di Chiara Cruciati
06.09.2017
Da IL MANIFESTO
Territori Occupati. Fadwa punita per il ruolo nello sciopero della fame dei prigionieri. Il noto
attivista, detenuto per una critica a Ramallah su Facebook, inizia lo sciopero della fame
Non potrà incontrare il marito fino al 2019: è la punizione che le autorità israeliane hanno
comminato lunedì a Fadwa Barghouti, moglie del leader palestinese Marwan, condannato a cinque
ergastoli e detenuto dal 2002. A comunicarglielo è stata lamministrazione del carcere di Hadarim,
vicino Haifa, quando si è presentata per la visita.
La decisione è stata giustificata dal portavoce dell’Israeli Prison Service, Assaf Liberati, con
un’espressione tristemente nota alla popolazione palestinese: «ragioni di sicurezza».
Una formula vaga che nel caso di Fatwa Barghouti, va tradotta nel sostegno dato allo sciopero della
fame dei prigionieri politici palestinesi dello scorso aprile. Una protesta durata 41 giorni e che ha
coinvolto quasi 2mila detenuti politici. E guidata da Marwan Barghouti.
Ora, per il ruolo giocato in una forma di protesta nonviolenta, per le lettere a papa Francesco e
l’attenzione mediatica (poca, a dire il vero, da parte della stampa occidentale) generata intorno allo
sciopero, non le saranno dati i permessi per spostarsi dalla Cisgiordania nello Stato di Israele e
raggiungere la Galilea, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta di detenere i
residenti di un territorio occupato al di fuori di questo.
Nelle stesse ore, a sud della Cisgiordania, un altro simbolo del movimento di liberazione veniva
incarcerato. Stavolta non da Israele – sebbene nelle prigioni di Tel Aviv ci sia passato molte volte –
ma dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Issa Amro, storico attivista, fondatore dell’associazione di Hebron Youth against Settlements,
nominato dall’Onu nel 2010 «difensore dei diritti umani dell’anno», lo conoscono tutti: chi visita i
Territori Occupati ha modo di incontrarlo per le strade di Hebron, alle manifestazioni popolari, come
guida tra le vie strette della città vecchia occupata.
Su di lui pesano oggi 18 capi di accusa spiccati da una corte militare israeliana, spada di Damocle
per cui protestarono a maggio Bennie Sanders e 32 parlamentari Usa. Questa volta, però, il carcere
in cui è stato condotto è palestinese, per le organizzazioni di base l’ennesima prova delle
conseguenze della cooperazione alla sicurezza tra Israele e forze di polizia palestinesi.
La ragione è un post su Facebook in cui Amro criticava l’Anp per l’arresto, avvenuto domenica, di
Ayman Qawasmeh, direttore della radio Manbar al Hurriya chiusa tre giorni prima dall’esercito di
Tel Aviv. Qawasmeh è stato poi detenuto dall’Anp per aver pubblicamente attaccato la leadership
palestinese e chiesto al presidente Abbas e al primo ministro Hamdallah di dimettersi.
L’ultimo di una serie di giornalisti imprigionati, collaboratori di 29 siti di informazione chiusi
dall’Anp perché accusati di vicinanza a Hamas o al rivale di Abbas, l’ex leader di Fatah Mohammed
Dahlan.
A garantire spazio di manovra è la Cyber Crimes Law, decreto firmato dal presidente palestinese a
fine giugno: all’articolo 51 prevede i lavori forzati per i responsabili di crimini online che mettono in
pericolo l’unità nazionale e all’articolo 20 punisce con almeno un anno di carcere o una multa tra
mille e 6mila euro chi «crea o gestisce un sito che danneggia l’integrità dello Stato e l’ordine
pubblico».
Una dicitura vaga che ha permesso di zittire reporter e semplici cittadini, utenti della rete. «Ci sono
giornalisti minacciati dalle forze di sicurezza per aver pubblicato la notizia dell’arresto di Qawasmeh
– aveva scritto Amro – Nessuno può creare una legge e uno Stato per sé. La legge è chiara. Le forze
di sicurezza dovrebbero proteggere la legge, non violarla». Parole dure.
Ramallah ha reagito, arrestando anche Issa Amro. E lui, dalla cella, annuncia: sciopero della fame
fino al rilascio.
© 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE
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