di Umberto De Giovannangeli
Huffington Post, 18.09.2017
HEBRON - Le parole non hanno odore. Le parole non hanno occhi. Ma è
con gli occhi, attraversando strade dissestate con le fogne a cielo
aperto, respirando un'aria fetida, superando reti di sbarramento,
check-point sorvegliati da giovani soldati, e soldatesse, in assetto di
guerra, incrociando lo sguardo di bambini ai quali è stata rubata anche
l'infanzia, che è possibile cogliere appieno il senso del dramma che si
consuma a Hebron.
Ottocento coloni "assediati" che tengono in ostaggio 200 mila
palestinesi: è il tragico paradosso che si consuma a Hebron, la Città
della Tomba dei Patriarchi (la Moschea di Ibrahim, per i palestinesi)
secondo luogo sacro dell'ebraismo (dopo il Muro del Pianto a
Gerusalemme), quarto, quanto a sacralità, per i musulmani (dopo Mecca,
Medina e la Spianata delle Moschee a Gerusalemme). Hebron, seconda città
più antica della Palestina (3.500 a.c) dopo Gerico. Hebron (Al Khalil,
in arabo) è l'unica città palestinese che, invece di essere circondata
dalle colonie, è essa stessa colonizzata.
Ciò che colpisce a Hebron - seconda tappa della visita in Palestina e
Israele di Roberto Speranza e Arturo Scotto, coordinatori nazionali di
Articolo1-Mdp - è la tensione permanente che si avverte anche in una
giornata di relativa calma. La sensazione è quella di un pericolo
incombente, che potrebbe fare da detonatore a una polveriera pronta ad
esplodere. Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare
perché 800 coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare 200 mila
palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l'essere convinti che quella
presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato
incoronato Davide, perché "questa è Eretz Israel", la Sacra Terra
d'Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah,
il popolo eletto.
Hebron dove la fine ebbe inizio. Quel 25 febbraio 1994, quando un
medico-colono, Baruch Goldstein, si sveglia di primo mattino, indossa la
divisa di militare della riserva, esce dalla sua abitazione
nell'insediamento di Kiryat Arba (l'antico nome di Hebron), entra nella
Tomba dei Patriarchi, luogo di culto sia per ebrei che per i musulmani,
irrompe nella moschea e senza dire una parola comincia a sparare con il
mitra d'ordinanza contro i fedeli in preghiera: ne uccide 29, ne ferisce
altri 300, prima di essere ucciso da una folla inferocita. Quella
strage insanguina l'accidentato percorso della realizzazione degli
Accordi di Washington, siglati neanche un anno prima (settembre 1993) da
Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca (presidente
era Bill Clinton). Oggi, 23 anni e sette mesi dopo, la tomba di
Goldstein, a Kiryat Arba, è meta di pellegrinaggio per l'estrema destra
israeliana, che ha in questo insediamento una delle sue roccaforti:
Yigal Amir, il giovane zelota che assassinò il primo ministro israeliano
Yitzhak Rabin, da studente di giurisprudenza alla facoltà di Legge
dell'Università Bar Ilan di Tel Aviv, organizzava visite guidate alla
tomba di Baruch Goldtesin, "martire d'Israele", c'è scritto sulla
lapide. ""Baruch, re d'Israele", recita un'altra scritta. Quella che
incombe su Hebron.
"Hebron – annota Scotto mentre superiamo l'ennesimo check-point che
separa la parte palestinese dagli insediamenti ebraici nel cuore della
città – è un pugno nello stomaco. La città vecchia e alcune strade ormai
hanno acquisito un aspetto spettrale per la chiusura di botteghe e
negozi. Gli insediamenti illegali ormai crescono senza soluzione di
continuità. La tensione è alta e i nervi possono, nonostante il lavoro
straordinario del contingente Tiph, saltare da un momento all'altro.
Bisogna che si riaccendano i riflettori". Si riaccendono su una
"normalità" che non disegna futuro, che fa crescere i bambini nella
paura e nell'odio; una "normalità" che cancella ogni traccia di dialogo e
di una pace che a Hebron suona come una parola vuota, come una
illusione a cui nessuno più si aggrappa.
Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude
l'altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una "Fede" che
non ammette compromessi. Il 31 agosto l'esercito israeliano ha reso nota
la decisione di conferire l'amministrazione dei servizi municipali di
Hebron anche ai coloni che vivono nella città. Immediata la reazione del
governatore, Kamel Hamid, che ha decritto questa mossa come "la più
pericolosa dal 1967 a oggi". Parlando alla radio ufficiale dell'Autorità
nazionale palestinese (Anp) "La Voce di Palestina", Hamid ha spiegato
che questa decisione servirà a rafforzare ulteriormente il controllo
israeliano su Hebron, minando l'Anp in una città che i palestinesi sono
già costretti a contendersi con la più alta concentrazione di coloni e
di posti di blocco. Per questo, secondo il governatore, il passo
compiuto da Tsahal porterà ad uno "stato di confusione e caos tali da
minacciare l'ordine e la stabilità dell'area". Un ordine fittizio,
imposto con la forza, presidiato da ragazzi in divisa a cui è affidato
il compito di garantire la sicurezza degli 800 coloni. Secondo Peace
Now, storica organizzazione pacifista israeliana, particolarmente
impegnata nel monitoraggio degli insediamenti, "garantendo uno status
ufficiale ai coloni di Hebron, il governo israeliano sta formalizzando
il sistema di apartheid già vigente in città".
Il rispetto non alberga da queste parti. Il nemico non va solo
combattuto, va spregiato. Non basta sbarrare le strade, militarizzare il
territorio. L'odio cala anche dall'alto: dai rifiuti che i coloni
scaricano dalle finestre delle loro abitazioni sulle strade del vecchio
suq percorse dai palestinesi. Nel suq, israeliani e palestinesi vivono
letteralmente gli uni sopra gli altri. Tutto il mercato è una serpentina
di strane piene di mercanzia e ricoperte da una rete fitta e continua.
Oltre la rete, basta alzare poco gli occhi, perché la rete è tanto bassa
che i venditori ci appendono i vestiti in vendita, si intravedono
finestre di palazzi costruiti su quelle stesse fondamenta. Sui balconi,
bandiere israeliane e finestre chiusissime. Per far fronte alla "guerra
dei rifiuti" sulle strade bersagliate sono state realizzate delle reti
di (precaria) protezione. Alzando lo sguardo vedi vestiti vecchi,
bottiglie, avanzi di cibo, scatole e anche di peggio, trattenuti dalla
rete.
Vista dal vecchio suq, Hebron assomiglia ad una prigione a cielo
aperto. A girare l'angolo, poi, ogni tanto, ci si ritrova la strada
sbarrata dal muro e dal filo spinato. Un muro che, a differenza del
resto della Cisgiordania, non circonda la città, ma sorge tra due case, o
tra altri due palazzi, volto a isolare la parte della città dove
abitano le comunità arabofone da quelle dove si sono insediati i coloni
ebrei. E poi servono a chiudere Shuhada Street, la strada una volta
cuore del mercato e del traffico cittadino, oggi completamente preclusa
ai palestinesi. Al check-point, bisogna passare attraverso una porta
girevole di pali di ferro e un metal detector. Subito dopo, un soldato
armato di giubbotto antiproiettile, elmetto e fucile chiede i documenti
da dentro un gabbiotto, mentre un altro decide chi entra e chi no. Qui,
nel cuore di Hebron, anche un singolo edificio è oggetto del contendere:
su uno di questi, da alcune finestre sporgono bandiere palestinesi, da
altre quelle con la stella di Davide: sono quelle issate da un gruppo di
coloni che, poco tempo fa, hanno occupato parte dell'edificio,
proclamando che era parte di "Eretz Israel". All'ingresso dello stabile,
alcuni soldati israeliani si riposano all'ombra, sorseggiando una coca.
Un avamposto di legalità è rappresentato dal TIPH (The Temporary
International Presence in Hebron), la missione di osservatori
internazionali che monitora, senza poter intervenire, sui fatti di
violenza che investono la città. La missione è composta da 63 elementi,
tra i quali 14 carabinieri italiani (forte, e non solo nel numero, è la
presenza femminile). Sono alcuni di loro ad accompagnarci nella visita
del centro di Hebron. I bambini palestinesi li riconoscono, si ricordano
di loro, di ciò che hanno fatto (la costruzione di un centro sportivo,
grazie anche la contributo della cooperazione italiana) e sorridono. Già
questo è una vittoria, un gesto che dà significato ad un generoso
impegno quotidiano.
La strada che da Hebron porta a Gerusalemme è un quasi ininterrotto
susseguirsi di insediamenti e di un muro che li difende. Il Muro. Una
presenza asfissiante che "percorre" per oltre 700 chilometri la
Cisgiordania. Ed una delle città più colpite è quella della Natività.
Betlemme. Trentamila persone "murate". Un senso di soffocamento che ti
attanaglia appena varcato il check-point israeliano che separa Betlemme
dalla vicina Gerusalemme (dieci chilometri di distanza). Il muro è alto 6
metri, neanche quello di Berlino si era elevato così tanto. Su una
parte del muro due enormi murales mostrano il presidente degli Stati
Uniti Donald Trump. In uno dei due, Trump abbraccia e bacia una vera e
propria torre di guardia dell'esercito israeliano incorporata
all'interno del muro. Alcuni piccoli cuori rosa escono dalla bocca del
presidente degli Stati Uniti. Nell'altro invece, "The Donald" è
raffigurato con una kippah ebraica mentre appoggia una mano sul muro. Il
disegno riprende una foto del presidente durante la sua visita del
maggio 2017 al Muro del Pianto di Gerusalemme. Un fumetto recita: "Ti
costruirò un fratello", un chiaro riferimento ai piani ai piani di Trump
di costruire un muro anti-migranti tra gli Stati Uniti e il Messico.
Per la cristianità, Betlemme è il luogo della speranza, incarnatasi
nel Cristo. Per i palestinesi è il simbolo di una sofferenza che prende
corpo negli sguardi tristi dei bambini, che bussa ai vetri dell'auto
consolare con la disperazione di venditori ambulanti che chiedono
qualcosa per sfamare i loro figli (una media di sei a famiglia).
Betlemme è meta dei pellegrini, ma il turismo non basta a ridar vita
alla città, che pure con il Giubileo del Duemila aveva sperato di
diventare una meta stabile, stanziale, pronta ad accogliere migliaia di
pellegrini negli hotel che per quello storico evento erano stati
costruiti. Ma l'"Intifada dei kamikaze" ha spazzato via questa speranza e
Israele ha fatto il resto, estendendo la Barriera di sicurezza (il Muro
dell'apartheid per i palestinesi) ben oltre i confini del '67.
Speranza e Scotto visitano Betlemme in una domenica di festa. La
festa per i 25 anni di sacerdozio di padre Ibrahim Faltas, il frate
coraggioso che qui è diventato una istituzione, un punto di riferimento
non solo per la comunità cristiana ma anche per i musulmani, che sono in
maggioranza a Betlemme. La messa che si celebra nella Basilica della
Natività è un momento d'incontro che unisce laddove il muro divide. "E
il riconoscimento – rimarca Speranza – a una personalità che in questi
anni è riuscita a tenere insieme culture diverse, dialogo tra religioni e
anche una straordinaria vicinanza alla sofferenza dei palestinesi". Ciò
che colpisce di più, a Betlemme come a Hebron, è la sofferenza dei più
deboli e indifesi: i bambini. Privati di tutto. Anche della loro scuola.
E' quello che accade nel deserto d'Israele, nella "Scuola di gomme" –
realizzato con muri rafforzati da 2200 pneumatici – nella quale studiano
e si divertono 174 bambini. Bambini israeliani, beduini. "I nostri
bambini – racconta Abu Kharmis, rappresentante del villaggio beduino di
Khan al Ahmar – vestiti vecchi, bottiglie, avanzi di cibo, scatole...
non andavano a scuola, non potevano farlo, perché la scuola più vicina
era a 3-4 chilometri di distanza. Alcuni sono morti uccisi dalle auto
attraversando la strada. Abbiamo chiesto un bus per i nostri bambini. Ci
è stato negato. Da Israele e dall'Autorità palestinese". Ma gli
abitanti di Khan al Ahmar non si sono dati per vinti."Abbiamo costruito
questa scuola – racconta ancora Abu Kharmis – e l'abbiamo finita anche
dopo che le autorità israeliani ci avevano ingiunto di non procedere.
Sono venuti i soldati, ma noi abbiamo continuato. Per permettere ai
bambini di studiare".
La "Scuola di gomme" è gestita da una Ong italiana, "Vento di Terra",
grazie anche col finanziamento della Cooperazione italiana, della Cei e
dell'Unione Europea. Tra una settimana, la Corte suprema israeliana
emetterà la sentenza definitiva che potrebbe dare il via libera alle
ruspe: quel terreno serve per farci passare una strada che unisce due
insediamenti ebraici realizzati nell'area. "Ci hanno proposto di
abbattere la scuola e rimontarla vicino a una discarica di Gerusalemme –
racconta Abu Kharmis – ma qui è la nostra vita, non facciamo del male a
nessuno, perché devono farlo ai nostri bambini?". Abu Kharmis non si fa
illusione sulla sentenza ma, abbracciando una bambina dai grandi occhi
scuri, dice salutandoci: "Noi resisteremo a questa ingiustizia. E un
nostro diritto". Ma diritto e giustizia sono beni sempre più introvabili
in Terrasanta.
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