venerdì 4 dicembre 2015

Qatar e Turchia, gli amici-nemici dell'Occidente





Qatar e Turchia, gli amici-nemici dell'Occidente


Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste. “Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo”, spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. “In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi”. “La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid”, azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington. La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberamente della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di al-Baghdadi si è rifornito di armi e combattenti stranieri. Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandosi ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimento e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensionare al-Baghdadi bensì i curdi. “Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiamento veramente belligerante nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco”, conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo International. “Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllata lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine e’: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiaramente contrastanti.”. Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, “i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastare l’Isis sul campo”. E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativa. “L’Ypg è legato agli indipendisti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan, nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare un proto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettamente gli aneliti indipendistici dei curdi della Turchia”, osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: “A noi la loro strategia può sembrare paradossale, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidentali senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo”. Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimento del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì “di importanza critica” la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere “felice che continui a diventare sempre più stretta”. Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternative nel teatro mediorientale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar.


Per fortuna c'è l'impero del male!







Come ci hanno spiegato, i russi mentono sempre. Per fortuna! Pensate come dovremmo preoccuparci se, invece, i turchi aiutassero l'Isis, gli Usa aiutassero la Turchia che aiuta l'Isis, la Nato...

03/12/2015

di Fulvio Scaglione


Noi occidentali siamo proprio fortunati! Sappiamo che la Russia è l'impero del male e che, quindi, nulla dalla Russia può venire che non sia menzogna. Pensate che disastro, se non fosse così.

Se non fosse così, dovremmo pensare che la Turchia, un Paese a cui l'Unione Europea, per mano della signora Mogherini (appunto Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, dicesi sicurezza!) vorrebbe consegnare 3 miliardi per controllare i confini e impedire che i profughi siriani si riversino verso l'Europa, usa uno dei suoi confini, quello con la Siria, per fare affari con i jihadisti che mettono a ferro e fuoco la Siria, producendo appunto quei profughi. Un bellissimo sistema, quello turco, per guadagnare tre volte su un'unica tragedia: comprando petrolio e opere d'arte dall'Isis; vendendo all'Isis armi e altre attrezzature e facendo passare i foreign fightersche vanno a rinforzare le sue file; infine, obbligandoci a versare milioni se non vogliamo veder arrivare i profughi.

Certo, l'impero del male ha prodotto foto e testimonianze. E anche chi scrive, visitando il Kurdistan iracheno, non ha mancato di notare le centinaia e centinaia di autobotti che ogni giorno partono per la Turchia, cariche di petrolio ”clandestino”, quello che il Kurdistandovrebbe vendere attraverso il ministero del Petrolio di Baghdad e invece vende per conto proprio. Qualche tempo fa, inoltre, Hisham al-Brifkani, iracheno e presidente della commissione Energia della provincia di Ninive, aveva pubblicamente detto che le forniture di petrolio contrabbandato dall’ Isis in Turchia avevano raggiunto un massimo di 10 mila barili al giorno, per assestarsi poi sui 2 mila barili, anche se molti altri esperti parlavano di un potenziale da 250 mila barili al giorno.

Ma non importa, per fortuna l'ha detto l'impero del male e noi sappiamo che son tutte frottole. Il che ci tranquillizza a cascata. Perchè se la Turchia è amica dell'Isis, che cosa sono gli amici della Turchia? Barack Obama, per esempio. Il superdemocratico Nobel per la Pace che, quando la Turchia abbatte un aereo russo dice ”la Turchia ha diritto a difendere i suoi confini” come se la Turchia fosse stata attaccata, e quando i russi mostrano le foto dei traffici al confine ribatte ”la Turchia non c'entra”? Se non sapessimo che l'impero del male mente sempre, potremmo persino pensare che è Obama a mentire. E' Obama che spalleggia gli amici dei terroristi. E' Obama che finge di combattere l'Isis, lasciandogli invece aperte tutte le porte di rifornimento: quelle della Turchia, certo, ma anche quelle del Golfo Persico, le cui monarchie continuano imperterrite a distribuire quattrini e armi ai jihadisti.

Dovremmo persino pensare (ma qui siamo proprio al colmo) che i satelliti del Pentagono hanno qualche disfunzione. Se un aereo russo esplode sul Sinai, dopo un paio d'ora sanno dirti per filo e per segno che cos'è successo. Ma se lunghissime colonne di autobotti attraversano il deserto (o una non meno lunga colonna di mezzi e blindati carichi di miliziani solca per ore il deserto per raggiungere Palmira) non vedono nulla. Misteri della tecnologia.

Non è dunque una gran fortuna sapere che l'impero del male mente sempre? E che sospiro di sollievo sapere che in ogni caso, a tenerlo a bada, c'è la Nato. L'Alleanza militare che per due anni ha taciuto sui maneggi della Turchia, e sul transito di armi e foreign fightersverso la Siria, ma si è tanto tanto preoccupata dei bombardamenti russi sui ribelli. E che adesso, di fronte al generale smandrappamento dei suoi amici, e al ”liberi tutti” nell'intervento anti-Isis in Siria (Germania, Francia e Gran Bretagna perché l'opinione pubblica non sopporta più le ciance, la Cina in nome di vecchi alleanze), non sa far altro che organizzare qualche provocazione a base di aerei abbattuti, Governi ucraini all'attacco e inviti al Montenegro. 

Quindi che gran fortuna che l'impero del male menta sempre. Se no, sai quanto ci dovremmo preoccupare?

(Da Famiglia Cristiana)



martedì 1 dicembre 2015

SIRIA: MISSILE CONTRO IL GASDOTTO








di Manlio Dinucci

da il manifesto, 1 dicembre 2015

Il missile Aim-120 Amraam lanciato dall’F-16 turco (ambedue made in Usa) non era diretto solo al caccia russo impegnato in Siria contro l’Isis, ma a un obiettivo ben più importante: il Turkish Stream, il progettato gasdotto che porterebbe il gas russo in Turchia e, da qui, in Grecia e altri paesi della Ue.

Il Turkish Stream è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di Washington, del South Stream, il gasdotto che, aggirando l’Ucraina, avrebbe portato il gas russo fino a Tarvisio (Udine) e da qui nella Ue, con grandi benefici per l’Italia anche in termini di occupazione. Il progetto, varato dalla russa Gazprom e dall’italiana Eni e poi allargato alla tedesca Wintershall e alla francese Edf, era già in fase avanzata di realizzazione (la Saipem dell’Eni aveva già un contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione del gasdotto attraverso il Mar Nero) quando, dopo aver provocato la crisi ucraina, Washington lanciava quella che il New York Times definiva «una strategia aggressiva mirante a ridurre le forniture russe di gas all’Europa».

Sotto pressione Usa, la Bulgaria bloccava nel dicembre 2014 i lavori del South Stream affossando il progetto. Contemporaneamente però, nonostante Mosca e Ankara fossero in campi opposti riguardo a Siria e Isis, la Gazprom firmava un accordo preliminare con la compagnia turca Botas per la realizzazione di un duplice gasdotto Russia-Turchia attraverso il Mar Nero.

Il 19 giugno Mosca e Atene firmavano un accordo preliminare sull’estensione del Turkish Stream (con una spesa di 2 miliardi di dollari a carico della Russia) fino alla Grecia, per farne la porta d’ingresso del nuovo gasdotto nell’Unione europea. Il 22 luglio Obama telefonava a Erdogan, chiedendo che la Turchia si ritirasse dal progetto. Il 16 novembre Mosca e Ankara annunciavano, invece, prossimi colloqui governativi per varare il Turkish Stream, con una portata superiore a quella del maggiore gasdotto attraverso l’Ucraina. Otto giorni dopo, l’abbattimento del caccia russo provocava il blocco, se non la cancellazione, del progetto. Sicuramente a Washington hanno brindato al nuovo successo. La Turchia, che importa dalla Russia il 55% del gas e il 30% del petrolio, viene invece danneggiata dalle sanzioni russe e rischia di perdere il grosso business del Turkish Stream.

Chi allora in Turchia aveva interesse ad abbattere volutamente il caccia russo, sapendo quali sarebbero state le conseguenze? La frase di Erdogan — «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo, spero che una cosa del genere non accada più» — implica uno scenario più complesso di quello ufficiale. In Turchia ci sono importanti comandi, basi e radar Nato sotto comando Usa: l’ordine di abbattere il caccia russo è stato dato all’interno di tale quadro.

Qual è a questo punto la situazione nella «guerra dei gasdotti»? Usa e Nato controllano il territorio ucraino da cui passano i gasdotti Russia-Ue, ma la Russia può fare oggi meno affidamento su di essi (la quantità di gas che trasportano è calata dal 90% al 40% dell’export russo di gas verso l’Europa) grazie a due corridoi alternativi. Il Nord Stream che, a nord dell’Ucraina, porta il gas russo in Germania: la Gazprom ora lo vuole raddoppiare ma il progetto è avversato nella Ue dalla Polonia e altri governi dell’Est (legati più a Washington che a Bruxelles). Il Blue Stream, gestito alla pari da Gazprom ed Eni, che a sud passa dalla Turchia ed è per questo a rischio. La Ue potrebbe importare molto gas a basso prezzo dall’Iran, con un gasdotto già progettato attraverso Iraq e Siria, ma il progetto è bloccato (non a caso) dalla guerra scatenata in questi paesi dalla strategia Usa/Nato.