e vicine, ma anche nelle «macro-relazioni:
rapporti sociali, economici, politici».[170]
182. Questa carità politica
presuppone di aver maturato un senso sociale che supera ogni mentalità
individualistica: «La carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare
effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo
individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce».[171] Ognuno
è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è
vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona. Popolo e persona sono
termini correlativi. Tuttavia, oggi si pretende di ridurre le persone a
individui, facilmente dominabili da poteri che mirano a interessi illeciti. La
buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della
vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per
evitare i suoi effetti disgreganti.
Amore efficace
183. A partire dall’«amore
sociale»[172] è possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale
tutti possiamo sentirci chiamati. La carità, col suo dinamismo universale, può
costruire un mondo nuovo,[173] perché non è un sentimento sterile, bensì il
modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti. L’amore
sociale è una «forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi
del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture,
organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici».[174]
184. La carità è al cuore di ogni
vita sociale sana e aperta. Tuttavia, oggi «ne viene dichiarata facilmente
l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali».[175] È
molto di più che un sentimentalismo soggettivo, se essa si accompagna
all’impegno per la verità, così da non essere facile «preda delle emozioni e
delle opinioni contingenti dei soggetti».[176] Proprio il suo rapporto con la
verità favorisce nella carità il suo universalismo e così la preserva dall’essere
«relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni».[177] Altrimenti, sarà
«esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di
portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività».[178] Senza la
verità, l’emotività si vuota di contenuti relazionali e sociali. Perciò
l’apertura alla verità protegge la carità da una falsa fede che resta «priva di
respiro umano e universale».[179]
185. La carità ha bisogno della
luce della verità che costantemente cerchiamo e «questa luce è, a un tempo,
quella della ragione e della fede»,[180] senza relativismi. Ciò implica anche
lo sviluppo delle scienze e il loro apporto insostituibile al fine di trovare i
percorsi concreti e più sicuri per raggiungere i risultati sperati. Infatti,
quando è in gioco il bene degli altri, non bastano le buone intenzioni, ma si
tratta di ottenere effettivamente ciò di cui essi e le loro nazioni hanno
bisogno per realizzarsi.
L’attività dell’amore politico
186. C’è un cosiddetto amore
“elicito”, vale a dire gli atti che procedono direttamente dalla virtù della
carità, diretti a persone e a popoli. C’è poi un amore “imperato”: quegli atti
della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più
giusti, strutture più solidali.[181] Ne consegue che è «un atto di carità
altrettanto indispensabile l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare
la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria».[182] È
carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si
fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le
condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un
anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico
gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro
dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita
una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica.
I sacrifici dell’amore
187. Questa carità, cuore dello
spirito della politica, è sempre un amore preferenziale per gli ultimi, che sta
dietro ogni azione compiuta in loro favore.[183] Solo con uno sguardo il cui
orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità
dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità,
rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente
integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo dell’autentico spirito della
politica. A partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle di un
pragmatismo senz’anima. Per
esempio, «non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie
di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri
addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere
altruistiche, si riduce l’altro alla passività».[184] Quello che occorre
è che ci siano diversi canali di espressione e di partecipazione sociale.
L’educazione è al servizio di questo cammino, affinché ogni essere umano possa
diventare artefice del proprio destino. Qui mostra il suo valore il principio
di sussidiarietà, inseparabile dal principio di solidarietà.
188. Da ciò risulta l’urgenza di
trovare una soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani
fondamentali. I politici
sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e
delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice
lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce
inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. […] Significa farsi carico
del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci
di ungerlo di dignità».[185] Così certamente si dà vita a un’attività intensa,
perché «tutto dev’essere fatto per tutelare la condizione e la dignità della
persona umana».[186] Il politico è un realizzatore, è un costruttore con grandi
obiettivi, con sguardo ampio, realistico e pragmatico, anche al di là del
proprio Paese. Le maggiori preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere
quelle causate da una caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare
un’effettiva soluzione al «fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con
le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e
tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato,
compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine
internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e
il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi
tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto
tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni
siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».[187] Questo
si fa sfruttando con intelligenza le grandi risorse dello sviluppo tecnologico.
189. Siamo ancora lontani da una
globalizzazione dei diritti umani più essenziali. Perciò la politica mondiale
non può tralasciare di porre tra i suoi obiettivi principali e irrinunciabili
quello di eliminare effettivamente la fame. Infatti, «quando la speculazione
finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce
qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si
scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale,
l’alimentazione è un diritto inalienabile».[188] Tante volte, mentre ci
immergiamo in discussioni semantiche o ideologiche, lasciamo che ancora oggi ci
siano fratelli e sorelle che muoiono di fame e di sete, senza un tetto o senza
accesso alle cure per la loro salute. Insieme a questi bisogni elementari non
soddisfatti, la tratta di persone è un’altra vergogna per l’umanità che la politica
internazionale non dovrebbe continuare a tollerare, al di là dei discorsi e
delle buone intenzioni. È il minimo indispensabile.
Amore che integra e raduna
190. La carità politica si
esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di
governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la
convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro
consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un
governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un
posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È
qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra
un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo.
191. Mentre vediamo che ogni
genere di intolleranza fondamentalista danneggia le relazioni tra persone,
gruppi e popoli, impegniamoci a vivere e insegnare il valore del rispetto,
l’amore capace di accogliere ogni differenza, la priorità della dignità di ogni
essere umano rispetto a qualunque sua idea, sentimento, prassi e persino ai
suoi peccati. Mentre nella
società attuale proliferano i fanatismi, le logiche chiuse e la frammentazione
sociale e culturale, un buon politico fa il primo passo perché risuonino le
diverse voci. È vero che le differenze generano conflitti, ma
l’uniformità genera asfissia e fa sì che ci fagocitiamo culturalmente. Non
rassegniamoci a vivere chiusi in un frammento di realtà.
192. In tale contesto, desidero
ricordare che, insieme con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, abbiamo chiesto
«agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di
impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della
convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo
spargimento di sangue innocente».[189] E quando una determinata politica semina l’odio e la
paura verso altre nazioni in nome del bene del proprio Paese, bisogna
preoccuparsi, reagire in tempo e correggere immediatamente la rotta.
Più fecondità che risultati
193. Mentre porta avanti questa
attività instancabile, ogni politico è pur sempre un essere umano. È chiamato a
vivere l’amore nelle sue quotidiane relazioni interpersonali. È una persona, e
ha bisogno di accorgersi che «il mondo moderno, con la sua stessa perfezione
tecnica, tende a razionalizzare sempre di più la soddisfazione dei desideri
umani, classificati e suddivisi tra diversi servizi. Sempre meno si chiama un
uomo col suo nome proprio, sempre meno si tratterà come persona questo essere
unico al mondo, che ha il suo cuore, le sue sofferenze, i suoi problemi, le sue
gioie e la sua famiglia. Si conosceranno soltanto le sue malattie per curarle,
la sua mancanza di denaro per fornirglielo, il suo bisogno di casa per dargli
un alloggio, il suo desiderio di svago e di distrazioni per organizzarli».
Però, «amare il più insignificante degli esseri umani come un fratello, come se
al mondo non ci fosse altri che lui, non è perdere tempo».[190]
194. Anche nella politica c’è
spazio per amare con tenerezza. «Cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino
e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle
orecchie, alle mani. […] La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini
e le donne più coraggiosi e forti».[191] In mezzo all’attività politica, «i più
piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di
prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali
dobbiamo amarli e trattarli».[192]
195. Questo ci aiuta a
riconoscere che non sempre si tratta di ottenere grandi risultati, che a volte
non sono possibili. Nell’attività politica bisogna ricordare che «al di là di
qualsiasi apparenza, ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e
la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere
meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello
essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e
il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!».[193] I grandi obiettivi
sognati nelle strategie si raggiungono parzialmente. Al di là di questo, chi
ama e ha smesso di intendere la politica come una mera ricerca di potere, «ha
la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore, non
va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri, non va
perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica,
non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo
come una forza di vita».[194]
196. D’altra parte, è grande
nobiltà esser capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da
altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La
buona politica unisce all’amore la speranza, la fiducia nelle riserve di bene
che ci sono nel cuore della gente, malgrado tutto. Perciò, «la vita politica
autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si
rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione
racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali,
intellettuali, culturali e spirituali».[195]
197. Vista in questo modo, la
politica è più nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage
mediatico. Tutto ciò non semina altro che divisione, inimicizia e uno
scetticismo desolante incapace di appellarsi a un progetto comune. Pensando al
futuro, in certi giorni le domande devono essere: “A che scopo? Verso dove sto
puntando realmente?”. Perché, dopo alcuni anni, riflettendo sul proprio
passato, la domanda non sarà: “Quanti mi hanno approvato, quanti mi hanno
votato, quanti hanno avuto un’immagine positiva di me?”. Le domande, forse
dolorose, saranno: “Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto
progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali
legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace
sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?”.
CAPITOLO
SESTO
DIALOGO E
AMICIZIA SOCIALE
198. Avvicinarsi, esprimersi,
ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di
contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e
aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che
serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo
paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e
coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta
discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene
conto.
Il dialogo sociale verso una
nuova cultura
199. Alcuni provano a fuggire
dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza
distruttiva, ma «tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è
un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il
dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere,
rimanendo aperti alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo
costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura
universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura
tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei
media».[196]
200. Spesso si confonde il
dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle
reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre
affidabile. Sono solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi
all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi
non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado sono
opportunistici e contraddittori.
201. La risonante diffusione di
fatti e richiami nei media, in realtà chiude spesso le possibilità del dialogo,
perché permette che ciascuno, con la scusa degli errori altrui, mantenga
intatti e senza sfumature le idee, gli interessi e le scelte propri. Predomina
l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli epiteti
umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui si
cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre. Il peggio è che questo
linguaggio, consueto nel contesto mediatico di una campagna politica, si è
talmente generalizzato che lo usano quotidianamente tutti. Il dibattito molte
volte è manipolato da determinati interessi che hanno maggior potere e cercano
in maniera disonesta di piegare l’opinione pubblica a loro favore. Non mi
riferisco soltanto al governo di turno, perché tale potere manipolatore può
essere economico, politico, mediatico, religioso o di qualsiasi genere. A volte
lo si giustifica o lo si scusa quando la sua dinamica corrisponde ai propri
interessi economici o ideologici, ma prima o poi si ritorce contro questi
stessi interessi.
202. La mancanza di dialogo
comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì
di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di
imporre il proprio modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere
trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori
vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli
eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e
decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là
degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente
venendo alla luce nel cuore della nostra società.
Costruire insieme
203. L’autentico dialogo sociale
presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando
la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A
partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che
approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia
ancora più completo. È vero che quando una persona o un gruppo è coerente con
quello che pensa, aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un
pensiero, ciò in un modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma
questo avviene effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si
realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, «in un vero spirito
di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che
l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così
diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza
smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare
e impegnarsi insieme».[197] La discussione pubblica, se veramente dà spazio a
tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che
permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla
meglio. Impedisce che i vari settori si posizionino comodi e autosufficienti
nel loro modo di vedere le cose e nei loro interessi limitati. Pensiamo che «le
differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione
consiste il progresso dell’umanità».[198]
204. Oggi esiste la convinzione
che, oltre agli sviluppi scientifici specializzati, occorre la comunicazione
tra discipline, dal momento che la realtà è una, benché possa essere accostata
da diverse prospettive e con differenti metodologie. Non va trascurato il
rischio che un progresso scientifico venga considerato l’unico approccio
possibile per comprendere un aspetto della vita, della società e del mondo.
Invece, un ricercatore che avanza fruttuosamente nella sua analisi ed è anche
disposto a riconoscere altre dimensioni della realtà che indaga, grazie al
lavoro di altre scienze e altri saperi si apre a conoscere la realtà in maniera
più integra e piena.
205. In questo mondo globalizzato
«i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a
farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge
alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Possono
aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione
umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire
maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una
cosa buona, è un dono di Dio».[199] È però necessario verificare continuamente
che le attuali forme di comunicazione ci orientino effettivamente all’incontro
generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla vicinanza
con gli ultimi, all’impegno di costruire il bene comune. Nello stesso tempo,
come hanno indicato i Vescovi dell’Australia, «non possiamo accettare un mondo
digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio
dalla gente».[200]
Il fondamento dei consensi
206. Il relativismo non è la
soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il
fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze
del momento. Se in definitiva «non ci sono verità oggettive né principi
stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle
necessità immediate, […] non possiamo pensare che i programmi politici o la
forza della legge basteranno. […] Quando è la cultura che si corrompe e non si
riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le
leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da
evitare».[201]
207. È possibile prestare
attenzione alla verità, cercare la verità che risponde alla nostra realtà più
profonda? Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un
lungo cammino di riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile?
Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito
rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo.
Allora non ci si asterrà dall’uccidere qualcuno solo per evitare il disprezzo
sociale e il peso della legge, bensì per convinzione. È una verità
irrinunciabile che riconosciamo con la ragione e accettiamo con la coscienza. Una società è nobile e
rispettabile anche perché coltiva la ricerca della verità e per il suo attaccamento
alle verità fondamentali.
208. Occorre esercitarsi a
smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento
della verità negli ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è
solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca
dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle
nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare
oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che
erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la
ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano.
209. Diversamente, non potrebbe
forse succedere che i diritti umani fondamentali, oggi considerati
insormontabili, vengano negati dai potenti di turno, dopo aver ottenuto il
“consenso” di una popolazione addormentata e impaurita? E nemmeno sarebbe
sufficiente un mero consenso tra i vari popoli, ugualmente manipolabile. Già
abbiamo in abbondanza prove di tutto il bene che siamo capaci di compiere,
però, al tempo stesso, dobbiamo riconoscere la capacità di distruzione che c’è
in noi. L’individualismo indifferente e spietato in cui siamo caduti, non è
anche il risultato della pigrizia nel ricercare i valori più alti, che vadano
al di là dei bisogni momentanei? Al relativismo si somma il rischio che il
potente o il più abile riesca a imporre una presunta verità. Invece, «di fronte
alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né
eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo “miserabile”
sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali
siamo tutti assolutamente uguali».[202]
210. Quello che oggi ci accade, trascinandoci in una logica perversa e
vuota, è che si verifica un’assimilazione dell’etica e della politica alla
fisica. Non esistono il bene e il male in sé, ma solamente un calcolo di
vantaggi e svantaggi. Lo spostamento della ragione morale ha per conseguenza
che il diritto non può riferirsi a una concezione fondamentale di giustizia, ma
piuttosto diventa uno specchio delle idee dominanti. Entriamo qui in una
degenerazione: un andare “livellando verso il basso” mediante un consenso
superficiale e compromissorio. Così, in definitiva, la logica della forza
trionfa.
Il consenso e la verità
211. In una società pluralista,
il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere
sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale. Parliamo
di un dialogo che esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da
argomenti razionali, da varietà di prospettive, da apporti di diversi saperi e
punti di vista, e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad
alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute.
Accettare che ci sono alcuni valori permanenti, benché non sia sempre facile
riconoscerli, conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando
li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che
tali valori di base vanno al di là di ogni consenso, li riconosciamo come
valori che trascendono i nostri contesti e mai negoziabili. Potrà crescere la
nostra comprensione del loro significato e della loro importanza – e in questo
senso il consenso è una realtà dinamica – ma in sé stessi sono apprezzati come
stabili per il loro significato intrinseco.
212. Se una certa cosa rimane
sempre conveniente per il buon funzionamento della società, non è forse perché
dietro ad essa c’è una verità perenne, che l’intelligenza può cogliere? Nella
realtà stessa dell’essere umano e della società, nella loro natura intima, vi è
una serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro
sopravvivenza. Da lì derivano determinate esigenze che si possono scoprire grazie
al dialogo, anche se non sono costruite in senso stretto dal consenso. Il fatto
che certe norme siano indispensabili per la vita sociale stessa è un indizio
esterno di come esse siano qualcosa di intrinsecamente buono. Di conseguenza,
non è necessario contrapporre la convenienza sociale, il consenso, e la realtà
di una verità obiettiva. Tutt’e tre possono unirsi armoniosamente quando,
attraverso il dialogo, le persone hanno il coraggio di andare fino in fondo a
una questione.
213. Se bisogna rispettare in
ogni situazione la dignità degli altri, è perché noi non inventiamo o
supponiamo tale dignità, ma perché c’è effettivamente in essi un valore
superiore rispetto alle cose materiali e alle circostanze, che esige siano
trattati in un altro modo. Che ogni essere umano possiede una dignità
inalienabile è una verità corrispondente alla natura umana al di là di
qualsiasi cambiamento culturale. Perciò l’essere umano possiede la medesima
dignità inviolabile in qualunque epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato
dalle circostanze a negare questa convinzione o a non agire di conseguenza.
L’intelligenza può dunque scrutare nella realtà delle cose, attraverso la
riflessione, l’esperienza e il dialogo, per riconoscere in tale realtà che la
trascende la base di certe esigenze morali universali.
214. Agli agnostici, questo
fondamento potrà sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile
validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter
impedire nuove catastrofi. Per i credenti, la natura umana, fonte di principi
etici, è stata creata da Dio, il quale, in ultima istanza, conferisce un
fondamento solido a tali principi.[203] Ciò non stabilisce un fissismo etico né
apre la strada all’imposizione di alcun sistema morale, dal momento che i
principi morali fondamentali e universalmente validi possono dar luogo a
diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno spazio per il dialogo.
Una nuova cultura
215. «La vita è l’arte
dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita».[204] Tante volte ho
invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le
dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a
formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono
un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte».[205] Il
poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi,
arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze.
Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è
superfluo. Ciò implica
includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede
aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono
le decisioni più determinanti.
L’incontro fatto cultura
216. La parola “cultura” indica
qualcosa che è penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel
suo stile di vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di
un’idea o di un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva
un modo di vivere che caratterizza quel
gruppo umano. Dunque, parlare di “cultura dell’incontro” significa che come
popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto,
gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti. Questo è diventato
un’aspirazione e uno stile di vita. Il soggetto di tale cultura è il popolo, non un settore della società
che mira a tenere in pace il resto con mezzi professionali e mediatici.
217. La pace sociale è laboriosa,
artigianale. Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze con un po’
di astuzia e di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il
frutto di una cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà
diverse è molto più difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e
solida. Ciò non si ottiene mettendo insieme solo i puri, perché «persino le
persone che possono essere criticate per i loro errori hanno qualcosa da
apportare che non deve andare perduto».[206] E nemmeno consiste in una pace che
nasce mettendo a tacere le rivendicazioni sociali o evitando che facciano
troppo rumore, perché non è «un consenso a tavolino o un’effimera pace per una
minoranza felice».[207] Quello che conta è avviare processi di incontro,
processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le
armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!
Il gusto di riconoscere l’altro
218. Questo implica la capacità
abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere
diverso. A partire da tale riconoscimento fattosi cultura, si rende possibile
dar vita ad un patto sociale. Senza questo riconoscimento emergono modi sottili di far sì che l’altro
perda ogni significato, che diventi irrilevante, che non gli si riconosca alcun
valore nella società. Dietro al rifiuto di certe forme visibili di violenza,
spesso si nasconde un’altra violenza più subdola: quella di coloro che disprezzano
il diverso, soprattutto quando le sue rivendicazioni danneggiano in qualche
modo i loro interessi.
219. Quando una parte della
società pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri
non esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare
l’esistenza e i diritti degli altri, prima o poi provoca qualche forma di
violenza, molte volte inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e
della fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non
sono effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un
incontro tra coloro che detengono varie forme di potere economico, politico o
accademico. Un incontro sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme
culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone
proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano
con una veste culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi
identificati. Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo
dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni
del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli originari non sono contro il progresso, anche se
hanno un’idea di progresso diversa, molte volte più umanistica di quella della
cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una cultura orientata al vantaggio di quanti hanno
potere, di quanti hanno bisogno di creare una specie di paradiso sulla terra. L’intolleranza
e il disprezzo nei confronti delle culture popolari indigene è una vera forma
di violenza, propria degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando gli
altri. Ma nessun cambiamento autentico, profondo e stabile è possibile
se non si realizza a partire dalle diverse culture, principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone che si
rinunci a intendere l’identità di un luogo in modo monolitico, ed esige che si
rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di integrazione sociale.
221. Questo patto richiede anche
di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune. Nessuno
potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri,
perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti.
La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante,
di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia
che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero riconoscimento
dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto
dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile,
tra le sue motivazioni e i suoi interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri
diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce
per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a
livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in
momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è
ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo
fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola
greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude,
duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede
questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile,
soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle
angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme:
come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti,
come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole di
incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che
stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che
disprezzano».[208]
224. La gentilezza è una
liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà
che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che
anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo
ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire
“permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una
persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per
prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo,
per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza.
Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana
che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare
secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che
presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma
profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di
confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove
l’esasperazione distrugge tutti i ponti.
CAPITOLO
SETTIMO
PERCORSI
DI UN NUOVO INCONTRO
225. In molte parti del mondo
occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno
di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato
incontro con ingegno e audacia.
Ricominciare dalla verità
226. Nuovo incontro non significa
tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati.
Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato. Inoltre, non c’è più
spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti,
buone maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si
parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad
esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare
il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla verità storica dei fatti
potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e
di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti. La realtà è che «il processo
di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca
della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre,
passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta».[209]
Come hanno affermato i Vescovi del Congo a proposito di un conflitto che si
ripete, «gli accordi di pace
sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano,
includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il
popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo».[210]
227. In effetti, «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e
della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e,
d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La
verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione
e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che
è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo
ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore
delle donne vittime di violenza e di abusi. […] Ogni violenza commessa contro
un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci
“diminuisce” come persone. […] La violenza genera violenza, l’odio genera altro
odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare
ineluttabile».[211]
L’architettura e l’artigianato
della pace
228. Il percorso verso la pace
non richiede di omogeneizzare la società, ma sicuramente ci permette di
lavorare insieme. Può unire molti nel perseguire ricerche congiunte in cui
tutti traggono profitto. Di fronte a un determinato obiettivo condiviso, si
potranno offrire diverse proposte tecniche, varie esperienze, e lavorare per il
bene comune. Occorre cercare di identificare bene i problemi che una società
attraversa per accettare che esistano diversi modi di guardare le difficoltà e
di risolverle. Il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di
riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima –
almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi
sbagliato o aver agito male. Infatti, «l’altro non va mai rinchiuso in ciò che
ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé»,[212]
promessa che lascia sempre uno spiraglio di speranza.
229. Come hanno insegnato i
Vescovi del Sudafrica, la vera riconciliazione si raggiunge in maniera
proattiva, «formando una nuova società basata sul servizio agli altri, più che
sul desiderio di dominare; una società basata sul condividere con altri ciò che
si possiede, più che sulla lotta egoistica di ciascuno per la maggior ricchezza
possibile; una società in cui il valore di stare insieme come esseri umani è
senz’altro più importante di qualsiasi gruppo minore, sia esso la famiglia, la
nazione, l’etnia o la cultura».[213] I Vescovi della Corea del Sud hanno segnalato che un’autentica pace «si può
ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo,
perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco».[214]
230. L’impegno arduo per superare
ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti
rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza. Infatti, «la nostra società
vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In
una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso.
Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri
vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle
famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene
comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo
promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare.
I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno
sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire
a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui
vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe!
Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo,
che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?».[215]
231. Molte volte c’è un grande
bisogno di negoziare e così sviluppare percorsi concreti per la pace. Tuttavia,
i processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni
artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento
efficace con il suo stile di vita quotidiana. Le grandi trasformazioni non si
costruiscono alla scrivania o nello studio. Dunque, «ognuno svolge un ruolo
fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di
storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di
riconciliazione».[216] C’è una “architettura” della pace, nella quale intervengono
le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza,
però c’è anche un “artigianato” della pace che ci coinvolge tutti. A partire da
diversi processi di pace che si sviluppano in vari luoghi del mondo, «abbiamo
imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla
vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare
ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e
accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. […]
Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di
settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano
proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva».[217]
232. Non c’è un punto finale
nella costruzione della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di «un
compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede
di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado
gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la
convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura
dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed
economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene
comune. Che questo sforzo ci faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e
ricerca di interessi solo particolari e a breve termine».[218] Le
manifestazioni pubbliche violente, da una parte e dall’altra, non aiutano a
trovare vie d’uscita. Soprattutto
perché, come bene hanno osservato i Vescovi della Colombia, quando si
incoraggiano «mobilitazioni cittadine, non sempre risultano chiari le loro
origini e i loro obiettivi, ci sono alcune forme di manipolazione politica e si
riscontrano appropriazioni a favore di interessi particolari».[219]
Soprattutto con gli ultimi
233. La promozione dell’amicizia
sociale implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo
di qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato
incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. La pace «non è solo
assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo
un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire
concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli,
perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione».[220]
234. Spesso gli ultimi della
società sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste. Se talvolta i più
poveri e gli scartati reagiscono con atteggiamenti che sembrano antisociali, è
importante capire che in molti casi tali reazioni dipendono da una storia di
disprezzo e di mancata inclusione sociale. Come hanno insegnato i Vescovi
latinoamericani, «solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di
apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi, i loro legittimi aneliti
e il loro specifico modo di vivere la fede. L’opzione per i poveri deve
portarci all’amicizia con i poveri».[221]
235. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono
dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non
permettono che si generi pace. In effetti, «senza uguaglianza di opportunità,
le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che
prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o
mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi
politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare
illimitatamente la tranquillità».[222] Se si tratta di ricominciare, sarà
sempre a partire dagli ultimi.
Il valore e il significato del
perdono
236. Alcuni preferiscono non
parlare di riconciliazione, perché ritengono che il conflitto, la violenza e le
fratture fanno parte del funzionamento normale di una società. Di fatto, in
qualunque gruppo umano ci sono lotte di potere più o meno sottili tra vari
settori. Altri sostengono che ammettere il perdono equivale a cedere il proprio
spazio perché altri dominino la situazione. Perciò ritengono che sia meglio
mantenere un gioco di potere che permetta di sostenere un equilibrio di forze
tra i diversi gruppi. Altri credono che la riconciliazione sia una cosa da
deboli, che non sono capaci di un dialogo fino in fondo e perciò scelgono di
sfuggire ai problemi nascondendo le ingiustizie: incapaci di affrontare i
problemi, preferiscono una pace apparente.
Il conflitto inevitabile
237. Il perdono e la
riconciliazione sono temi di grande rilievo nel cristianesimo e, con varie
modalità, in altre religioni. Il rischio sta nel non comprendere adeguatamente
le convinzioni dei credenti e presentarle in modo tale che finiscano per
alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure, dall’altro lato,
l’intolleranza e la violenza.
238. Mai Gesù Cristo ha invitato
a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli stesso condannava apertamente
l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di
esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26). D’altra
parte, il Vangelo chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) e fa
l’esempio del servo spietato, che era stato perdonato ma a sua volta non è
stato capace di perdonare gli altri (cfr Mt 18,23-35).
239. Se leggiamo altri testi del
Nuovo Testamento, possiamo notare che di fatto le prime comunità, immerse in un
mondo pagano colmo di corruzione e di aberrazioni, vivevano un senso di
pazienza, tolleranza, comprensione. Alcuni testi sono molto chiari al riguardo:
si invita a riprendere gli avversari con dolcezza (cfr 2 Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare
male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza
verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati» (Tt 3,2-3). Il
libro degli Atti degli Apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune
autorità, “godevano il favore di tutto il popolo” (cfr 2,47; 4,21.33; 5,13).
240. Tuttavia, quando riflettiamo
sul perdono, sulla pace e sulla concordia sociale, ci imbattiamo in
un’espressione di Cristo che ci sorprende: «Non crediate che io sia venuto a
portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono
infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la
nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt
10,34-36). È importante situarla nel contesto del capitolo in cui è inserita.
Lì è chiaro che il tema di cui si tratta è quello della fedeltà alla propria
scelta, senza vergogna, benché ciò procuri contrarietà, e anche se le persone
care si oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non invitano a cercare
conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto inevitabile, perché il
rispetto umano non porti a venir meno alla fedeltà in ossequio a una presunta
pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha affermato che la Chiesa «non
intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa
sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali
insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso
prender posizione con decisione e coerenza».[223]
Le lotte legittime e il perdono
241. Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti
davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la
nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un
oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure
fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di
amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel
potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol
dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o
lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i
diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che
gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male
a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi
affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né
faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla
questa necessità bensì la richiede.
242. Ciò che conta è non farlo
per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del
nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una
trafila di vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con
la vita in questa maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di
vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li
unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo
metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la
stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione
sotto forme apparentemente legali».[224] Così non si guadagna nulla e alla
lunga si perde tutto.
243. Certo, «non è un compito
facile quello di superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze
lasciata dal conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il
bene (cfr Rm 12,21) e coltivando quelle virtù che promuovono la
riconciliazione, la solidarietà e la pace».[225] In tal modo, «a chi la fa
crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia
profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di fronte alle
offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare
alla vendetta».[226] Occorre riconoscere nella propria vita che «quel giudizio
duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non
curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un
pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere
perché non divampi in un incendio».[227]
Il vero superamento
244. Quando i conflitti non si
risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che
possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la
vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto,
superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente.
La lotta tra diversi settori, «quando si astenga dagli atti di inimicizia e
dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione,
fondata nella ricerca della giustizia».[228]
245. Più volte ho proposto «un
principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è
superiore al conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né
all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano
superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in
contrasto».[229] Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità,
impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi
particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un
ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti
considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che
genera nuova vita».[230]
La memoria
246. Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve
esigere una specie di “perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto
personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia
il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una
decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr
Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad
esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”,
pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un
manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri?
È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo
andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non
possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare.
247. La Shoah non va dimenticata.
È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da
false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale
merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la
religione che professa».[231] Nel ricordarla, non posso fare a meno di ripetere
questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di
vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci
di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne,
quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di
vita. Mai più, Signore, mai più!».[232]
248. Non vanno dimenticati i
bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. Ancora una volta «faccio memoria
qui di tutte le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di
coloro che, essendo sopravvissuti a quei primi momenti, hanno sopportato nei
propri corpi per molti anni le sofferenze più acute e, nelle loro menti, i
germi della morte che hanno continuato a consumare la loro energia vitale. […]
Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la
memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per
costruire un futuro più giusto e fraterno».[233] E nemmeno vanno dimenticati le
persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e
avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare
di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e
senza anestetizzarci.
249. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che
ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio!
Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e
luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere «la fiamma della coscienza collettiva,
testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde», che
«risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la
coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e
di distruzione».[234] Ne hanno bisogno le vittime stesse – persone,
gruppi sociali o nazioni – per non cedere alla logica che porta a giustificare
la rappresaglia e ogni violenza in nome del grande male subito. Per questo, non
mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in
mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la
dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono,
la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene.
Perdono senza dimenticanze
250. Il perdono non implica il dimenticare. Diciamo piuttosto che quando
c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato, relativizzato o dissimulato,
tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che mai dev’essere tollerato,
giustificato o scusato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che
per nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo
perdonare. Il perdono libero e sincero è una grandezza che riflette
l’immensità del perdono divino. Se il perdono è gratuito, allora si può
perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è incapace di chiedere perdono.
251. Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere
dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano
il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione. Decidono
di non continuare a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima
o poi finisce per ricadere ancora una volta su loro stessi. Infatti, la
vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione delle vittime. Ci sono
crimini così orrendi e crudeli, che far soffrire chi li ha commessi non serve
per sentire che si è riparato il delitto; e nemmeno basterebbe uccidere il
criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili a ciò che ha potuto
soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla.
252. Neppure stiamo parlando di
impunità. Ma la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della
giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in
ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira.
Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere
nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare.
253. Quando vi sono state
ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver
avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da
parte delle strutture e del potere dello Stato non sta allo stesso livello
della violenza di gruppi particolari. In ogni caso, non si può pretendere che
vengano ricordate solamente le sofferenze ingiuste di una sola delle parti.
Come hanno insegnato i Vescovi della Croazia, «noi dobbiamo ad ogni vittima
innocente il medesimo rispetto. Non vi possono essere differenze etniche,
confessionali, nazionali o politiche».[235]
254. Chiedo a Dio «di preparare i
nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee,
lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della
sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle
controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri
impegnativi ma fecondi della ricerca della pace».[236]
La guerra e la pena di morte
255. Ci sono due situazioni
estreme che possono arrivare a presentarsi come soluzioni in circostanze particolarmente
drammatiche, senza avvisare che sono false risposte, che non risolvono i
problemi che pretendono di superare e che in definitiva non fanno che
aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto della società nazionale e
mondiale. Si tratta della guerra e della pena di morte.
L’ingiustizia della guerra
256. «L’inganno è nel cuore di
chi trama il male, la gioia invece è di chi promuove la pace» (Pr 12,20).
Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso «si nutre del pervertimento
delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura
dell’altro e della diversità vista come ostacolo».[237] La guerra non è un
fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta
trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva
intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti.
257. Poiché si stanno creando
nuovamente le condizioni per la proliferazione di guerre, ricordo che «la
guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione
all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti,
occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le
nazioni e tra i popoli.
A tal fine bisogna assicurare il
dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai
buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite,
vera norma giuridica fondamentale».[238] Voglio rilevare che i 75 anni delle
Nazioni Unite e l’esperienza dei primi 20 anni di questo millennio mostrano che
la piena applicazione delle norme internazionali è realmente efficace, e che il
loro mancato adempimento è nocivo. La Carta delle Nazioni Unite, rispettata e
applicata con trasparenza e sincerità, è un punto di riferimento obbligatorio
di giustizia e un veicolo di pace. Ma ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli
interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune
mondiale. Se la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere
quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze
incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la
fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la
comunità globale.
258. È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di
scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla
manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre
hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della
Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la
forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose
condizioni di legittimità morale».[239] Tuttavia si cade facilmente in una
interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono
giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che
difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da
eliminare».[240] La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi
nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte
dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo
incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità
ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà
bene».[241] Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato
che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che
le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i
criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra
giusta”. Mai più la guerra![242]
259. È importante aggiungere che,
con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione
immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di
fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero
pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo
ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive
una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro
fortemente connesse nello scenario mondiale.
260. Come diceva San Giovanni
XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa
essere utilizzata come strumento di giustizia».[243] Lo affermava in un periodo
di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace
che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le
ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di
ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le
occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una
visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino
comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi
carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada
l’ingannevole fantasma della guerra.
261. Ogni guerra lascia il mondo
peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e
dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male.
Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo
la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili
massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo
attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi
chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati
della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza,
guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore
aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non
ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.
262. Neppure le norme saranno
sufficienti, se si pensa che la soluzione ai problemi attuali consista nel
dissuadere gli altri mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi
nucleari, chimiche o biologiche. Infatti, «se si prendono in considerazione le
principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni
in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la
sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi
emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere
efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più
consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e
ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con
devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio.
[…] Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla
paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni
di fiducia fra i popoli. La
pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso
di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale
annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. […]
In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi
nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario. […] La
crescente interdipendenza e la globalizzazione significano che qualunque
risposta diamo alla minaccia delle armi nucleari, essa debba essere collettiva
e concertata, basata sulla fiducia reciproca. Quest’ultima può essere costruita
solo attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune
e non verso la tutela di interessi velati o particolari».[244] E con il denaro
che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo
mondiale[245] per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più
poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o
ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una
vita più dignitosa.
La pena di morte
263. C’è un altro modo di
eliminare l’altro, non destinato ai Paesi ma alle persone. È la pena di morte.
San Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è
inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale.[246] Non è
possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi
affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile»[247] e la
Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il
mondo.[248]
264. Nel Nuovo Testamento, mentre
si chiede ai singoli di non farsi giustizia da sé stessi (cfr Rm 12,17.19), si
riconosce la necessità che le autorità impongano pene a coloro che fanno il
male (cfr Rm 13,4; 1 Pt 2,14). In effetti, «la vita in comune, strutturata
intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui
libera violazione richiede una risposta adeguata».[249] Ciò comporta che
l’autorità pubblica legittima possa e debba «comminare pene proporzionate alla
gravità dei delitti»[250] e che garantisca al potere giudiziario
«l’indipendenza necessaria nell’ambito della legge».[251]
265. Fin dai primi secoli della
Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale. Ad
esempio, Lattanzio sosteneva che «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà
un crimine uccidere un uomo».[252] Papa Nicola I esortava: «Sforzatevi di
liberare dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti
i colpevoli».[253] In occasione del giudizio contro alcuni omicidi che avevano assassinato
dei sacerdoti, Sant’Agostino chiese al giudice di non togliere la vita agli
assassini, e lo giustificava in questo modo: «Non che vogliamo con ciò impedire
che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma
desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in
alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla
loro insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o
che, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile.
Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un
benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero
all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento? […]
Sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità; non
sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi
la volontà a curarne le ferite».[254]
266. Le paure e i rancori
facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele,
invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di
reinserimento sociale. Oggi,
«tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di
comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e
privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma
anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver
infranto la legge. […]
C’è la tendenza a costruire
deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse
tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come
minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che,
a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».[255] Ciò ha reso
particolarmente rischiosa l’abitudine sempre più presente in alcuni Paesi di
ricorrere a carcerazioni preventive, a reclusioni senza giudizio e specialmente
alla pena di morte.
267. Desidero sottolineare che «è impossibile immaginare che oggi gli
Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per
difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone». Particolare
gravità rivestono le cosiddette esecuzioni extragiudiziarie o extralegali, che
«sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso
fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze
indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionato della forza per
far applicare la legge».[256]
268. «Gli argomenti contrari alla
pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente
sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore
giudiziario, e l’uso che di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali,
che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di
persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le
loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini
di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione
della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma
anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della
dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. […]
L’ergastolo è una pena di morte nascosta».[257]
269. Ricordiamo che «neppure
l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante».[258]
Il fermo rifiuto della pena di morte mostra fino a che punto è possibile
riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia
un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al peggiore dei criminali,
non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità di condividere con me
questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.
270. I cristiani che dubitano e
si sentono tentati di cedere a qualsiasi forma di violenza, li invito a
ricordare l’annuncio del libro di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne
faranno aratri» (2,4). Per noi questa profezia prende carne in Gesù Cristo, che
di fronte a un discepolo eccitato dalla violenza disse con fermezza: «Rimetti
la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada
moriranno» (Mt 26,52). Era un’eco di quell’antico ammonimento: «Domanderò conto
della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue
dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso» (Gen 9,5-6). Questa reazione di
Gesù, che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza dei secoli e giunge
fino a oggi come un costante richiamo.
CAPITOLO
OTTAVO
LE
RELIGIONI AL SERVIZIO DELLA
FRATERNITÀ
NEL MONDO
271. Le diverse religioni, a
partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura
chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la
costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il
dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia,
cortesia o tolleranza. Come hanno insegnato i Vescovi dell’India, «l’obiettivo
del dialogo è stabilire amicizia, pace, armonia e condividere valori ed
esperienze morali e spirituali in uno spirito di verità e amore».[259]
Il fondamento ultimo
272. Come credenti pensiamo che,
senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili
per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa
coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi».[260]
Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli
uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare
la fraternità».[261]
273. In questa prospettiva,
desidero ricordare un testo memorabile: «Se non esiste una verità trascendente,
obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste
nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro
interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni
agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza
del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone
per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai
diritti dell’altro. […] La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da
individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana,
immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura
stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il
gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza
di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza».[262]
274. A partire dalla nostra
esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei
secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle
diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre
società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri
interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada,
veramente fratelli. Crediamo che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole
estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben
presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti
violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della
libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi
una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti
ideali».[263]
275. Va riconosciuto come «tra le
più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana
anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio
dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e
mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e
trascendenti».[264] Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce
soltanto i potenti e gli scienziati. Dev’esserci uno spazio per la riflessione
che procede da uno sfondo religioso che raccoglie secoli di esperienza e di
sapienza. «I testi religiosi classici possono offrire un significato destinato
a tutte le epoche, posseggono una forza motivante», ma di fatto «vengono
disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi».[265]
276. Per queste ragioni, benché
la Chiesa rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione
all’ambito del privato. Al contrario, «non può e non deve neanche restare ai
margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare
le forze spirituali»[266] che possano fecondare tutta la vita sociale. È vero
che i ministri religiosi non devono fare politica partitica, propria dei laici,
però nemmeno possono rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza[267]
che implica una costante attenzione al bene comune e la preoccupazione per lo
sviluppo umano integrale. La Chiesa «ha un ruolo pubblico che non si esaurisce
nelle sue attività di assistenza o di educazione» ma che si adopera per la
«promozione dell’uomo e della fraternità universale».[268] Non aspira a
competere per poteri terreni, bensì ad offrirsi come «una famiglia tra le
famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare […] al mondo odierno la
fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con
predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte
aperte, perché è madre».[269] E come Maria, la Madre di Gesù, «vogliamo essere
una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue
sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di
unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione».[270]
L’identità cristiana
277. La Chiesa apprezza l’azione
di Dio nelle altre religioni, e «nulla rigetta di quanto è vero e santo in
queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di
vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un
raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini».[271] Tuttavia come
cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di
vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla
compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della
riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se
la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze,
nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia
che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna».[272] Altri
bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di
fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero
cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione,
all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con
l’umanità intera come vocazione di tutti».[273]
278. Chiamata a incarnarsi in
ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra –
questo significa “cattolica” –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla
propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore
universale. Infatti, «tutto ciò ch’è umano ci riguarda. […] Dovunque i consessi
dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi
siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro».[274] Per molti
cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome Maria. Ella
ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e la sua
attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al «resto della sua discendenza»
(Ap 12,17). Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove
tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società,
dove risplendano la giustizia e la pace.
279. Come cristiani chiediamo
che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come
noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza. C’è un
diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità
e della pace: è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni. Tale
libertà manifesta che possiamo «trovare un buon accordo tra culture e religioni
differenti; testimonia che le cose che abbiamo in comune sono così tante e
importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e
pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli
perché figli di un unico Dio».[275]
280. Nello stesso tempo,
chiediamo a Dio di rafforzare l’unità nella Chiesa, unità arricchita da
diversità che si riconciliano per l’azione dello Spirito Santo. Infatti «siamo
stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13), dove
ciascuno dà il suo apporto peculiare. Come diceva Sant’Agostino, «l’orecchio vede
attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio».[276] È urgente
inoltre continuare a dare testimonianza di un cammino di incontro tra le
diverse confessioni cristiane. Non possiamo dimenticare il desiderio espresso
da Gesù: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ascoltando il suo invito,
riconosciamo con dolore che al processo di globalizzazione manca ancora il
contributo profetico e spirituale dell’unità tra tutti i cristiani. Ciò
nonostante, «pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo
sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso
tutti, collaborando nel servizio all’umanità».[277]
Religione e violenza
281. Tra le religioni è possibile
un cammino di pace. Il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché
«Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore. E l’amore di Dio è lo
stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso
amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente
per poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese!».[278]
282. Anche «i credenti hanno
bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la
promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di
nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci
incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda,
solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo
peculiare contributo».[279] Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle
nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore
del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal
loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di
xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base
alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni.
283. Il culto a Dio, sincero e
umile, «porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al
rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà
degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti».[280] In realtà,
«chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Pertanto, «il terrorismo
esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in
Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è
dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto
alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di
fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è
necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il
rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la
copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che
minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale
terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni».[281] Le convinzioni
religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di
«riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei
quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e
crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e
armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio».[282]
284. Talvolta la violenza
fondamentalista viene scatenata in alcuni gruppi di qualsiasi religione
dall’imprudenza dei loro leader. Tuttavia, «il comandamento della pace è
inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. […] Come
leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella
costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli
intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un
guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé,
ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è
quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della
pace, unendo e non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo
le vie del dialogo e non innalzando nuovi muri!».[283]
Appello
285. In quell’incontro fraterno,
che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, «dichiariamo –
fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano
sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo
spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli
insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle
interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune
fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli
uomini […]. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da
nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la
gente».[284] Perciò desidero riprendere qui l’appello alla pace, alla giustizia
e alla fraternità che abbiamo fatto insieme:
«In nome di Dio che ha creato
tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha
chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e
diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima
umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una
persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come
se avesse salvato l’umanità intera.
In nome dei poveri, dei miseri,
dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un
dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso
e benestante.
In nome degli orfani, delle
vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di
tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei
deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati
in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno
perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle
distruzioni, delle rovine e delle guerre.
In nome della fratellanza
umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.
In nome di questa fratellanza
lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno
smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i
destini degli uomini.
In nome della libertà, che Dio ha
donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della
misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.
In nome di tutte le persone di
buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.
In nome di Dio e di tutto questo,
[…] [dichiariamo] di adottare la cultura del dialogo come via, la
collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e
criterio».[285]
* * *
286. In questo spazio di
riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente
da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici:
Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio
concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire
dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione
fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld.
287. Egli andò orientando il suo
ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi,
abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la
sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello,[286] e
chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di
tutte le anime di questo paese».[287] Voleva essere, in definitiva, «il
fratello universale».[288] Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad
essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen.
Preghiera al Creatore
Signore e Padre dell’umanità,
che hai creato tutti gli esseri
umani con la stessa dignità,
infondi nei nostri cuori uno
spirito fraterno.
Ispiraci il sogno di un nuovo
incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Stimolaci a creare società più
sane e un mondo più degno,
senza fame, senza povertà, senza violenza,
senza guerre.
Il nostro cuore si apra
a tutti i popoli e le nazioni
della terra,
per riconoscere il bene e la
bellezza
che hai seminato in ciascuno di
essi,
per stringere legami di unità, di
progetti comuni,
di speranze condivise. Amen.
Preghiera cristiana ecumenica
Dio nostro, Trinità d’amore,
dalla potente comunione della tua
intimità divina
effondi in mezzo a noi il fiume
dell’amore fraterno.
Donaci l’amore che traspariva nei
gesti di Gesù,
nella sua famiglia di Nazaret e
nella prima comunità cristiana.
Concedi a noi cristiani di vivere
il Vangelo
e di riconoscere Cristo in ogni
essere umano,
per vederlo crocifisso nelle
angosce degli abbandonati
e dei dimenticati di questo mondo
e risorto in ogni fratello che si
rialza in piedi.
Vieni, Spirito Santo! Mostraci la
tua bellezza
riflessa in tutti i popoli della
terra,
per scoprire che tutti sono
importanti,
che tutti sono necessari, che
sono volti differenti
della stessa umanità amata da
Dio. Amen.
Dato ad Assisi, presso la tomba
di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della Festa del Poverello, dell’anno
2020, ottavo del mio Pontificato
Francesco
[1] Ammonizioni, 6, 1: FF 155.
[2] Ibid., 25: FF 175.
[3] S. Francesco di Assisi,
Regola non bollata, 16, 3.6: FF 42-43.
[4] Eloi Leclerc, O.F.M., Exilio
y ternura, ed. Marova, Madrid 1987, 205.
[5] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[6] Discorso nell’Incontro
ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio
2019): L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019, p. 9.
[7] Discorso al Parlamento
Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 996.
[8] Incontro con le Autorità, la
società civile e il Corpo diplomatico, Santiago del Cile (16 gennaio 2018): AAS
110 (2018), 256.
[9] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[10] Esort. ap. postsin. Christus
vivit (25 marzo 2019), 181.
[11] Card. Raúl Silva Henríquez,
S.D.B., Omelia al Te Deum a Santiago del Cile (18 settembre 1974).
[12] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 57: AAS 107 (2015), 869.
[13] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016),
120.
[14] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13 gennaio 2014): AAS 106 (2014),
83-84.
[15] Cfr Discorso alla Fondazione
“Centesimus annus pro Pontifice” (25 maggio 2013): Insegnamenti, I, 1 (2013),
238.
[16] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio (26 marzo 1967), 14: AAS 59 (1967), 264.
[17] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 22: AAS 101 (2009), 657.
[18] Discorso alle Autorità,
Tirana – Albania (21 settembre 2014): AAS 106 (2014), 773.
[19] Messaggio ai partecipanti
alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo:
conquiste, omissioni, negazioni” (10 dicembre 2018): L’Osservatore Romano,
10-11 dicembre 2018, p. 8.
[20] Esort. ap. Evangelii gaudium
(24 novembre 2013), 212: AAS 105 (2013), 1108.
[21] Messaggio per la 48ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2015 (8 dicembre 2014), 3-4: AAS 107
(2015), 69-71.
[22] Ibid., 5: AAS (107 (2015),
72.
[23] Messaggio per la 49ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8 dicembre 2015), 2: AAS 108
(2016), 49.
[24] Messaggio per la 53ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 1: L’Osservatore
Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[25] Discorso sulle armi
nucleari, Nagasaki – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26
novembre 2019, p. 6.
[26] Discorso a professori e
studenti del Collegio “San Carlo” di Milano (6 aprile 2019): L’Osservatore
Romano, 8-9 aprile 2019, p. 6.
[27] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[28] Discorso al mondo della
cultura, Cagliari – Italia (22 settembre 2013): L’Osservatore Romano, 23-24
settembre 2013, p. 7.
[29] Humana communitas. Lettera
al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del XXV
anniversario della sua istituzione (6 gennaio 2019), 2.6: L’Osservatore Romano,
16 gennaio 2019, pp. 6-7.
[30] Videomessaggio al TED2017 di
Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[31] Momento straordinario di
preghiera in tempo di epidemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo
2020, p. 10.
[32] Omelia nella S. Messa,
Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio
2019, p. 12.
[33] Cfr Aeneis, I, 462: «Sunt
lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt».
[34] «Historia […] magistra
vitae» (M.T. Cicerone, De Oratore, II, 36).
[35] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 204: AAS 107 (2015), 928.
[36] Esort. ap. postsin. Christus
vivit (25 marzo 2019), 91.
[37] Ibid., 92.
[38] Ibid., 93.
[39] Benedetto XVI, Messaggio per
la 99ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (12 ottobre 2012): AAS
104 (2012), 908.
[40] Esort. ap. postsin. Christus
vivit (25 marzo 2019), 92.
[41] Cfr Messaggio per la 106ª
Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2020 (13 maggio 2020):
L’Osservatore Romano, 16 maggio 2020, p. 8.
[42] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016),
124.
[43] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13 gennaio 2014): AAS 106 (2014),
84.
[44] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016),
123.
[45] Messaggio per la 105ª
Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (27 maggio 2019): L’Osservatore
Romano, 27-28 maggio 2019, p. 8.
[46] Esort. ap. postsin. Christus
vivit (25 marzo 2019), 88.
[47] Ibid., 89.
[48] Esort. ap. Gaudete et
exsultate (19 marzo 2018), 115.
[49] Dal film Papa Francesco – Un
uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[50] Discorso alle Autorità, alla
società civile e al Corpo diplomatico, Tallin – Estonia (25 settembre 2018):
L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 7.
[51] Cfr Momento straordinario di
preghiera in tempo di epidemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo,
p. 10; Messaggio per la 4ª Giornata Mondiale dei Poveri (13 giugno 2020), 6:
L’Osservatore Romano, 14 giugno 2020, p. 8.
[52] Saluto ai giovani del Centro
Culturale Padre Félix Varela, L’Avana – Cuba (20 settembre 2015): L’Osservatore
Romano, 21-22 settembre 2015, p. 6.
[53] Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
past. Gaudium et spes, 1.
[54] S. Ireneo di Lione, Adversus
haereses, II, 25, 2: PG 7/1, 798-s.
[55] Talmud Bavli (Talmud di
Babilonia), Shabbat, 31 a.
[56] Discorso agli assistiti
delle opere di carità della Chiesa, Tallin – Estonia (25 settembre 2018):
L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 8.
[57] Videomessaggio al TED2017 di
Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[58] Homiliae in Mattheum, 50,
3-4: PG 58, 508.
[59] Messaggio in occasione
dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – USA (10 febbraio 2017): AAS 109
(2017), 291.
[60] Esort. ap. Evangelii gaudium
(24 novembre 2013), 235: AAS 105 (2013), 1115.
[61] S. Giovanni Paolo II,
Messaggio alle persone disabili. Angelus a Osnabrück – Germania (16
novembre1980): L’Osservatore Romano, 19 novembre 1980, Supplemento, p. XIII.
[62] Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
past. Gaudium et spes, 24.
[63] Gabriel Marcel, Du refus à
l’invocation, ed. NRF, París 1940, 50 (ed. it. Dal rifiuto all’invocazione,
Città Nuova, Roma 1976, 62).
[64] Angelus (10 novembre 2019):
L’Osservatore Romano, 11-12 novembre 2019, p. 8.
[65] Cfr S. Tommaso d’Aquino,
Scriptum super libros Sententiarum, III, Dist. 27, q. 1, a. 1, ad 4: «Dicitur
amor extasim facere, et fervere, quia quod fervet extra se bullit, et exhalat».
[66] Karol Wojtyła, Amore e
responsabilità, Marietti, Casale Monferrato 1983, 90.
[67] Karl Rahner, S.I., Kleines
Kirchenjahr. Ein Gang durch den Festkreis, Herder, Friburgo 1981, 30 (ed. it.
L’anno liturgico, Morcelliana,
Brescia 1964, 34).
[68] Regula, 53, 15: «Pauperum et
peregrinorum maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur».
[69] Cfr Summa Theologiae II-II,
q. 23, art. 7; S. Agostino, Contra Julianum, 4, 18: PL 44, 748: «Essi [gli
avari] si astengono dai piaceri sia per l’avidità di accrescere il guadagno,
sia per il timore di diminuirlo».
[70] «Secundum acceptionem
divinam» (Commentaria in III librum Sententiarum Petri Lombardi, Dist. 27, a.
1, q. 1, concl. 4).
[71] Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), 15: AAS 98 (2006), 230.
[72] Summa Theologiae II-II, q. 27,
art. 2, resp.
[73] Cfr ibid. I-II, q. 26, a. 3,
resp.
[74] Ibid., q. 110, a. 1, resp.
[75] Messaggio per la 47ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014 (8 dicembre 2013), 1: AAS 106
(2014), 22.
[76] Cfr Angelus (29 dicembre
2013): L’Osservatore Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7; Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2015): AAS 107 (2015),
165.
[77] Messaggio per la Giornata
mondiale delle persone con disabilità (3 dicembre 2019): L’Osservatore Romano,
4 dicembre 2019, p. 7.
[78] Discorso nell’Incontro per
la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati, Filadelfia –
USA (26 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1050-1051.
[79] Discorso ai giovani, Tokyo –
Giappone (25 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 10.
[80] In queste considerazioni mi
lascio ispirare dal pensiero di Paul Ricoeur, “Il socio ed il prossimo”, in
Histoire et vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 113-127.
[81] Esort. ap. Evangelii gaudium
(24 novembre 2013), 190: AAS 105 (2013), 1100.
[82] Ibid., 209: AAS 105 (2013),
1107.
[83] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[84] Messaggio per l’evento
“Economy of Francesco” (1 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 12 maggio 2019,
p. 8.
[85] Discorso al Parlamento
Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 997.
[86] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 229: AAS 107 (2015), 937.
[87] Messaggio per la 49ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8 dicembre 2015), 6: AAS 108
(2016), 57-58.
[88] La solidità si trova nella
radice etimologica della parola solidarietà. La solidarietà, nel significato
etico-politico che essa ha assunto negli ultimi due secoli, dà luogo a una
costruzione sociale sicura e salda.
[89] Omelia nella S. Messa,
L’Avana – Cuba (20 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 settembre 2015,
p. 8.
[90] Discorso ai partecipanti
all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014),
851-852.
[91] Cfr S. Basilio, Homilia 21.
Quod rebus mundanis adhaerendum non sit, 3.5: PG 31, 545-549; Regulae brevius
tractatae, 92: PG 31, 1145-1148; S. Pietro Crisologo, Sermo 123: PL 52,
536-540; S. Ambrogio, De Nabuthe, 27.52: PL 14, 738s; S. Agostino, In Iohannis
Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436s.
[92] De Lazaro, II, 6: PG 48,
992D.
[93] Regula pastoralis, III, 21:
PL 77, 87.
[94] Lett. enc. Centesimus annus
(1 maggio 1991), 31: AAS 83 (1991), 831.
[95] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884.
[96] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.
[97] Cfr Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa,
172.
[98] Lett. enc. Populorum
progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268.
[99] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 33: AAS 80 (1988), 557.
[100] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 95: AAS 107 (2015), 885.
[101] Ibid., 129: AAS 107 (2015),
899.
[102] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio (26 marzo 1967), 15: AAS 59 (1967), 265; Benedetto XVI,
Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 16: AAS 101 (2009), 652.
[103] Cfr Lett. enc. Laudato si’
(24 maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884-885; Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 189-190: AAS 105 (2013), 1099-1100.
[104] Conferenza dei Vescovi
Cattolici degli Stati Uniti, Open wide our Hearts: The enduring Call to Love. A
Pastoral Letter against Racism (Novembre 2018).
[105] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 51: AAS 107 (2015), 867.
[106] Cfr Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 6: AAS 101 (2009), 644.
[107] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 35: AAS 83 (1991), 838.
[108] Discorso sulle armi
nucleari, Nagasaki – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26
novembre 2019, p. 6.
[109] Cfr Vescovi Cattolici del
Messico e degli Stati Uniti, Lettera pastorale Strangers no longer: together on
the journey of hope (Gennaio 2003).
[110] Udienza generale (3 aprile
2019): L’Osservatore Romano, 4 aprile 2019, p. 8.
[111] Cfr Messaggio per la 104ª
Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (14 gennaio 2018): AAS 109
(2017), 918-923).
[112] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[113] Discorso al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016): AAS 108 (2016),
124.
[114] Ibid.: AAS 108 (2016), 122.
[115] Esort. ap. postsin.
Christus vivit (25 marzo 2019), 93.
[116] Ibid., 94.
[117] Discorso alle Autorità,
Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno
2015, p. 7.
[118] Latinoamérica.
Conversaciones con Hernán Reyes Alcaide, Ed. Planeta, Buenos Aires 2017, 105.
[119] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[120] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700.
[121] Ibid., 60: AAS 101 (2009),
695.
[122] Ibid., 67: AAS 101 (2009),
700.
[123] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 447.
124] Esort. ap. Evangelii gaudium
(24 novembre 2013), 234: AAS 105 (2013), 1115.
[125] Ibid., 235: AAS 105 (2013),
1115.
[126] Ibid.
[127] S. Giovanni Paolo II,
Discorso ai rappresentanti del mondo della cultura argentina, Buenos Aires –
Argentina (12 aprile 1987), 4: L’Osservatore Romano, 14 aprile 1987, p. 7.
[128] Cfr Id., Discorso ai
Cardinali (21 dicembre 1984), 4: AAS 76 (1984), 506.
[129] Esort. ap. postsin. Querida
Amazonia (2 febbraio 2020), 37.
[130] Georg Simmel, Brücke und
Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft,
Köhler-Verlag, Stuttgart 1957, p. 6 (ed. it. Ponte e porta, in Saggi di
estetica, a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, 8).
[131] Cfr Jaime Hoyos-Vásquez,
S.I., Lógica de las relaciones sociales. Reflexión ontológica, in Revista
Universitas Philosophica, 15-16, dicembre 1990 - giugno 1991, Bogotá, 95-106.
[132] Antonio Spadaro, S.I., Le
orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco, in Jorge Mario
Bergoglio/Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di
Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016, XVI; cfr Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 220-221: AAS 105 (2013), 1110-1111.
[133] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 204: AAS 105 (2013), 1106.
[134] Cfr ibid.: AAS 105 (2013),
1105-1106.
[135] Ibid., 202: AAS 105 (2013),
1105.
[136] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 128: AAS 107 (2015), 898.
[137] Discorso ai membri del
Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2015): AAS (107)
(2015), 165; cfr Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti
popolari(28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-859.
[138] Qualcosa di simile si può
dire della categoria biblica di “Regno di Dio”.
[139] Paul Ricoeur, Histoire et
vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 122 (ed. it. A. Plé et al., L’amore del
prossimo, Paoline, Alba 1958, 247).
[140] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[141] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 35: AAS 101 (2009), 670.
[142] Discorso ai partecipanti
all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014),
858.
[143] Ibid.
[144] Discorso ai partecipanti
all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (5 novembre 2016): L’Osservatore
Romano, 7-8 novembre 2016, pp. 4-5.
[145] Ibid.
[146] Ibid.
[147] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[148] Discorso all’Organizzazione
delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1037.
[149] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 175: AAS 107 (2015), 916-917.
[150] Cfr Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700-701.
[151] Ibid.: AAS 101 (2009), 700.
[152] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 434.
[153] Discorso all’Organizzazione
delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1037.1041.
[154] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 437.
[155] S. Giovanni Paolo II,
Messaggio per la 37ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2004, 5: AAS 96
(2004), 117.
[156] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 439.
[157] Cfr Commissione Sociale dei
Vescovi di Francia, Dich. Réhabiliter la politique (17 febbraio 1999).
[158] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[159] Ibid., 196: AAS 107 (2015),
925.
[160] Ibid., 197: AAS 107 (2015),
925.
[161] Ibid., 181: AAS 107 (2015),
919.
[162] Ibid., 178: AAS 107 (2015),
918.
[163] Conferenza Episcopale
Portoghese, Lett. past. Responsabilidade solidária pelo bem comum (15 settembre
2003), 20; cfr Lett. enc. Laudato si’, 159: AAS 107 (2015), 911.
[164] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 191: AAS 107 (2015), 923.
[165] Pio XI, Discorso alla
Federazione Universitaria Cattolica Italiana (18 dicembre 1927): L’Osservatore
Romano (23 dicembre 1927), 3.
[166] Cfr Id., Lett. enc.
Quadragesimo anno (15 maggio 1931), 88: AAS 23 (1931), 206-207.
[167] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 205: AAS 105 (2013), 1106.
[168] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[169] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 231: AAS 107 (2015), 937.
[170] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[171] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[172] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 288.
[173] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio (26 marzo 1967), 44: AAS 59 (1967), 279.
[174] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[175] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[176] Ibid., 3: AAS 101 (2009),
643.
[177] Ibid., 4: AAS 101 (2009),
643.
[178] Ibid.
[179] Ibid., 3: AAS 101 (2009),
643.
[180] Ibid.: AAS 101 (2009), 642.
[181] La dottrina morale
cattolica, seguendo l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, distingue tra
l’atto “elicito” e l’atto “imperato” (cfr Summa Theologiae, I-II, q. 8-17;
Marcellino Zalba, S.J., Theologiae moralis summa. Theologia moralis
fundamentalis. Tractatus de virtutibus theologicis, ed. BAC, Madrid 1952, vol.
1, 69; Antonio Royo Marín, Teología de la Perfección cristiana, ed. BAC, Madrid
1962, 192-196).
[182] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 208.
[183] Cfr S. Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572-574;
Id. Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 11: AAS 83 (1991), 806-807.
[184] Discorso ai partecipanti
all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014),
852.
[185] Discorso al Parlamento
Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014): AAS 106 (2014), 999.
[186] Discorso alla classe
dirigente e al Corpo diplomatico, Bangui – Repubblica Centrafricana (29
novembre 2015): AAS 107 (2015), 1320.
[187] Discorso all’Organizzazione
delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1039.
[188] Discorso ai partecipanti
all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014),
853.
[189] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[190] René Voillaume, Frère de
tous, Ed. du Cerf, Paris 1968, 12-13.
[191] Videomessaggio al TED2017
di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[192] Udienza generale (18 febbraio
2015): L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015, p. 8.
[193] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 274: AAS 105 (2013), 1130.
[194] Ibid., 279: AAS 105 (2013),
1132.
[195] Messaggio per la 52ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2019 (8 dicembre 2018), 5:
L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2018, p. 8.
[196] Discorso nell’Incontro con
la classe dirigente, Rio de Janeiro – Brasile (27 luglio 2013): AAS 105 (2013),
683-684.
[197] Esort. ap. postsin. Querida
Amazonia (2 febbraio 2020), 108.
[198] Dal film Papa Francesco –
Un uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders
(2018).
[199] Messaggio per la 48ª
Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24 gennaio 2014): AAS 106
(2014), 113.
[200] Conferenza dei Vescovi
Cattolici di Australia, Dipartimento di Giustizia sociale, Making it real:
genuine human encounter in our digital world (novembre 2019), 5.
[201] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 123: AAS 107 (2015), 896.
[202] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 96: AAS 85 (1993), 1209.
[203] Come cristiani crediamo,
inoltre, che Dio dona la sua grazia affinché sia possibile agire come fratelli.
[204] Vinicius De Moraes, Samba
della benedizione (Samba da Bênção), nel disco Um encontro no Au bon Gourmet,
Rio de Janeiro (2 agosto 1962).
[205] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 237: AAS 105 (2013), 1116.
[206] Ibid., 236: AAS 105 (2013),
1115.
[207] Ibid., 218: AAS 105 (2013),
1110.
[208] Esort. ap. postsin. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), 100: AAS 108 (2016), 351.
[209] Messaggio per la 53ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 2:
L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[210] Conferenza Episcopale del
Congo, Message au Peuple de Dieu et aux femmes et aux hommes de bonne
volonté (9 maggio 2018).
[211] Discorso nel grande
incontro di preghiera per la riconciliazione nazionale, Villavicencio –
Colombia (8 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1063-1064. 1066.
[212] Messaggio per la 53ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 3:
L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[213] Conferenza dei Vescovi del
Sudafrica, Pastoral letter on christian hope in the current crisis (maggio
1986).
[214] Conferenza dei Vescovi
Cattolici della Corea, Appeal of the Catholic Church in Korea for Peace on the
Korean Peninsula (15 agosto 2017).
[215] Discorso alla società
civile, Quito – Ecuador (7 luglio 2015): L’Osservatore Romano, 9 luglio 2015,
p. 9.
[216] Discorso nell’Incontro
interreligioso con i giovani, Maputo – Mozambico (5 settembre 2019):
L’Osservatore Romano, 6 settembre 2019, p. 7.
[217] Omelia nella S. Messa,
Cartagena de Indias – Colombia (10 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1086.
[218] Discorso alle Autorità, al
Corpo diplomatico e a rappresentanti della società civile, Bogotá – Colombia (7
settembre 2017): AAS 109 (2017), 1029.
[219] Conferenza Episcopale della
Colombia, Por el bien de Colombia: diálogo, reconciliación y desarrollo
integral (26 novembre 2019), 4.
[220] Discorso alle Autorità,
alla società civile e al Corpo diplomatico, Maputo – Mozambico (5 settembre
2019): L’Osservatore Romano, 6 settembre 2019, p. 6.
[221] V Conferenza Generale dell’Episcopato
Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 398
(ed. it. EDB, Bologna 2014).
[222] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 59: AAS 105 (2013), 1044.
[223] Lett. enc. Centesimus annus
(1 maggio 1991), 14: AAS 83 (1991), 810.
[224] Omelia nella S. Messa per
lo sviluppo dei popoli, Maputo – Mozambico (6 settembre 2019): L’Osservatore
Romano, 7 settembre 2019, p. 8.
[225] Discorso nella cerimonia di
benvenuto, Colombo – Sri Lanka (13 gennaio 2015): L’Osservatore Romano, 14
gennaio 2015, p. 7.
[226] Discorso ai bambini del
Centro Betania e a una rappresentanza di assistiti di altri centri caritativi
dell’Albania, Tirana – Albania (21 settembre 2014): Insegnamenti, II, 2 (2014),
288.
[227] Videomessaggio al TED2017
di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[228] Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo
anno (15 maggio 1931), 114: AAS 23 (1931), 213.
[229] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 228: AAS 105 (2013), 1113.
[230] Discorso alle Autorità,
alla società civile e al Corpo diplomatico, Riga – Lettonia (24 settembre
2018): L’Osservatore Romano, 24-25 settembre 2018, p. 7.
[231] Discorso nella Cerimonia di
benvenuto, Tel Aviv – Israele (25 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014),
604.
[232] Discorso presso il
Memoriale di Yad Vashem, Gerusalemme (26 maggio 2014): AAS 106 (2014), 228.
[233] Discorso presso il
Memoriale della Pace, Hiroshima – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore
Romano, 25-26 novembre 2019, p. 8.
[234] Messaggio per la 53ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 2:
L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[235] Conferenza dei Vescovi
della Croazia, Letter on the Fiftieth Anniversary of the End of the Second
World War (1 maggio 1995).
[236] Omelia nella S. Messa,
Amman – Giordania (24 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 593.
[237] Messaggio per la 53ª
Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8 dicembre 2019), 1: L’Osservatore
Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[238] Discorso all’Organizzazione
delle Nazioni Unite, New York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1041-1042.
[239] N. 2309.
[240] Ibid.
[241] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 104: AAS 107 (2015), 888.
[242] Anche Sant’Agostino, che
elaborò un’idea della “guerra giusta” che oggi ormai non sosteniamo, disse che
«dare la morte alla guerra con la parola, e raggiungere e ottenere la pace con
la pace e non con la guerra, è maggior gloria che darla agli uomini con la
spada» (Epistula 229, 2: PL 33, 1020).
[243] Lett. enc. Pacem in terris
(11 aprile 1963), 67: AAS 55 (1963), 291.
[244] Messaggio alla Conferenza
dell’ONU per la negoziazione di uno strumento giuridicamente vincolante sulla
proibizione delle armi nucleari (23 marzo 2017): AAS 109 (2017), 394-396.
[245] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio (26 marzo 1967), 51: AAS 59 (1967), 282.
[246] Cfr Lett. enc. Evangelium
vitae (25 marzo 1995), 56: AAS 87 (1995), 463-464.
[247] Discorso in occasione del
25º anniversario del Catechismo della Chiesa Cattolica (11 ottobre 2017): AAS
109 (2017), 1196.
[248] Cfr Congregazione per la
Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi circa la nuova redazione del n. 2267
del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte (1 agosto 2018):
L’Osservatore Romano, 3 agosto 2018, p. 8.
[249] Discorso a una delegazione
dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale (23 ottobre 2014): AAS 106
(2014), 840.
[250] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 402.
[251] S. Giovanni Paolo II,
Discorso all’Associazione Nazionale Magistrati (31 marzo 2000), 4: AAS 92
(2000), 633.
[252] Divinae Institutiones VI,
20, 17: PL 6, 708.
[253] Epistula 97 (responsa ad
consulta bulgarorum), 25: PL 119, 991.
[254] Epistula ad Marcellinum,
133, 1.2: PL 33, 509.
[255] Discorso alla delegazione
dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale (23 ottobre 2014): AAS 106
(2014), 840-841.
[256] Ibid.: AAS 106 (2014), 842.
[257] Ibid.
[258] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Evangelium
vitae (25 marzo 1995), 9: AAS 87 (1995), 411.
[259] Conferenza dei Vescovi
Cattolici dell’India, Response of the Church in India to the present day
challenges (9 marzo 2016).
[260] Omelia nella S. Messa,
Domus Sanctae Marthae (17 maggio 2020).
[261] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[262] S. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 44: AAS 83 (1991), 849.
[263] Discorso ai leader di altre
religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana – Albania (21 settembre
2014): Insegnamenti, II, 2 (2014), 277.
[264] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019),
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[265] Esort. ap. Evangelii
gaudium (24 novembre 2013), 256: AAS 105 (2013), 1123.
[266] Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), 28: AAS 98 (2006), 240.
[267] «L’essere umano è un
animale politico» (Aristotele, Politica, 1253a 1-3).
[268] Benedetto XVI, Lett. enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 11: AAS 101 (2009), 648.
[269] Discorso alla comunità cattolica,
Rakovsky – Bulgaria (6 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio 2019, p. 9.
[270] Omelia nella S. Messa,
Santiago di Cuba (22 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1005.
[271] Conc. Ecum. Vat. II, Dich.
Nostra aetate, 2.
[272] Discorso nell’Incontro
ecumenico, Riga – Lettonia (24 settembre 2018): L’Osservatore Romano, 24-25
settembre 2018, p. 8.
[273] Lectio divina alla Pontificia
Università Lateranense (26 marzo 2019): L’Osservatore Romano, 27 marzo 2019, p.
10.
[274] S. Paolo VI, Lett. enc.
Ecclesiam suam (6 agosto 1964), 101: AAS 56 (1964), 650.
[275] Discorso alle Autorità
palestinesi, Betlemme – Palestina (25 maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014),
597.
[276] Enarrationes in Psalmos,
130, 6: PL 37, 1707.
[277] Dichiarazione congiunta del
Santo Padre Francesco e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Gerusalemme (25
maggio 2014), 5: L’Osservatore Romano, 26-27 maggio 2014, p. 6.
[278] Dal film Papa Francesco. Un
uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[279] Esort. ap. postsin. Querida
Amazonia (2 febbraio 2020), 106.
[280] Omelia nella S. Messa,
Colombo – Sri Lanka (14 gennaio 2015): AAS 107 (2015), 139.
[281] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[282] Discorso alle Autorità,
Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno
2015, p. 7.
[283] Discorso ai partecipanti
all’Incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio
(30 settembre 2013): Insegnamenti, I, 2 (2013), 301-302.
[284] Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019):
L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[285] Ibid.
[286] Cfr B. Charles de Foucauld,
Meditazione sul Padre nostro (23 gennaio 1897): Opere spirituali, Ed. Paoline,
Roma 1983, 555-562.
[287] Id., Lettera a Henry de
Castries (29 novembre 1901): Id., Solo con Dio in compagnia dei fratelli, a
cura di E. Bolis, Ed. Paoline, Milano 2002, 254.
[288] Id., Lettera a Madame de
Bondy (7 gennaio 1902): cit. in P. Sourisseau, Charles de Foucauld 1858-1916.
Biografia, trad. a cura delle Discepole del Vangelo e A. Mandonico, Effatà,
Cantalupa (TO), 359. Così lo chiamava anche S. Paolo VI elogiando il suo
impegno: Enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 12: AAS 59 (1967), 263.
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