venerdì 22 agosto 2025

BUONE NOTIZIE DAL VERTICE PUTIN-TRUMP. I “VOLENTEROSI” EUROPEI AFFRANTI. ZELENZKY ALL’ATTO FINALE?

 

di Vincenzo Brandi

(epistemologo)


I commenti provenienti da ambienti europei che fanno capo alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – quelli che vogliono continuare la guerra alla Russia ad ogni costo – e dal codazzo di giornalisti e commentatori che sono da loro stipendiati, per farsi coraggio parlano di “fallimento” del vertice tenuto in Alaska perché non sarebbe stato raggiunto il presunto obiettivo del vertice, quello di imporre alla Russia una tregua senza condizioni.

In realtà il vertice Putin-Trump ha riguardato obiettivi ben più importanti e globali di quelli auspicati dai “volenterosi” e dal loro pupillo Zelensky.

Il vertice si è interessato delle condizioni fondamentali per una pace duratura in Ucraina, e non di una semplice tregua che sarebbe solo servita a cercare di riarmare e rilanciare le azioni dell’esercito ucraino, in chiara difficoltà e a corto di uomini per l’esplodere della renitenza alla leva e le fughe continue all’estero di giovani, e meno giovani, per non essere arruolati.


Il vertice, più in generale, ha riguardato le condizioni necessarie per ottenere una situazione di reciproca sicurezza a livello mondiale. Il presidente Trump, rinunciando agli atteggiamenti da bullo che lo avevano portato a minacciare gravissime sanzioni contro la Russia se non avesse accettato una tregua immediata e incondizionata (un “bluff” in cui gli esperti dirigenti russi non sono minimamente caduti), ha alla fine saggiamente accettato l’agenda proposta dai Russi che consisteva nell’affrontare problemi ben più vasti e significativi di una semplice tregua, che riguardano l’avvenire del dialogo tra USA e Federazione russa.

Il vertice è durato poco più di due ore, segno che la precedente diplomazia sotterranea (alimentata ad esempio dalle visite dell’inviato statunitense Witkoff a Mosca) aveva già fissato una serie di paletti reciprocamente accettati. Altro indizio importante è l’esplicita rinuncia di Trump ad imporre sanzioni alla Cina per l’acquisto di petrolio russo. Probabilmente nei prossimi giorni saranno ritirate anche le analoghe minacce nei confronti dell’India ed altri paesi neutrali.

Di fronte a queste prospettive la preoccupazione dei dirigenti europei della coalizione dei “volenterosi” è evidente. Si consolano parlando di presunto “fallimento” del vertice e di volontà di continuare a sostenere lo sforzo bellico di Kyev. Più chiaro il commento del solito Calenda che parla di “catastrofe” e di resa a Putin, che “ha ottenuto tutto senza dare niente”.


In Italia, a “sinistra”, anche la Schlein si piange addosso, mentre risulta accettabile il commento dei 5 Stelle che accusano gli Europei ed il governo Meloni di essersi autoemarginati in una politica bellicista priva di prospettive.

Il più preoccupato di tutti è il povero Zelensky atteso lunedì a Washington da Trump, che (a meno di improvvisi sempre possibili voltafaccia del “Tycoon”) gli darà una lezioncina su quello che deve fare per porre fine alla guerra. L’ex eroe dell’Ucraina, con la sua ridicola eterna maglietta militare, è in disgrazia nel proprio paese dove il consenso nei suoi confronti si restringe rapidamente. Zelensky rischia anche la vita se dovesse aderire alle richieste di Trump di accettare pesanti compromessi e cessione di territori per giungere alla pace: I Nazi-fascisti ed ultra-nazionalisti ucraini, eredi delle bande che combatterono a fianco dei Nazisti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, e che tengono Zelensky in ostaggio, continuano a portare avanti l’insostenibile propaganda della “Vittoria” finale. Potrebbero non gradire soluzioni di compromesso, spinti anche dai servizi segreti e dal sostegno del Regno Unito ed altri estremisti russofobi europei, pronti anche a creare “l’incidente” per fermare la pace.

Roma, 17 agosto 2025, Vincenzo Brandi

UE E KIEV CORRONO VERSO LA DISFATTA

 


di FABIO MINI (generale)

22 ago 2025


Ricapitolando, non i fatti di questi tre anni e mezzo di guerra, poiché i lettori di questo giornale hanno avuto il privilegio di avere informazioni corrette giorno per giorno.

Per quanto la censura europea consentisse. Non le analisi che questo giornale ha pubblicato ribaltando le narrazioni prevalenti e smontando le menzogne che pseudo-analisti “d’alto ingegno perché d’alto lignaggio” avallavano seguendo le direttive euroatlantiche che poi erano quelle ucraine.

 Ricapitolando, quindi, i risultati degli ultimi 15 giorni di guerra e di attività politico-diplomatiche, si nota sul fronte ucraino la costante pressione militare russa contro le organizzazioni difensive ucraine ormai ridotte a un colabrodo grazie alla tattica dei mille tagli adottata dai russi. Il termine evoca la famosa tortura cinese di tagliare brandelli di carne senza far morire il condannato, ma come tattica militare è la riesumazione del vecchio progetto occidentale del Supc (Small Unit Precision Combat) ideato per colpire a grande distanza obiettivi limitati previa acquisizione del dominio dell’aria e perfetta organizzazione operativa e logistica. Tattica che non è mai stata applicata dalle forze tradizionali in nessun teatro di guerra perché troppo intelligente e dispendiosa e perché non assicurava il mantenimento delle posizioni acquisite. E tuttavia è stata la tecnica usata dai raid di forze speciali o degli stessi terroristi a Mumbai e alle Torri gemelle. 

I russi hanno potuto riprenderla acquisendo il dominio dell’aria, individuando obiettivi a corto raggio e schierando un apparato operativo e logistico di supporto in grado di mantenere il controllo di ogni metro acquisito. I russi hanno anche segnalato con determinazione che non intendono prendersi tutta l’Ucraina manu militari e neppure invadere l’Europa o attaccare un paese della Nato a meno che non siano europei e Nato ad attaccarli.

 La Russia vuole riprendersi quei territori che sono russi, che la popolazione vuole siano russi per aver troppo sofferto a causa della foga nazifascista della dirigenza ucraina. La Russia si rende conto che l’Ucraina puntando tutto sul Donbas e non avendo forze sufficienti per riprenderselo è destinata alla capitolazione militare completa. O meglio alla ricapitolazione militare dopo quella sofferta nel 2015 e rimediata solo grazie all’intervento occidentale e alla ricostituzione delle forze armate da parte della Nato consentita dagli accordi truffaldini di Minsk. 



La Russia sul campo ha già chiarito che ciò che riprende verrà mantenuto per garantire la propria sicurezza. La questione sul campo e in termini prettamente militari è quindi seria e seriamente affrontata dai russi; molto meno dagli ucraini e dai sostenitori europei che ignorando o mistificando la situazione sul terreno giocano a un tavolo politico-diplomatico con carte che non hanno, con idee che non hanno e con l’ostinata risolutezza a volere la propria disfatta: ossia ri-capitolando sul piano economico, politico e diplomatico come avvenuto in due guerre mondiali.

Da quando il presidente Trump ha sostituito il principale giocatore della partita e, come aveva preannunciato, ha impostato il gioco secondo le proprie regole, ucraini, europei e mezza America lo hanno preso di mira con una campagna di denigrazione. Non si vuole risolvere il conflitto, ma continuarlo “costi quel che costi” con una miopia straordinaria non solo sulla natura e l’ammontare dei costi, ma sulle stesse potenzialità di Europa e Usa. L’intenzione non è solo quella di convincere Trump a proseguire le politiche dell’assonnato predecessore versando miliardi inesistenti nel buco nero delle tasche dei dirigenti e oligarchi ucraini e quantità enormi di armamenti attingendo alle precarie scorte degli eserciti Nato; l’intenzione è quella di favorire il regime change non in Ucraina, come sarebbe logico, ma a Washington.

 Il metodo è tragicomico: untuosità, acquiescenza, servilismo da un lato e ostinazione dall’altro mandando avanti il traballante Zelensky e sostenendo le sue richieste tanto oniriche quanto rivolte a far fallire qualsiasi tentativo di negoziato. Gli anatemi europei contro Trump e sulla sua idea di arrivare a un accordo con Putin si sono trasformati via via in subdole iniziative perché l’accordo non venga mai raggiunto. Ancora una volta con molta miopia perché senza l’accordo di Trump, l’Europa dovrà affrontare la Russia da sola. Trump gioca anche su questo minacciando di ritirarsi dalla questione nel caso di fallimento dei colloqui, ben sapendo che l’Europa non ha i mezzi per affrontare un conflitto diretto e perciò riservandosi di “aiutare” la guerra vendendo all’Europa e all’Ucraina le armi necessarie a proseguire la guerra. Armi che gli Usa non hanno (ci vorranno anni perché ripianino le scorte) e soldi che gli europei non hanno per acquistarle. 

Gli anatemi anti-Trump si sono ripetuti in questi ultimi giorni a ogni annuncio di una telefonata o di incontro. Le accuse di essersi venduto a Putin, di voler smembrare l’ucraina e di aver perduto la faccia in Alaska guidano le sceneggiate inconcludenti dell’incontro di Washington e delle successive telefonate a Putin. Trump fornisce molti motivi di critica, nella questione di Gaza tre quarti del mondo gridano allo scandalo per il suo cinismo, ma nonostante la baraonda del circo euro-atlantico, il vertice bilaterale in Alaska è stato determinante per gli Usa e per la Russia. Il tema fondamentale dell’incontro non era l’Ucraina. Lo scambio di territori era una balla, nessuno dei due ha parlato o avrebbe voluto parlare di questo. Nessuno dei due capi di Stato ha parlato di un incontro per la pace o il cessate il fuoco in Ucraina. Le cose fondamentali sono state diverse e pertinenti ai rapporti bilaterali e quindi legittimamente dovevano escludere altri partecipanti. Russia e Usa hanno concordato sulla ripresa delle relazioni politico-strategiche, sulle limitazioni nucleari, sulla non belligeranza reciproca. Trump ha ribadito la propria aspirazione a rendere gli Usa meno dipendenti dall’estero e a non dare eccessivo peso alle pulsioni europee in politica ed economia. Trump ha ribadito che gli Usa comunque interverranno anche con le armi là dove i propri interessi nazionali siano minacciati.


GIOCO PERVERSO Illusioni e consigli sbagliati all’alleato ucraino portano i leader europei ad autoescludersi da ogni trattativa con Mosca. Trump lo sa bene e ha già risolto con Putin le questioni che interessano agli Usa.


Fonte: Il Fatto Quotidiano

mercoledì 13 agosto 2025

Due attivisti per i diritti umani nutrivano la speranza che Israele potesse essere riformato, ma ora non più.

 Un colono dell'insediamento di Har Bracha lancia pietre contro gli abitanti palestinesi di Burin sotto la protezione dell'esercito israeliano, 19 aprile 2011. (Foto: Wagdi Eshtayah/APA Images)


Due attivisti per i diritti umani nutrivano la speranza che Israele potesse essere riformato, ma ora non più. "Oggi è un'unica massa compatta di male distillato", scrive l'avvocato per i diritti umani Michael Sfard.

Di Daphna Baram e Michael Sfard  

12 agosto 2025  

Il mio amico Michael Sfard, uno dei migliori avvocati per i diritti umani in Israele e autore di grande talento, scrive della perdita di speranza tra i professionisti dei diritti umani. Vi invito a leggere le sue parole, a cui mi aggiungo.

Il mio percorso professionale ha incrociato quello di Michael in attività simili molti anni fa. Ero un avvocato praticante presso lo studio legale di Lea Tzemel a Gerusalemme quando lui era corrispondente legale per il settimanale Kol Ha'ir, appartenente al gruppo Ha'aretz di Gerusalemme. Poi lui è diventato avvocato per i diritti umani e io mi sono dedicato al giornalismo, diventando caporedattore dello stesso settimanale. Il mio primo articolo di cronaca in assoluto è stato scritto in collaborazione con Michael. Riguardava ciò che all'epoca ci aveva completamente sconvolti: era emerso che l'allora presidente dell'Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI), Ruth Gabizon, aveva espresso il suo sostegno alle pratiche di tortura. 

La perdita di speranza che i difensori dei diritti umani stanno vivendo non è mai stata una grande speranza, tanto per cominciare. E col senno di poi, probabilmente possiamo entrambi concordare sul fatto che momenti come quello di cui sopra siano stati momenti belli. O almeno, erano momenti più pieni di speranza. Il solo fatto di sapere che questa era una storia degna del titolo in prima pagina significava che avevamo una certa fiducia nei valori che un'organizzazione per i diritti civili dovrebbe sostenere. Speravamo che la società israeliana potesse migliorare.

È sempre stata, come la definì Gandalf, "la speranza di uno stolto", ma persino nei giorni più bui della prima Intifada (1987-1993), si potevano ottenere piccoli risarcimenti per i propri clienti come avvocato o lasciare un segno denunciando alcuni torti brutali. Come Paese, come società e per molti individui, c'era ancora vergogna nell'essere un oppressore insensato e brutale, nell'avere assassini tra sé, nel rubare le bibliche "pecore del povero". 

Non è più così. Quei giorni sono finiti, Weimar è finita. Appellarsi all'Alta Corte di Giustizia non è più una vera minaccia al potere; convincere un giornalista a denunciare il male, anche quando si trova quel raro e coraggioso giornalista che non si è trasformato in un portavoce del fascismo, non è un'arma a suo favore, e non c'è "mondo" là fuori che possa sanzionarti per non aver compreso i limiti del potere, perché non ce ne sono. È davvero desolante. 

Il mio cuore e la mia ammirazione sono con Michael e con coloro che ancora combattono la giusta battaglia, con una speranza ormai svanita, ma non riesco a immaginare da dove possa arrivare. In questo nuovo mondo del XXI secolo dovremo ricostruire i meccanismi per rendere il mondo di nuovo almeno in parte dignitoso o almeno ripristinare alcuni controlli ed equilibri sull'incredibile brutalità che rende possibile l'attuale genocidio a Gaza. 

Michael Sfard:

Vorrei dire qualcosa sulla Cisgiordania.

Non si tratta di fame, non si tratta di tortura, non si tratta di sterminio.

Riguardo al male semplice, personale, piccolo (relativamente).

Sono avvocato da 26 anni, e in tutti questi anni ho rappresentato i palestinesi che vivono in Cisgiordania. Ho rappresentato individui, famiglie e intere comunità e mi sono occupato, complessivamente, di migliaia di episodi in cui l'esercito, i coloni, o entrambi, hanno danneggiato, minacciato di danneggiare o molestato i miei clienti.

Non mi sono mai sentito così impotente come in questi giorni.

Come studenti di giurisprudenza, impariamo a conoscere i pericoli del potere arbitrario: un potere incontrollato, non vincolato da norme giuridiche, non soggetto al controllo delle istituzioni giuridiche che lo limitano. Quando pensiamo a questo, immaginiamo paesi lontani ed epoche passate. Immaginiamo il signore feudale che sfratta un vassallo per capriccio; il re che ruba l'unica pecora a un povero; il funzionario monocratico che, con un'occhiata, fa arrestare il suo fastidioso vicino. Pensiamo a luoghi senza un sistema giudiziario, certamente non indipendente e guidato da un'etica professionale.

E ora, negli ultimi mesi in Cisgiordania, mi ritrovo a guardare dritto negli occhi un potere crudo, brutale e arbitrario.

Il mio ufficio riceve segnalazioni di uso arbitrario della forza ogni settimana, ogni giorno, a volte anche più volte al giorno:

– Coloni che invadono terreni privati, molestano i proprietari e spaventano i bambini.

– I coloni sradicano gli alberi.

– Un colono in uniforme militare perquisisce la tenda di un pastore, rompe la proprietà e rovescia acqua potabile.

– I soldati smantellano le telecamere di sicurezza installate nelle case palestinesi per documentare molestie e violenze.

– I soldati confiscano i server in cui sono archiviati i filmati.

– La proprietà viene sequestrata dalla polizia o dai soldati che non lasciano alcuna documentazione, nessun modulo che confermi il sequestro.

– Chi prova a protestare viene arrestato.

– I coloni, appoggiati dai soldati, impediscono ai contadini di raggiungere le loro terre. Non viene fornita alcuna spiegazione.

– La polizia non applica gli ordini restrittivi emessi dai tribunali israeliani nei confronti dei coloni molestatori, non indaga sulle violazioni, non li arresta nemmeno quando le minacce continuano.

– La polizia si rifiuta di accettare denunce sul posto o per telefono: “Venite alla stazione”, dicono (e aspettate cinque ore fuori al caldo).

Niente, niente di tutto questo è legale, secondo le leggi dell'occupante, secondo la legge militare vigente nel territorio.

E niente di tutto questo è una novità, se non il fatto che ora non c'è nessuno con cui parlare.

C'era un numero di telefono, un comandante, un ufficiale, un pubblico ministero, un consulente legale, qualcuno che mostrava un briciolo di vergogna.

Ora non c'è nessuno con cui parlare.


Fonte: Ha'aretz


Dafna Baram

 

Daphna Baram è un'ex avvocatessa israeliana per i diritti umani, giornalista, traduttrice e comica, attualmente residente a Londra. È autrice di "Disincanto: The Guardian and Israel" (2004), scritto durante un periodo di affiliazione con la Reuters Foundation fellowship al Green College di Oxford e come Senior Associate Member al Saint Antony's College di Oxford. Ha collaborato con The Guardian, The Independent, la BBC, al Jazeera e pubblicazioni israeliane. Ha recentemente completato il dottorato di ricerca presso la Lancaster University dal titolo "Something to Declare: Immigrants' Stand-Up Comedy in the UK".

Michael Sfard

 

Michael Sfard è un avvocato per i diritti umani e ha rappresentato Human Rights Watch.

mercoledì 23 luglio 2025

GAZA: IL RACCONTO DI SAMAH ZAQOUT

 


Cari lettori,


Il mio nome è Samah Zaher Zaqout e sono una palestinese di Gaza che vive sotto l'attuale "guerra." Ho scritto questo pezzo, "Fame, paura e lotta per il pane" per far luce su ciò che stiamo vivendo qui, specialmente nel nord di Gaza dove stiamo vivendo le condizioni più difficili. 

Vi dico qualcosa di me: sono una scrittrice, traduttrice e insegnante. Mi sono laureata presso la facoltà di lettere, letteratura inglese, come una dei migliori studenti; ero una studentessa del defunto dottor Refa'at Al-Areer.

Scrivo sulla vita a Gaza. Ho pubblicato alcuni dei miei articoli su riviste come Electronic Intifada, We Are Not Numbers e Politics Today. Ho anche partecipato con i miei scritti in alcuni eventi e libri all'estero. 

Grazie per aver letto il mio articolo. Si prega di leggere fino alla fine per un annuncio speciale -- Sto collaborando con Eyewitness Palestine su un evento emozionante il prossimo mese!


Carestia, paura e lotta per il pane

Di Samah Zaqout


E se fossimo rimasti? A Gaza, ottenere pane bianco è un raro conforto - una scommessa con la vita. 

Ogni mattina a Gaza, le persone si affrettano per prenotare il loro posto nelle code dei panettieri. Alle 6 del mattino, le porte della panetteria si aprono, ma le code iniziano ore prima e continuano fino a quasi mezzanotte,  eppure la folla non diminuisce mai. Alcuni mandano le loro madri anziane al fronte - mani fragili e occhi stanchi hanno la priorità, un disperato tentativo di assicurarsi prima una pagnotta.

Ma a Gaza, anche le panetterie non sono al sicuro dalle bombe.

Un giorno mio padre ci portava con me e le mie due sorelle a tentare la fortuna in una panetteria. La coda delle donne era spesso più corta, spesso più veloce. Ma quando siamo arrivati, la panetteria era soffocante, piena - persone che spingevano, scrollavano e urlavano. Pugni volati come alcuni hanno cercato di strappare pani l'uno dall'altro.

Il volto di mio padre divenne cupo. "Anche se aspettiamo fino al mattino, non avremo un turno. Proviamo da qualche altra parte," disse. Ce ne siamo andati stanchi e a mani vuote. 

Ore più tardi, è arrivata la notizia: quella panetteria era stata bombardata. Decine di morti e feriti. Pane e sangue sparsi per strada. Non riuscivo a scrollarmi di dosso il pensiero: E se fossimo rimasti?

Dalle feste alla carestia: i ramadan perduti

Non molto tempo dopo, i panifici hanno chiuso.  Niente più interminabili code, niente più ore passate ad aspettare solo per ottenere un po' di pane.  Ma il silenzio che hanno lasciato era più pesante. Tutti i passaggi erano chiusi, non arrivavano rifornimenti e la farina era completamente fuori dal mercato.

La farina è diventata scarsa, e i prezzi sono saliti - 60, a volte 70 shekel per chilo. Compravamo il poco che potevamo, poi passavamo ore a cuocere sul carbone annerito, sistemando costantemente il fuoco per mantenerlo in vita. Ma la lotta non finì lì. Quando la farina bianca scomparve completamente, ci rivolgemmo al grano.

Ricordo un giorno al mercato. C'era il caos - folle che spingevano, urlavano, disperate per il cibo. Bancarelle improvvisate ovunque, nessun negozio adeguato, nessun ordine. La gente gridava l'una sull'altra. Poi abbiamo trovato un uomo anziano che vendeva farina per 35 shekel. "Prendila per 35," disse, mettendo la farina nella nostra borsa. L'abbiamo presa e siamo corsi a casa.

Ma non era solo farina. Tutto era andato - carne, pollo, verdure, frutta - anche spuntini. Siamo sopravvissuti con cibo in scatola. Ogni giorno aprivamo nuove lattine - fagioli un giorno, lenticchie l'altro, riso, qualsiasi cosa potessimo trasformare in un pasto.

Da Ramadan 2024, carestia in vista. Mercati svuotati rapidamente. 

Nel Ramadan 2024, siamo stati sfollati per la decima volta. Avevamo trovato rifugio nella casa di un parente a ovest di Gaza, "la zona sicura", dopo essere stati costretti a lasciare il campo di Jabalia a causa delle minacce di invasioni terrestri. Cinquanta persone stipate sotto lo stesso tetto. Bambini, donne e anziani. 

Ma l'affollamento non era la parte peggiore. I bombardamenti che riecheggiavano - anche in questa zona "sicura" - erano terribili. Ma la carestia li ha eclissati entrambi. Tutto era scarso, anche l'acqua pulita. Abbiamo fatto affidamento sull'acqua salata per cucinare, bere e fare il bagno.

Un giorno, mio cugino è riuscito a trovare alcune bottiglie di acqua fresca. La parte della nostra famiglia era una mezza bottiglia - un dono prezioso in tempi disperati. Mio padre, responsabile di nove di noi, andava al mercato ogni giorno, alla disperata ricerca di qualcosa per rompere il nostro digiuno del Ramadan. La maggior parte dei giorni, tornava con nient'altro che una piccola borsa contenente forse due lattine di lenticchie o un vassoio di riso. Il mercato era spogliato.

Ricordo il giorno in cui mio padre tornò a casa con una manciata di frutta secca e noci: non ne era rimasto uno fresco al mercato. Li ha divisi tra noi, facendo sentire la scarsità come una festa.

Non so se è stato intenzionale bloccare l'ingresso degli aiuti in Ramadan - forse lo era - perché anche nel Ramadan 2025, il blocco è tornato. Dal secondo giorno del mese sacro, le forze israeliane hanno isolato Gaza, tagliando tutti gli aiuti, i rifornimenti di cibo e il gas per cucinare. La carestia ritorna!

I mercati sono tornati silenziosi. I pochi negozi rimasti erano vuoti, i loro scaffali si stavano polverizzando. Ci rivolgemmo ancora una volta alle lattine - quelle fredde, senza vita che ora definivano il nostro suhoor e iftar.

Continuavo a pensare ai Ramadan passati - tavoli pieni di piatti, la nostra corsa per preparare la tavola, come ogni persona aggiunge il proprio antipasto, e l'odore della cucina di mamma che riempie la nostra casa, che ora si trasforma in macerie. Le serate erano diverse - andavamo tutti alla moschea per le preghiere di Taraweeh, poi tornavamo a casa per fare il deserto, di solito Qatayef, e sederci insieme o visitare le mie zie.

Ora, l'aria si sentiva più fredda, le serate più tranquille.

Invece, ci siamo rannicchiati attorno a lattine di cibo, le nostre mani impegnate ad alimentare il fuoco con pezzi di legno e scarti di carta solo per accendere una fiamma. Verso sera, ci siamo trovati a spazzare via gli strati di cenere che si erano depositati in tutta la stanza.

Le strade erano silenziose, spogliate del solito bagliore di Ramadan. Niente decorazioni del Ramadan, niente luci, niente canti gioiosi, solo un silenzio assordante, interrotto solo dalle improvvise esplosioni terrificanti. Ogni esplosione ha infranto la nostra fragile speranza che questo incubo finisse, che la paura si placasse. Invece, ci ha ricordato che la paura era qualcosa a cui non potevamo mai sfuggire.

Una notte avevamo bisogno di pane per il suhoor, ma era già tardi. Mio padre insisteva per andare in panetteria così da poter mangiare prima del digiuno. Ogni secondo che passa era teso dalla paura.

Attualmente, tutte le panetterie di Gaza sono chiuse. Tutti gli ortaggi, la frutta e la farina sono quasi scomparsi. Un sacco di farina vale il suo peso in oro. E di nuovo, siamo tornati, spinti all'infinito in questo circolo vizioso. Ma anche in quei omenti di disperazione, ci siamo aggrappati a ciò che potevamo - alle preghiere, ai ricordi e alla speranza che il prossimo Ramadan sarebbe stato diverso.
Pane macchiato di sangue Il prezzo della farina è salito da $ 10 a $ 1.000 nel mercato mnero prima di scomparire completamente. Disperati, migliaia di persone non avevano altra soluzione che riunirsi al posto di blocco di Nabulsi, la porta d'ingresso per i camion della farina, sperando di portare a casa un sacco per sfamare i propri figli. Una sera mio padre e tre cugini partirono, decisi a tornare come tutti gli altri con un sacco di farina. Ma ciò che li attendeva era al di là di qualsiasi cosa mio padre avesse immaginato. Sono partiti al tramonto di un giovedì, inseguendo i sussurri che i camion sarebbero arrivati dopo il tramonto, la preghiera del Maghrib. "L'aria era molto fredda, così la gente raccoglieva legna dalle rovine delle case bombardate, accendendo piccoli fuochi per riscaldarsi", diceva mio padre. "Migliaia stavano lì, in attesa," ha aggiunto. Mio padre e 3 cugini si trovavano in un luogo separato dal checkpoint, un posto che mi sembrava più sicuro, almeno per un po'. Ore passate. Mezzanotte. Poi alba. I camion sono finalmente apparsi, così come le armi da fuoco, così come la morte! Quelli più vicini al posto di blocco gridavano, diffondendo la notizia: la farina era arrivata. Mio padre e i miei cugini si sono divisi in coppie, sperando di navigare nel caos. Il piano era semplice: prendere un sacco e tornare a casa. Poi, la sparatoria è iniziata. Le esplosioni echeggiavano mentre i camion passavano. Ma quando i camion raggiunsero mio padre, non trasportavano farina: solo feriti e morti. "Non vogliamo farina macchiata di sangue", disse mio padre a mio cugino. Abbandonarono la loro ricerca e iniziarono a cercare gli altri due parenti scomparsi mentre la folla si disperdeva. Passarono le ore. Il sole sorse, rivelando un campo di battaglia svuotato. Alcuni avevano portato a casa i loro morti. Alcuni avevano portato a casa le loro ferite. E alcuni avevano afferrato il loro sacco di farina che valeva più della vita stessa. Costretto, mio padre tornò a casa, pregando che i dispersi avessero fatto lo stesso. Ma non c'erano! Alla fine, li ha trovati all'ospedale di Al-Shifa, cancellati nella distesa dei feriti e dei martiri. Entro la mattina, almeno 112 sono stati uccisi, 760 feriti. Mia madre, le mie sorelle, le mie cugine e io avevamo passato la notte paralizzati dalla paura, incapaci di dormire, aggrappati alle nostre preghiere sussurrate. Quando la notizia del massacro ci raggiunse, il terrore consumava i nostri cuori. Senza comunicazione, tutto quello che potevamo fare era pregare. Infine, sono tornati. Giorni dopo, mio padre ha comprato un sacco di farina da un uomo che era sopravvissuto quella notte. Ha pagato mille shekel-trecento dollari. Quando l'ha portata attraverso la porta, eravamo estasiati! "Non ho mai pensato che le cose sarebbero arrivate a questo, ma il peso delle difficoltà non ha lasciato altra scelta," disse mio padre. Seguimi su Instagram @samah.zaqout Iscriviti al mio Substack Chiedo anche che tu consideri di sostenere la campagna per la famiglia di mio zio. Ha 3 figli e sua madre (mia nonna) soffre di cancro al seno. La sua situazione sta peggiorando e lei è sopravvissuta agli antidolorifici. Ha un permesso di viaggio ma è ancora bloccata a Gaza. Mio zio lavorava come autista, ma ha perso l'auto. Non ha più i mezzi per provvedere alla sua famiglia. È stato spostato molto e finalmente è tornato nella sua casa che è stata parzialmente demolita. Ha perso suo padre durante questa guerra; pensa che suo padre non possa farcela. Voglio usare il suo link mentre condividi la mia scrittura in modo che speriamo che possiamo aiutarlo. Qualsiasi piccola quantità può servire. Spero che possiate anche condividere il link con gli altri in modo che la sua storia possa raggiungere più persone. Questo aiuterà molto. In segno di gratitudine, Samah


sabato 19 luglio 2025

SIRIA IN FIAMME: COME L’OCCIDENTE HA CREATO L’ENNESIMO STATO FALLITO


di Vincenzo Brandi


Giungono notizie di scontri interreligiosi tra milizie sunnite e druse nel Sud della Siria, di cui immediatamente profitta Israele per estendere la sua influenza nella Siria meridionale ergendosi a “protettore” dei Drusi e bombardando persino i palazzi del potere a Damasco.

Si tratta in realtà solo di un ignobile conflitto tra avvoltoi (Israele, Turchia, USA) che cercano di spartirsi le spoglie di quel martoriato paese noto un tempo per essere la sede di una pacifica convivenza tra gruppi religiosi ed etnici (dai Sunniti ai Cristiani, dagli Alawiti ai Drusi, dagli Arabi ai Curdi e le minoranze turcomanne e assire).

La Siria era l’ultimo baluardo di quel nazionalismo arabo laico, socialista ed antimperialista, che aveva destato tante speranze tra i popoli del Medio Oriente e del Nord.-Africa, ed aveva avuto i suoi più noti rappresentanti in Nasser, Gheddafi e Assad padre. Non si trattava di regimi perfetti, ma in Siria prima del 2011 erano stati raggiunti importanti risultati nel campo economico e sociale, e dei diritti umani, soprattutto delle donne che avevano raggiunto una piena parità. La pace interetnica e interreligiosa era stata assicurata nonostante qualche tentativo fallito di colpo di stato condotto da ambienti sunniti estremisti foraggiati dall’estero.

Dal 2011 è iniziata una sistematica campagna di destabilizzazione e smantellamento del paese condotta con l’azione di bande terroriste come Al Qaida, ISIS, Al Nusra, ed infine HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziate ed armate dai servizi segreti occidentali, dalla Turchia ed alcune monarchie arabe reazionarie. Israele ha contribuito con continui bombardamenti.

Alla fine, dopo quasi 15 anni di durissima lotta, lo stato siriano esausto, ed indebolito anche dal separatismo curdo che si è impossessato in collaborazione con le truppe USA di tutti i pozzi di petrolio (principale fonte di valuta del governo) si è definitivamente sfasciato, aprendo le porte dell’inferno.

Oggi in Siria a Damasco si è insediato il terrorista, ex dirigente di ISIS ed Al Qaida, Ahmed Al Hamraa (noto come Al Jolani) sostenuto dalla Turchia e dai servizi occidentali. Ma il fatto di essersi messo in giacca e cravatta e di essere protetto direttamente da USA, Turchia, UK e altri paesi occidentali, non gli ha permesso di governare su un paese pacificato e unito. Il Nord è occupato dai Turchi, il Nord-Est da Curdi e truppe USA, la zona di Al Tanf al confine giordano da altre truppe USA e altre bande jihadiste, il Sud da Israele e milizie druse. Anche gli Alawiti e gli ex sostenitori di Assad organizzano la resistenza nella zona costiera, nonostante la feroce repressione delle bande dell’HTS (formate anche da terroristi sunniti non-siriani, caucasici e centroasiatici) che ha causato il massacro di oltre 1500 civili alawiti.

Il dramma della Siria non è un caso isolato. .L’Occidente cerca di distruggere e gettare nel caos 0gni stato indipendente che si frapponga ai suoi voleri.

Negli anni ’90 fu distrutta la Jugoslavia, e ancora oggi vengono alimentate tensioni potenzialmente esplosive tra Kosovo e Serbia e tra Musulmano-bosniaci e Bosniaci serbo-ortodossi. Già dall’inizio degli anni 2000 iniziarono i tentativi di destabilizzare l’Ucraina, allora stato neutrale, e la Georgia.

Il tentativo in Ucraina è stato infine attuato con il colpo di stato del 2014 che ha gettato il paese, prima in una sanguinosa guerra civile attuata contro le popolazioni russofone del Sud e dell’Est (cui veniva vietato persino l’uso della propria lingua) e poi in una guerra disastrosa con la Russia (opportunamente cercata e provocata ad arte) che sta distruggendo il paese.

Nel 2011 è stata distrutta la Libia di Gheddafi, uno stato prospero e funzionante gettato nel caos, anche se per fortuna il paese pare si stia ricompattando in gran parte sotto la direzione del Parlamento e del Governo di Bengasi. Oggi si cerca di destabilizzare tutta la zona caucasica organizzando provocazioni in Azerbaigian ed Armenia. Inutile ricordare la triste sorte di altri paesi come Iraq, Sudan, Somalia ed Afghanistan.

Tuttavia non sempre le ciambelle riescono col buco, La Georgia, dopo essere stata trascinata in una disastrosa guerra con la Russia nel 2008, oggi sembra essersi ripresa ed aver riacquistato una certa indipendenza. Il tentativo di destabilizzazione della Bielorussia è fallito grazie alla saldezza e al radicamento del Governo guidato dal Presidente Lukashenko. Anche i tentativi di destabilizzare il Venezuela sono falliti.

Soprattutto i picconatori occidentali non riescono a destabilizzare i paesi più forti che ormai sono sfuggiti al loro controllo, nonostante guerre e pressioni economiche. Parliamo della Federazione Russa che si impone sul campo di battaglia e resiste alle sanzioni; dell’Iran che ha respinto con successo l’aggressione USA.-israeliana; della Cina che continua a svilupparsi impetuosamente anche nei settori più tecnologici.

I vecchi paesi colonialisti ed imperialisti di Nord-America ed Europa non demordono e minacciano di riarmarsi fino a giungere eventualmente ad un disastroso (per l’umanità) confronto militare diretto. Tuttavia i paesi indipendenti, riuniti in alleanze ed anche organizzazioni come i BRICS, mostrano di avere i mezzi sufficienti per difendersi ed evitare il peggio.

17 luglio 2025, Vincenzo Brandi

giovedì 17 luglio 2025

Violenza e repressione interna in Israele. Un’intervista a Ofer Cassif

 



16/07/2025

di Stefano Amann


Nella società israeliana esiste un movimento contrario alle guerre genocide e colonialiste; è minoritario, ma c’è. Il mainstream occidentale oscura ogni notizia che evidenzia l’esistenza dell’opposizione civile e politica israeliana, come pure si rivela timido quando dovrebbe denunciare la repressione del governo sionista di Nethaniau nei confronti del dissenso interno.

Tra le voci più autorevoli dell’opposizione si annoverano i deputati di Hadash e del Partito comunista israeliano, tra i pochi che denunciano esplicitamente il genocidio del popolo palestinese e che hanno condannato fermamente la guerra d’aggressione di Nethaniau contro l’Iran.

Tra questi Ofer Cassif, che è stato più volte sospeso dalla partecipazione dei lavori alla Knesset, il parlamento israeliano e, di recente, ha subito un nuovo ennesimo procedimento disciplinare che gli costa una nuova sospensione di 2 mesi. Motivi? Tutti d’opinione e politici, tant’è che tra i “capi di imputazione” che gli vengono contestati c’è anche la sua partecipazione a inizio di febbraio ad una iniziativa che ha avuto luogo all’università di Bologna.


Vicenda ancor più grave quella di un altro deputato di Hadash, il compagno Ayman Odeh, oggetto di un procedimento di messa in stato di accusa per aver espresso pubblicamente la sua contrarietà alle politiche genocide del governo e per aver manifestato equa soddisfazione per il rilascio degli ostaggi israeliani al pari di alcuni prigionieri politici palestinesi. Quest’ultima affermazione gli è costata un’accusa di tradimento e quindi la richiesta di impeachment. Ricordiamo che tra le migliaia di prigionieri politici reclusi nelle prigioni israeliani c’è un altissimo numero di minorenni, che la maggior parte non gode di nessun diritto fondamentale, che ci sono numerose denunce da parte di organismi indipendenti di trattamenti inumani e torture.

Il 14 luglio la Knesset ha votato in merito all’espulsione, respingendola. Ma a conti fatti la maggioranza dei parlamentari ha votato a favore (73 su 120). Per quanto l’esito ci soddisfi le vicende che riguardano i parlamentari di Hadash, le reiterate minacce che si concretizzano in provvedimenti disciplinari più o meno duri, il costante lavorio di repressione orchestrato costituiscono il tentativo di mettere a tacere le ultime voci di dissenso politico, completando la transizione definitiva verso un regime fascista.


Abbiamo intervistato il compagno Ofer Cassif in merito a queste ultime vicende che lo hanno visto, suo malgrado, protagonista e alla situazione politica in generale israeliana.


Stefano Amann: Intanto come stai? Sei stato oggetto di un ennesimo provvedimento di sospensione dal Parlamento, e sappiamo che tra le contestazioni elevate c’è anche una tua partecipazione ad un seminario organizzato a gennaio del 2025 presso l’università di Bologna. Per far capire al pubblico italiano, cosa hai dichiarato per meritarti l’ennesima censura e ostracizzazione da parte della Knesset?


Ofer Cassif: Sono stato sospeso per due mesi soprattutto a causa di alcune espressioni che ho fatto e di alcune cose che ho detto. La sospensione entrerà in vigore solo in ottobre, perché la Knesset è in pausa dalla settimana successiva alla prossima fino a ottobre, alla fine di ottobre, credo. Comunque, per quanto riguarda il seminario di Bologna, ho detto lì, come ho detto in molti altri luoghi e forum, che Israele è colpevole di crimini di guerra e genocidio a Gaza e che è vietato dire che Israele è colpevole di genocidio o anche di altri crimini di guerra. Questo fa parte della persecuzione di chiunque alzi una voce alternativa a questo governo e in particolare ai suoi atti e crimini a Gaza.


Stefano Amann: Non tutta la società israeliana concorda con la linea criminale del governo Nethaniau; qual è lo stato di salute dell’opposizione civile e politica in Israele ?


Ofer Cassif: È vero che migliaia, forse milioni di israeliani sono contrari alla prosecuzione dell’attacco a Gaza soprattutto per la sorte dei soldati e degli ostaggi israeliani, ma sono molti quelli che si oppongono a causa dei crimini di guerra e del numero di morti tra i palestinesi, soprattutto tra i bambini. Solo per fare un esempio, ogni sabato sera e a volte anche durante la settimana, ci sono manifestazioni in molti luoghi, soprattutto a Tel Aviv ma anche in altri, in cui centinaia e centinaia di israeliani, soprattutto ebrei, in piedi in silenzio con le foto dei bambini di Gaza uccisi da Israele e quindi si può vedere che la società israeliana in questo senso è abbastanza polarizzata perché accanto ai fascisti che sostengono la continuazione del massacro e addirittura lo celebrano, si possono vedere come ho detto migliaia se non milioni di israeliani che si oppongono, ma in generale la società civile in Israele è in crisi a causa della persecuzione. Ci sono molte leggi e proposte di legge che mirano a limitare e in larga misura a eliminare la società civile, soprattutto se non solo la cosiddetta parte di sinistra della società civile, le organizzazioni per i diritti umani e le organizzazioni associate ai movimenti di sinistra, e questo è un altro elemento o un’altra fase del fascismo che dilaga in Israele e del silenziamento, dell’effetto agghiacciante, del terrorismo contro di noi. Per quanto riguarda l’opposizione politica all’interno del Parlamento, la situazione è già molto grave. Come avete potuto vedere a proposito dei tentativi di impeachment dell’MK Ayman Odeh, il nostro presidente di lista, molti all’interno dell’opposizione l’hanno sostenuto e altri semplicemente non sono venuti a votare, ma pochissimi, a parte noi, hanno votato contro l’impeachment.


Stefano Amann: La Knesset ha votato più volte provvedimenti restrittivi dell’agibilità politica per i membri del fronte Hadash; talvolta anche altre frazioni dell’opposizione a Netanyahu si è distinta per aver votato tali provvedimenti scandalos anche se al voto del 14 luglio per l’espulsione di Ayman Odeh i democratici hanno votato contro. Come giudichi la politica portata avanti dagli ex laburisti?


Ofer Casssif: Devo dire che la stragrande maggioranza dell’opposizione sostiene i crimini di guerra o li nega e siamo abbastanza isolati all’interno del Parlamento per quanto riguarda questi crimini. In particolare, i laburisti, che ora sono sotto l’egida di un altro movimento o partito che si chiama “Democratici”, sono fondamentalmente e generalmente una lista congiunta di laburisti ed ex-meritevoli. I membri del Labour all’interno della Knesset vanno relativamente bene. Naturalmente, molte volte non votano con noi e non definiscono le atrocità di Gaza come genocidio o pulizia etnica e molto raramente come crimini di guerra. A volte lo fanno e tutti hanno votato contro l’impeachment di Ayman. Quindi, in questo senso si può dire che il lavoro va relativamente bene e ci sono molti eventi in cui collaboriamo l’uno con l’altro, sia all’interno della Knesset sia al di fuori di essa.


Stefano Amann: A differenza di quanto accada a Gaza, dove l’orrore del genocidio è ampiamente documentato, la situazione nei territori occupati della cisgiordania fatica ad emergere; qual è la situazione delle violenze da parte dell’esercito regolare e dei gruppi paramilitari?


Ofer Cassif: Accanto al fascismo che dilaga in Israele e al genocidio di Gaza, in Cisgiordania è in atto una pulizia etnica che assume due forme collegate. Una è la violenza quotidiana dei terroristi ebrei, i coloni.  Non c’è giorno in cui non si verifichi un attacco feroce da parte di centinaia di coloni contro pacifici agricoltori o pastori palestinesi. Più di 20 comunità e villaggi palestinesi sono letteralmente morti negli ultimi due anni e mezzo. Anche se questo problema criminale è iniziato anni prima, soprattutto sotto il governo di Netanyahu, ma anche sotto il governo di Lapid e Bennett. Ma non è mai stato così grave. Potete vedere che ogni giorno i coloni attaccano i palestinesi. Incendiano i loro campi, tagliano i loro alberi. Danno fuoco alle loro case quando la gente è dentro. Sparano ai palestinesi. Tre di loro sono stati uccisi proprio la scorsa settimana dai coloni. Uno di loro è stato picchiato a morte da un colono e ci sono molti casi del genere. E tutti questi episodi sono compiuti non solo sotto l’egida delle forze di occupazione, ma molto spesso con la collaborazione delle forze di occupazione, della polizia e dell’esercito. E naturalmente si crea una situazione in cui centinaia di palestinesi, se non di più, sono costretti a fuggire. E questo è il motivo per cui credo che qualcosa come 25-30 comunità e villaggi siano morti perché sono dovuti fuggire dalla violenza sistematica e quotidiana dei coloni combinata con le forze di occupazione.


Stefano Amann: Tu fai parte di un gruppo politico formato da compagni sia arabi sia israeliani; qual è la tua opinione in merito alla vita quotidiana della numerosa comunità araba di cittadinanza israeliana?


Ofer Cassif: Circa il 21% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Essi sono essenzialmente discriminati, sia costituzionalmente che praticamente, fin dal primo giorno, dal 1948, quando è avvenuta la Nakba ed è stato fondato lo Stato di Israele, e sicuramente sotto questo governo la loro situazione è molto peggiorata. La discriminazione ha molte facce, sia che si parli di occupazione, di condizioni di lavoro, di salario, di collocazione nel mondo accademico, nei media. In sostanza, non c’è quasi nessun palestinese nei media, soprattutto in televisione, ma anche in altri settori. E soprattutto dal 7 ottobre 2023 sono scomparsi dagli schermi. E la cosa principale, ancora una volta, sono due cose principali, soprattutto dal 7 ottobre. Una è la demolizione delle case. Ci sono sempre state demolizioni di case e oserei dire che più del 90% di queste demolizioni sono di case palestinesi. E la scusa dei vari governi, non solo di quello attuale, è che quelle case sono costruite illegalmente. Il problema è che anche se vengono costruite illegalmente, è perché non ci sono piani o possibilità per i palestinesi di avere case legali perché le autorità non glielo permettono, non gli concedono le certificazioni giuste per costruire. Quindi il più delle volte sono costretti a costruire illegalmente, altrimenti non hanno un posto dove vivere. Quindi la scusa che costruiscono illegalmente è una scusa e basta. Ma con questo governo e soprattutto con il ministro Ben-Gvir, fascista e razzista, che si occupa delle demolizioni, il bilancio delle demolizioni è molto più alto che mai, soprattutto nel sud di Israele, nel Negev, dove sono morti interi quartieri e villaggi. Questa è una delle cose peggiori. Un’altra è ovviamente la criminalità, la criminalità organizzata nella società arabo-palestinese all’interno di Israele è in aumento. Non c’è quasi giorno senza omicidi. E questo anche perché fa parte della politica del governo. Non è un caso ed è qualcosa che il governo permette che accada e oserei dire che addirittura incoraggia, perché questo porta la società palestinese in una crisi e in scissioni che distolgono l’attenzione dalle questioni politiche alla mera esistenza e sopravvivenza. Quindi, in questo senso, il governo è interessato a incoraggiare il crimine, il crimine organizzato. Non sto parlando della violenza domestica e di cose del genere, che pure sono in aumento a causa di questioni sociologiche. Ma il problema principale è il crimine organizzato. È responsabile della stragrande maggioranza degli omicidi e del commercio di armi, ecc. Quindi, questa è un’altra questione essenziale di cui la società palestinese in Israele ha sofferto, soprattutto sotto questo governo, anche se il problema è iniziato almeno 15-20 anni fa. Prima di allora, il tasso di criminalità all’interno della società palestinese non era diverso da quello della società in generale, della società circostante. In realtà, fino all’inizio del XXI secolo il livello di criminalità all’interno della società palestinese era inferiore a quello della società ebraica e della società circostante. Ma a causa delle politiche, soprattutto, come ho detto, nell’ultimo decennio e ancor più sotto questo governo, il problema è molto più alto e profondo.  Questo per quanto riguarda il crimine. E naturalmente, oltre a questi due aspetti, il crimine e la demolizione delle case, c’è la persecuzione politica dei cittadini palestinesi. Molti di loro, migliaia dal 7 ottobre 2023, sono stati licenziati dal posto di lavoro o cacciati dalle università e da altre istituzioni accademiche, arrestati semplicemente per un tweet o un post su Facebook, ecc. E quindi ci sono molte limitazioni di cui gli altri ebrei non soffrono. Queste sono le tre principali difficoltà che la società palestinese incontra. Criminalità, demolizioni di case e persecuzioni politiche.


Stefano Amann

lunedì 7 luglio 2025

I FALLIMENTI DI TRUMP IL “PACIFICATORE”



di Vincenzo Brandi

 

Fanno riflettere i due ultimi insuccessi di Trump nel tentativo di ottenere delle tregue nelle due principali guerre in corso; quella tra NATO e Russia in Ucraina e quella in corso a Gaza tra Israele e la Resistenza palestinese, che assume sempre più i caratteri di orribile genocidio. Questi insuccessi mostrano tutti i limiti delle roboanti dichiarazioni del neo.Presidente USA secondo cui sarebbe stato in grado con le sue pressioni ed il suo solo prestigio a fermare le guerre.

Nel primo caso Trump - preso atto della decisione del responsabile USA del Pentagono Colby di sospendere la fornitura di missili anti-missile all’Ucraina in quanto gli stessi depositi USA si stavano pericolosamente svuotando - ha cercato di ottenere quanto meno una tregua telefonando direttamente a Putin. Il Presidente della Federazione Russa (che i nostri giornalisti pennivendoli chiamano ormai sempre più spesso spregiativamente: lo “zar”) ha fatto notare che le richieste russe sono le stesse sempre avanzate da 11 anni a partire dal colpo di stato organizzato nel 2014 dagli USA con la collaborazione degli ultranazionalisti e nazifascisti ucraini per portare il paese in ambito NATO.

La principale richiesta della Russia è che l’Ucraina torni al suo ruolo di paese neutrale e pacifico, ponte tra Russia e Occidente, che era assicurato prima del colpo di stato di Maidan dal governo neutralista di Janucovyc eletto Presidente dagli Ucraini in regolari elezioni. Dopo la spettacolare avanzata attuata dalla NATO negli ultimi 30 anni, che ha portato questa alleanza aggressiva a minacciare direttamente i confini della Russia, il passaggio forzato alla NATO dell’Ucraina (un paese che ha fatto nei secoli sempre parte integrante della Russia) avrebbe minacciato al cuore la sicurezza della Russia e avrebbe rappresentato per la Russia una “linea rossa” da non superare.

I Russi chiedono inoltre che dopo 8 anni di sanguinosa guerra civile nel Sud-Est dell’Ucraina abitato da popolazioni russofone, e altri 3 anni di guerra aperta tra Russia e NATO (per interposta Ucraina) si tenga conto della situazione maturata sul campo di battaglia, che ha visto grandi avanzate dell’esercito russo.

Trump ignora o finge di ignorare le richieste russe e chiede tregue basate sul nulla, che servirebbero solo all’esercito ucraino a cercare di riarmarsi e rafforzare le proprie posizioni, che oggi si trovano in condizioni molto critiche per esaurimento di mezzi e soprattutto di combattenti, visto che centinaia di migliaia di Ucraini fuggono all’estero o si nascondono per non essere arruolati e mandati al macello. Il fallimento delle improvvisate telefonate a Putin è quindi inevitabile.

Una situazione analoga si ha per Gaza dopo la presentazione di un presunto piano USA per una tregua. I nostri soliti giornalisti pennivendoli hanno parlato entusiasticamente del fatto che la Resistenza palestinese avrebbe accettato le proposte trumpiane, tranne la richiesta di qualche “piccola modifica”. In realtà le differenze tra la posizione di Trump e Israele, da una parte, e la Resistenza dall’altra non sono “piccole”, ma sostanziali.

La Resistenza chiede in realtà non una tregua temporanea, ma una tregua che prepari la fine delle ostilità e il ritiro definitivo dell’esercito israeliano. Chiede inoltre che gli aiuti alla popolazione siano adeguati e affidati nuovamente a organizzazioni dell’ONU, e non all’oscena organizzazione israelo-statunitense (Gaza Humanitarian Foundation) che ha affamato la popolazione con aiuti inadeguati, fatto da esca per massacri mirati di civili e addirittura fornito farina inquinata da una droga micidiale: l’ossicodone.

Trump è riuscito nel recente passato a far terminare la guerra di 12 giorni con l’Iran, ma solo perché Israele si trovava in gravi difficoltà per aver sottovalutato la potenza della reazione iraniana all’attacco. I missili iraniani avevano bucato con relativa facilità le difese anti-missile israeliane, rimaste oltre tutto a corto di missili. Trump ha potuto quindi vantarsi di aver ottenuto la pace (salvando Israele). Tuttavia i limiti della sua politica di mostrare i muscoli per impressionare l’avversario sono evidenti.

Nel prossimo futuro è sempre più probabile un progressivo sganciamento degli USA dallo scacchiere ucraino, lasciato agli stupidi “sherpa” europei, mentre in Medio Oriente si cercherà di coinvolgere monarchie arabe moderate, paesi-fantoccio come la nuova Siria dopo l’insediamento al potere dei terroristi, e qualche vecchia cariatide dei collaborazionisti dell’ANP. Intanto, però, il genocidio a Gaza e la colonizzazione della Cisgiordania non si fermano. Il cammino dei Palestinesi verso la libertà appare ancora complicato e irto di ostacoli e sacrifici, ma non si arresta e crea nuove contraddizioni nell’entità sionista e tra i suoi sostenitori statunitensi ed europei.

 

Roma, 6 luglio 2025, Vincenzo Brandi