Pubblicato il 22 gennaio 2019
da CULTURAÈLIBERTÀ
E’ ora di rompere il silenzio sulla Palestina
di Michelle Alexander **,
editorialista del New York Times
Il 4 aprile 1967, esattamente un anno prima di essere assassinato, il Rev. Dr. Martin Luther King, prese la parola nella Riverside Church di Manhattan. Gli Stati Uniti erano da due anni in guerra in Vietnam, migliaia di persone erano state uccise, compresi circa 10.000 militari Americani. L’establishment politico – da destra a sinistra – sosteneva la guerra, e in Vietnam c’erano più di 400.000 americani, le loro vite sulla linea del fronte.
Molti dei più accesi sostenitori di King lo sollecitavano a restare in silenzio sulla guerra o almeno a esprimere critiche caute. Sapevano che se lui avesse detto tutta la verità sulla guerra ingiusta e disastrosa sarebbe stato falsamente etichettato come Familiari dell’infermiera Razan Al Najjar uccisa a Gaza nel giugno 2018comunista, avrebbe subito rappresaglie e rifiuti, allontanato sostenitori e costituito una minaccia per il fragile avanzamento del movimento per i diritti civili.
King rifiutò tutti i consigli benevoli e disse: “Vengo in questa meravigliosa casa di preghiera perché la mia coscienza non mi lascia altra scelta”. Citando una dichiarazione del clero e di laici preoccupati per il Vietnam disse: “Arriva un tempo in cui il silenzio è tradimento” aggiungendo:” Per noi quel tempo è arrivato riguardo al Vietnam”.
Era una posizione morale, solitaria. E gli è costata. Ma dette un esempio di che cosa ci è richiesto se vogliamo onorare i nostri più profondi valori in tempi di crisi, anche quando il silenzio servirebbe meglio i nostri interessi personali o le comunità e le cause a cui teniamo maggiormente. Penso a questo quando guardo alle scuse e alle giustificazioni “razionali” che mi hanno tenuto troppo silenziosa su una delle più grandi sfide morali del nostro tempo: la crisi in Israele-Palestina. Non sono stata sola. Fino a poco tempo fa l’intero Congresso è rimasto per lo più silenzioso su quell’incubo dei diritti umani che abita i territori occupati. I nostri rappresentanti, da noi eletti, che agiscono in un ambiente politico dove la lobby politica di Israele ha un potere ben documentato, hanno minimizzato e sviato le critiche allo Stato di Israele, anche quando è stato incoraggiato nella sua occupazione del territorio Palestinese ed ha adottato pratiche che ricordano l’apartheid in Sud Africa e la segregazione delle leggi Jim Crow* negli Stati Uniti.
Anche molti attivisti e organizzazioni per i diritti civili sono rimasti in silenzio, non per mancanza di interesse o simpatia per il popolo Palestinese, ma per timore di perdere finanziamenti dalle fondazioni e di false accuse di antisemitismo. Sono preoccupati, come lo sono stata io un tempo, che il loro importante lavoro per la giustizia sociale venga compromesso o discreditato da campagne diffamatorie.
Analogamente, molti studenti temono di esprimere sostegno ai diritti palestinesi a causa delle tecniche maccartiste di organizzazioni segrete come Canary Mission, che iscrive in una lista nera coloro che osano sostenere pubblicamente il boicottaggio verso Israele, mettendo così a repentaglio prospettive di lavoro e future carriere.
Leggendo il discorso di King a Riverside più di 50 anni dopo, mi sono rimasti ben pochi dubbi che il suo insegnamento e messaggio ci richieda di parlare apertamente e appassionatamente contro la crisi dei diritti umani in Israele-Palestina, nonostante i rischi e la complessità di questi temi. King sosteneva, parlando del Vietnam, che perfino “quando le questioni a portata di mano sembrano provocare perplessità come spesso accade, nel caso di conflitti terribili, non dobbiamo farci paralizzare dall’incertezza. “Dobbiamo parlare con tutta l’umiltà adeguata alla nostra limitata visione, ma dobbiamo parlare”.
Così, se vogliamo onorare il messaggio di King, e non semplicemente l’uomo, dobbiamo condannare le azioni israeliane: incessanti violazioni del diritto internazionale, continua occupazione della Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, demolizioni di case, confische di terra. Dobbiamo gridare contro il trattamento dei palestinesi ai check points, le usuali perquisizioni delle loro case e restrizione della loro possibilità di movimento, e il pesante limite all’accesso ad abitazioni dignitose, scuole, alimentazione, ospedali e acqua, a cui molti di loro devono far fronte.
Non dobbiamo tollerare il rifiuto di Israele persino di discutere il diritto dei profughi al ritorno nelle loro case, come prescritto dalle Risoluzioni ONU, e dovremmo mettere in discussione i fondi del Governo USA a sostegno di molte iniziative ostili e migliaia di vittime civili a Gaza come anche i 38 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno impegnato nell’ aiuto militare ad Israele.
E infine, con tutto il coraggio e la determinazione che riusciamo a raccogliere, dobbiamo parlare apertamente contro il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un intero sistema di più di 50 leggi, secondo Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba, – leggi come la recente Legge dello Stato - Nazione, che dichiara esplicitamente che solo gli Ebrei Israeliani hanno il diritto all’autodeterminazione in Israele, ignorando i diritti della minoranza araba che costituisce il 21% della popolazione.
Naturalmente ci saranno quelli che dicono che non possiamo sapere con sicurezza che cosa King avrebbe fatto o pensato riguardo a Israele-Palestina oggi. E’ giusto. Le prove riguardo al punto di vista di King su Israele sono complicate e contraddittorie.
Sebbene allora il Comitato di Coordinamento nonviolento degli Studenti denunciasse le azioni di Israele contro i palestinesi, King si trovò in conflitto. Come molti dirigenti neri di quel tempo riconobbe che gli Ebrei Europei come popolo perseguitato oppresso e senza patria, lottavano per costruire una loro propria nazione. E volle mostrare solidarietà alla Comunità Ebraica che era stata alleata di grande importanza nel movimento per i diritti civili.
Negli ultimi anni, nel 1967, King cancellò una missione in Israele dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania. Nel corso di un colloquio con i suoi consiglieri sulla visita, disse:” Penso solo che, se andassi, il mondo Arabo e ovviamente Asia e Africa in questo caso, lo interpreterebbero come approvazione a tutto quello che Israele ha fatto, e io ho interrogativi e dubbi in proposito”.
Continuò a sostenere il diritto di Israele ad esistere ma disse anche alla televisione nazionale che sarebbe stato necessario che Israele restituisse parte dei territori conquistati per ottenere pace e sicurezza vere ed evitare di esacerbare il conflitto. Non ci fu modo in cui King potesse pubblicamente conciliare il suo impegno per la non violenza e la giustizia per tutti i popoli, ovunque, con quanto era successo dopo la guerra del 1967.
Oggi possiamo solo ipotizzare come King si sarebbe schierato. Tuttavia mi trovo d’accordo con lo storico Robin D.G. Kelley che è arrivato alla conclusione che se King avesse avuto la possibilità di analizzare l’attuale situazione nello stesso modo in cui studiò quella del Vietnam “la sua inequivocabile opposizione alla violenza, al colonialismo, al razzismo, e al militarismo avrebbe fatto di lui un efficace critico delle attuali politiche di Israele.
In effetti, il punto di vista di King può essersi evoluto insieme a molti altri pensatori di forte spiritualità, come il Rabbino Brian Walt, che ha pubblicamente parlato delle ragioni per l’ abbandono della sua fede in ciò che vedeva come Sionismo politico. Recentemente mi ha spiegato che per lui il Sionismo liberale voleva dire credere nella creazione di uno Stato ebraico che sarebbe stato un porto sicuro e un centro culturale per il popolo ebraico nel mondo, che ne aveva disperatamente bisogno, “uno stato che avrebbe espresso e onorato gli ideali più alti della tradizione ebraica”. Disse che era cresciuto in Sud Africa in una famiglia che condivideva quelle opinioni e si identificava come Sionista liberale, fino al momento in cui la sua esperienza nei territori occupati l’ha cambiato per sempre.
Nel corso di oltre 20 visite in Cisgiordania e Gaza, ha potuto vedere orribili abusi dei diritti umani, come la distruzione con i bulldozers di case palestinesi mentre la gente piangeva – i giocattoli dei bambini sparsi su un sito demolito – e confisca di terra palestinese per fare spazio a nuovi illegali insediamenti finanziati dal Governo israeliano. Fu obbligato a fare i conti con la realtà: queste demolizioni, insediamenti e atti violenti di dispossessione non erano opera di furfanti, ma atti pienamente sostenuti e consentiti dall’esercito israeliano. Il punto di svolta per lui fu assistere al la discriminazione legalizzata nei confronti dei palestinesi – comprese le strade solo per ebrei – che, disse, in certo senso era peggiore di quello a cui aveva assistito da ragazzino in Sud Africa.
Non molto tempo fa era piuttosto raro sentire questi punti di vista. Adesso non è più così.
Jewish Voice for Peace, ad esempio, ha l’obiettivo di educare il pubblico americano su “l’espulsione forzata di circa 700.000 palestinesi che cominciò con l’istaurazione di Israele e continua fino ad oggi. “Sempre più persone di tutte le fedi e retroterra culturali hanno parlato apertamente con maggior impegno e coraggio. Organizzazioni americane come ad esempio If Not Now sostengono i giovani ebrei americani nella loro lotta per rompere il silenzio mortale che ancora regna tra troppa gente sull’occupazione, e centinaia di gruppi laici e religiosi si sono uniti alla U.S. Campaign for Palestinian Rights.
Considerando questi sviluppi, sembra che stia arrivando alla fine il tempo in cui critiche del Sionismo e delle azioni dello Stato di Israele possano essere tacciate di antisemitismo. Sembra che venga sempre più compreso che la critica alle pratiche e politiche del Governo israeliano non è, in sé, antisemita.
Certo questo non vuol dire che l’antisemitismo non sia reale. Il Neo Nazismo sta riemergendo in Germania all’interno di un crescente movimento antiimmigrazione. Episodi di antisemitismo negli Stati Uniti nel 2017 sono cresciuti del 57%, e molti di noi ancora piangono quello che è considerato come l’attacco più mortale agli ebrei nella storia americana. In questo clima dobbiamo ricordare che mentre la critica ad Israele non è in sé antisemita, può finire per arrivarci.
Fortunatamente, persone come il Rev. Dr. William J. Barber II sono un esempio, quando dichiarano fedeltà alla lotta contro l’antisemitismo,e nello stesso tempo mostrano incrollabile solidarietà con il popolo Palestinese che lotta per sopravvivere sotto l’occupazione israeliana.
In un discorso avvincente lo scorso anno ha dichiarato che non possiamo parlare di giustizia senza considerare l’espulsione dei popoli nativi, il razzismo sistematico del colonialismo e l’ingiustizia della repressione governativa. Nella stessa occasione ha detto:”Voglio dire nel modo più chiaro possibile che l’umanità e la dignità di ogni essere umano o popolo non può in alcun modo sminuire l’umanità e dignità di un’altra persona o popolo. Essere convinti che l’immagine di Dio è in ogni persona vuol dire asserire che il bambino palestinese è prezioso come il bambino ebreo”.
Guidati da questo tipo di chiarezza morale, gruppi religiosi stanno agendo. Nel 2016 il consiglio della Chiesa Metodista Unita ha escluso dal suo multimiliardario fondo pensioni le banche israeliane i cui crediti per la costruzione di insediamenti violano il diritto internazionale. Analogamente, l’anno precedente la Chiesa Unita di Cristo ha votato una risoluzione per il boicottaggio e il disinvestimento dalle aziende che traggono profitto dall’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi.
Familiari dell’infermiera Razan Al Najjar uccisa a Gaza nel giugno 2018. Hosam Salem for The New York Times
Familiari dell’infermiera Razan Al Najjar uccisa a Gaza nel giugno 2018. Hosam Salem for The New York Times
Anche nel Congresso, un cambiamento è all’orizzonte. Per la prima volta due suoi componenti, i rappresentanti Ilhan Omar, Democratica del Minnesota, e Rashida Tlaib, Democratica del Michigan, hanno espresso sostegno pubblico al Movimento BDS. Nel 2017, la Rappresentante Betty McCollum, Democratica del Minnesota, ha presentato una risoluzione per garantire che nessun aiuto militare degli Stati Uniti vada al sistema militare carcerario israeliano dei giovani. Israele persegue regolarmente nel Tribunale Militare giovani detenuti nei territori occupati.
Con tutto ciò non voglio dire che il vento sia completamente cambiato o che siano cessate le rappresaglie contro chi esprime forte sostegno ai diritti Palestinesi. Al contrario, proprio come King fu pesantemente e largamente criticato per il suo discorso di condanna della guerra in Vietnam – 168 grandi quotidiani incluso The Times lo denunciarono il giorno seguente – chi parla pubblicamente a sostegno della liberazione del popolo palestinese ancora rischia condanna e contraccolpi.
Bahia Amawi, logopedista americana di origini palestinesi, è stata recentemente licenziata per aver rifiutato di firmare un contratto contenente un impegno anti-boicottaggio, dichiarando di non farlo, e che non parteciperà a boicottare lo Stato di Israele. A novembre, Marc Lamont Hill è stato licenziato dalla CNN per un discorso a sostegno dei diritti palestinesi, grossolanamente mal interpretato come se esprimesse sostegno alla violenza. Canary Mission continua a porre serie minacce agli studenti attivisti.
E proprio circa una settimana fa, il Birmingham Civil Rights Institute in Alabama, pare sotto pressione per lo più di parti della Comunità essereEbraica e altri, ha revocato un riconoscimento conferito ad Angela Davis, icona dei diritti civili, che aveva espresso critiche al trattamento di Israele nei confronti dei palestinesi e sostegno al BDS.
Ma l’attacco è fallito. In 48 ore accademici e attivisti si sono mobilitati in risposta. Il sindaco di Birmingham, Randall Woodfin, e il Birmingham School Board con il City Council, hanno espresso indignazione per questa decisione dell’Istituto. Il Consiglio ha passato all’unanimità una risoluzione per Angela Davis e si sta organizzando un evento alternativo per celebrare il suo impegno di decenni per la liberazione di tutti.
Non posso affermare con certezza che King applaudirebbe Birmingham per la sua solerte difesa della solidarietà di Angela Davis per i Palestinesi. Ma lo faccio. In questo anno nuovo voglio parlare con maggior coraggio e determinazione sulle ingiustizie al di là dei nostri confini, e quelle che sono finanziate dal nostro Governo e voglio schierarmi in solidarietà con le lotte per la democrazia e la libertà. La mia coscienza non mi lascia altra scelta.
https://www.nytimes.com/2019/01/19/opinion/sunday/martin-luther-king-palestine-israel.html
*
Michelle Alexander è diventata editorialista del New York Times nel 2018. E’ avvocata per i diritti civili, esperta giurista e autore del libro: “The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness.”
**Le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1876 e il 1965. Servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi.
traduzione dall’inglese a cura della redazione
ENGLISH VERSION
https://www.nytimes.com/2019/01/19/opinion/sunday/martin-luther-king-palestine-israel.html
Source: THE NEW YORK TIMES
Time to Break the Silence on Palestine
Martin Luther King Jr. courageously spoke out about the Vietnam War. We must do the same when it comes to this grave injustice of our time.
By Michelle Alexander
Opinion Columnist
Jan. 19, 2019
On April 4, 1967, exactly one year before his assassination, the Rev. Dr. Martin Luther King Jr. stepped up to the lectern at the Riverside Church in Manhattan. The United States had been in active combat in Vietnam for two years and tens of thousands of people had been killed, including some 10,000 American troops. The political establishment — from left to right — backed the war, and more than 400,000 American service members were in Vietnam, their lives on the line.
Many of King’s strongest allies urged him to remain silent about the war or at least to soft-pedal any criticism. They knew that if he told the whole truth about the unjust and disastrous war he would be falsely labeled a Communist, suffer retaliation and severe backlash, alienate supporters and threaten the fragile progress of the civil rights movement.
King rejected all the well-meaning advice and said, “I come to this magnificent house of worship tonight because my conscience leaves me no other choice.” Quoting a statement by the Clergy and Laymen Concerned About Vietnam, he said, “A time comes when silence is betrayal” and added, “that time has come for us in relation to Vietnam.”
It was a lonely, moral stance. And it cost him. But it set an example of what is required of us if we are to honor our deepest values in times of crisis, even when silence would better serve our personal interests or the communities and causes we hold most dear. It’s what I think about when I go over the excuses and rationalizations that have kept me largely silent on one of the great moral challenges of our time: the crisis in Israel-Palestine.
I have not been alone. Until very recently, the entire Congress has remained mostly silent on the human rights nightmare that has unfolded in the occupied territories. Our elected representatives, who operate in a political environment where Israel's political lobby holds well-documented power, have consistently minimized and deflected criticism of the State of Israel, even as it has grown more emboldened in its occupation of Palestinian territory and adopted some practices reminiscent of apartheid in South Africa and Jim Crow segregation in the United States.
Many civil rights activists and organizations have remained silent as well, not because they lack concern or sympathy for the Palestinian people, but because they fear loss of funding from foundations, and false charges of anti-Semitism. They worry, as I once did, that their important social justice work will be compromised or discredited by smear campaigns.
Similarly, many students are fearful of expressing support for Palestinian rights because of the McCarthyite tactics of secret organizations like Canary Mission, which blacklists those who publicly dare to support boycotts against Israel, jeopardizing their employment prospects and future careers.
Reading King’s speech at Riverside more than 50 years later, I am left with little doubt that his teachings and message require us to speak out passionately against the human rights crisis in Israel-Palestine, despite the risks and despite the complexity of the issues. King argued, when speaking of Vietnam, that even “when the issues at hand seem as perplexing as they often do in the case of this dreadful conflict,” we must not be mesmerized by uncertainty. “We must speak with all the humility that is appropriate to our limited vision, but we must speak.”
And so, if we are to honor King’s message and not merely the man, we must condemn Israel’s actions: unrelenting violations of international law, continued occupation of the West Bank, East Jerusalem, and Gaza, home demolitions and land confiscations. We must cry out at the treatment of Palestinians at checkpoints, the routine searches of their homes and restrictions on their movements, and the severely limited access to decent housing, schools, food, hospitals and water that many of them face.
We must not tolerate Israel’s refusal even to discuss the right of Palestinian refugees to return to their homes, as prescribed by United Nations resolutions, and we ought to question the U.S. government funds that have supported multiple hostilities and thousands of civilian casualties in Gaza, as well as the $38 billion the U.S. government has pledged in military support to Israel.
And finally, we must, with as much courage and conviction as we can muster, speak out against the system of legal discrimination that exists inside Israel, a system complete with, according to Adalah, the Legal Center for Arab Minority Rights in Israel, more than 50 laws that discriminate against Palestinians — such as the new nation-state law that says explicitly that only Jewish Israelis have the right of self-determination in Israel, ignoring the rights of the Arab minority that makes up 21 percent of the population.
Of course, there will be those who say that we can’t know for sure what King would do or think regarding Israel-Palestine today. That is true. The evidence regarding King’s views on Israel is complicated and contradictory.
Although the Student Nonviolent Coordinating Committee denounced Israel’s actions against Palestinians, King found himself conflicted. Like many black leaders of the time, he recognized European Jewry as a persecuted, oppressed and homeless people striving to build a nation of their own, and he wanted to show solidarity with the Jewish community, which had been a critically important ally in the civil rights movement.
Ultimately, King canceled a pilgrimage to Israel in 1967 after Israel captured the West Bank. During a phone call about the visit with his advisers, he said, “I just think that if I go, the Arab world, and of course Africa and Asia for that matter, would interpret this as endorsing everything that Israel has done, and I do have questions of doubt.”
He continued to support Israel’s right to exist but also said on national television that it would be necessary for Israel to return parts of its conquered territory to achieve true peace and security and to avoid exacerbating the conflict. There was no way King could publicly reconcile his commitment to nonviolence and justice for all people, everywhere, with what had transpired after the 1967 war.
Today, we can only speculate about where King would stand. Yet I find myself in agreement with the historian Robin D.G. Kelley, who concluded that, if King had the opportunity to study the current situation in the same way he had studied Vietnam, “his unequivocal opposition to violence, colonialism, racism and militarism would have made him an incisive critic of Israel’s current policies.”
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Indeed, King’s views may have evolved alongside many other spiritually grounded thinkers, like Rabbi Brian Walt, who has spoken publicly about the reasons that he abandoned his faith in what he viewed as political Zionism. To him, he recently explained to me, liberal Zionism meant that he believed in the creation of a Jewish state that would be a desperately needed safe haven and cultural center for Jewish people around the world, "a state that would reflect as well as honor the highest ideals of the Jewish tradition.” He said he grew up in South Africa in a family that shared those views and identified as a liberal Zionist, until his experiences in the occupied territories forever changed him.
During more than 20 visits to the West Bank and Gaza, he saw horrific human rights abuses, including Palestinian homes being bulldozed while people cried — children's toys strewn over one demolished site — and saw Palestinian lands being confiscated to make way for new illegal settlements subsidized by the Israeli government. He was forced to reckon with the reality that these demolitions, settlements and acts of violent dispossession were not rogue moves, but fully supported and enabled by the Israeli military. For him, the turning point was witnessing legalized discrimination against Palestinians — including streets for Jews only — which, he said, was worse in some ways than what he had witnessed as a boy in South Africa.
Not so long ago, it was fairly rare to hear this perspective. That is no longer the case.
Jewish Voice for Peace, for example, aims to educate the American public about “the forced displacement of approximately 750,000 Palestinians that began with Israel’s establishment and that continues to this day.” Growing numbers of people of all faiths and backgrounds have spoken out with more boldness and courage. American organizations such as If Not Now support young American Jews as they struggle to break the deadly silence that still exists among too many people regarding the occupation, and hundreds of secular and faith-based groups have joined the U.S. Campaign for Palestinian Rights.
In view of these developments, it seems the days when critiques of Zionism and the actions of the State of Israel can be written off as anti-Semitism are coming to an end. There seems to be increased understanding that criticism of the policies and practices of the Israeli government is not, in itself, anti-Semitic.
This is not to say that anti-Semitism is not real. Neo-Nazism is resurging in Germany within a growing anti-immigrant movement. Anti-Semitic incidents in the United States rose 57 percent in 2017, and many of us are still mourning what is believed to be the deadliest attack on Jewish people in American history. We must be mindful in this climate that, while criticism of Israel is not inherently anti-Semitic, it can slide there.
Fortunately, people like the Rev. Dr. William J. Barber II are leading by example, pledging allegiance to the fight against anti-Semitism while also demonstrating unwavering solidarity with the Palestinian people struggling to survive under Israeli occupation.
He declared in a riveting speech last year that we cannot talk about justice without addressing the displacement of native peoples, the systemic racism of colonialism and the injustice of government repression. In the same breath he said: “I want to say, as clearly as I know how, that the humanity and the dignity of any person or people cannot in any way diminish the humanity and dignity of another person or another people. To hold fast to the image of God in every person is to insist that the Palestinian child is as precious as the Jewish child.”
Guided by this kind of moral clarity, faith groups are taking action. In 2016, the pension board of the United Methodist Church excluded from its multibillion-dollar pension fund Israeli banks whose loans for settlement construction violate international law. Similarly, the United Church of Christ the year before passed a resolution calling for divestments and boycotts of companies that profit from Israel’s occupation of Palestinian territories.
Even in Congress, change is on the horizon. For the first time, two sitting members, Representatives Ilhan Omar, Democrat of Minnesota, and Rashida Tlaib, Democrat of Michigan, publicly support the Boycott, Divestment and Sanctions movement. In 2017, Representative Betty McCollum, Democrat of Minnesota, introduced a resolution to ensure that no U.S. military aid went to support Israel’s juvenile military detention system. Israel regularly prosecutes Palestinian children detainees in the occupied territories in military court.
None of this is to say that the tide has turned entirely or that retaliation has ceased against those who express strong support for Palestinian rights. To the contrary, just as King received fierce, overwhelming criticism for his speech condemning the Vietnam War — 168 major newspapers, including The Times, denounced the address the following day — those who speak publicly in support of the liberation of the Palestinian people still risk condemnation and backlash.
Bahia Amawi, an American speech pathologist of Palestinian descent, was recently terminated for refusing to sign a contract that contains an anti-boycott pledge stating that she does not, and will not, participate in boycotting the State of Israel. In November, Marc Lamont Hill was fired from CNN for giving a speech in support of Palestinian rights that was grossly misinterpreted as expressing support for violence. Canary Mission continues to pose a serious threat to student activists.
And just over a week ago, the Birmingham Civil Rights Institute in Alabama, apparently under pressure mainly from segments of the Jewish community and others, rescinded an honor it bestowed upon the civil rights icon Angela Davis, who has been a vocal critic of Israel’s treatment of Palestinians and supports B.D.S.
But that attack backfired. Within 48 hours, academics and activists had mobilized in response. The mayor of Birmingham, Randall Woodfin, as well as the Birmingham School Board and the City Council, expressed outrage at the institute’s decision. The council unanimously passed a resolution in Davis’ honor, and an alternative event is being organized to celebrate her decades-long commitment to liberation for all.
I cannot say for certain that King would applaud Birmingham for its zealous defense of Angela Davis’s solidarity with Palestinian people. But I do. In this new year, I aim to speak with greater courage and conviction about injustices beyond our borders, particularly those that are funded by our government, and stand in solidarity with struggles for democracy and freedom. My conscience leaves me no other choice.
Michelle Alexander became a New York Times columnist in 2018. She is a civil rights lawyer and advocate, legal scholar and author of “The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness.”
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