7 OTTOBRE 2001
Tiziano Terzani rispondeva sul Corriere della Sera all’articolo-invettiva “La rabbia e l'orgoglio” di Oriana Fallaci,
pubblicato nove giorni prima sullo stesso giornale, a seguito dei fatti dell’11
settembre 2001. L’intervento di Terzani è attuale più che mai, all’indomani
della strage di Parigi.
Il
Sultano e San Francesco. Non possiamo rinunciare alla speranza - Tiziano Terzani
Oriana, dalla finestra di una casa poco
lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti
dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New
York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna
in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una
lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi.
Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu
proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina
dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia
non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non
certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo
evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo
stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal
tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo
soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue
invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di
persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire
il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha
qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che,
dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si
fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto
attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava
riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui
usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità,
un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità. Pensare quel che
pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua
notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle
scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un
momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato,
ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione
di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe
concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare
i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno
di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni
misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il
mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me»,
scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non
si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra,
non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto
di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono
antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua
rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per
rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la
violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo
non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà
nemmeno questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando
attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al
mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto,
immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti
prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di
nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi
delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci
bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a
nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla
Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici,
chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso,
ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza
del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più
terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla
nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra
nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi
siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo,
e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per
mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per
cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche
e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con
tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene
minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova
direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé
un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi
giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in
italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si
intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates
bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a
Mozart). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima
di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è
che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della
vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni
miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare
all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare
origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di
vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una
protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La
vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da
Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione
dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti
di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue
possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso
delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo
fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme
i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre
televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non
proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me
tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri
Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che
si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’di pietà sarebbe
forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi
visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi
letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di
andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi
interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a
quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di
noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo
di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza
di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si
tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono
convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i
terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia
umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una
correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il
risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre
migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di
effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di
tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di
religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una
Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco
alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica
formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di
Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie
sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli
assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno
attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di
The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l’ultimo, Blowback,
contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del
profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che,
nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica,
gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800
installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra
Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers
Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle
persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi
dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o
clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio
Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo»
dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta
una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato
dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in
Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe
americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i
luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica
americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli
Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento
anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli
Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers
Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e
nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la
ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi
«amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è
stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la
nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come
avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti
alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con
regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più
disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei
regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio
ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio
di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le
cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del
petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che
si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il
grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio
obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano
e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche
ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan,
l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare
dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due
delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche
al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande
azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che
di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto
attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla
necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro
l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno
determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali
cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria
petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora
prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca
per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel
mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza
anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono
l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano
sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se
l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i
terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento
da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato
queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana»,
fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i
presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già
sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali,
funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o
loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi
lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle
«cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare
è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra
cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere
l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e
precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia
utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle
oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di
pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e
dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È
come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in
televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito,
che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte
ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in
Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li
capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del
potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi
terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini,
una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li
invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e
non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter
stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi
responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di
dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di
battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora
alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito
proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere
consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare,
Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del
terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come
incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle
scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di
domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non
sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è
l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato
Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo,
oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al
ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul
mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente
è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una
frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle
gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là
degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi
assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno
uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma
il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i
crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la
nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda
volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso
della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal
comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una
spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le
linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del
Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe
interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu
particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti
nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume,
all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le
sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del
Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di
Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche
immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci
fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non
potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.
Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo
ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La
sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto
diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba
essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa
spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a
Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo
che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della
distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu
che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile,
ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto
mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte
risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò
invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del
pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in
America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per
la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il
resto». Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi
sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche
in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei
Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui,
epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su
una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della
preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare
tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per
salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro
la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire
con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto
dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle
prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga;
quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono
portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri,
dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma
quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren
Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate»,
scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’di
provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una
come te, Oriana, famosa e contestata, amata e odiata. Come te, sempre pronta a
cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin
Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il
presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984
nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista
anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’immagine del terrorista
che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il
miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina
l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in
nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo
palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo
ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa
essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella
borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica
che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere
costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa
ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di
migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie
che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai
per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più
conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli
operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il
riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il
terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a
volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune
del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a
fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i
terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i
cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa
dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come
è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
«Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un
dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo
striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo
«più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere.
Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto
da principi di legalità ed ispirato ad un po’più di moralità. La vastissima, composita
alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti
e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo
perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico
che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava
gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura
possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità
internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi
rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro,
sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della
Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle
mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per
questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza
per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi
esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad
assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare
qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere
in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a
Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo,
questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è
involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono
installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia,
prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era
più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si
attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in
Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È
così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito
all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza
del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi
piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una
tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A
tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto,
anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più
divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed
immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare
delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La
natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere
lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la
scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata,
finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente
e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai
davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e
sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di
tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai
da nessuna parte.