di VALERIO GIGANTE
(Scrittore e giornalista)
5 MARZO 2016 • N. 9 Adista
Si intitola Sionismo, il vero
nemico degli ebrei (Clarity
Press 2009, traduzione it.
edizioni Zambon, 2015), ma il
libro è stato scritto da chi certamente
non è tacciabile di essere
un “nemico” degli ebrei. L’autore
è infatti il giornalista britannico
Alan Hart, già corrispondente
capo di Independent Television
News, presentatore di BBC Panorama
e inviato di guerra, grande
conoscitore di Medio Oriente; un
giornalista che ha conosciuto
personalmente i maggiori protagonisti
del conflitto arabo-israeliano,
come Moshe Dayan, Shimon
Peres, re Faysal dell’Arabia
Saudita, Nasser, Anwar El Sadat,
George Habash, Yasser Arafat, re
Hussein di Giordania. È stato
inoltre amico sia del Primo ministro
israeliano Golda Meir (che
ha definito “madre Israele”) e del
leader dell’Olp Yasser Arafat (che
chiama “padre Palestina”), di cui
ha scritto una biografia, datata
1985 (Terrorism or Freedom Fighters:
Yasser Arafat and the PLO).
Il libro, appena pubblicato in
Italia, è il primo volume di una
trilogia che Hart ha dedicato al
tema del Sionismo, completata e
pubblicata in lingua inglese nel
2010. Il progetto è ambizioso,
perché Hart tenta di ricostruire
l’intricata vicenda che ha condotto
all’affermazione del sionismo
all’interno del mondo ebraico ed
all’esterno, come modello di una
nuova forma di nazionalismo.
Il giornalista spiega nel libro
che non vi è nessun rapporto
logico-consequenziale tra la
Shoah e la nascita dello Stato di
Israele (ma questo è un fatto che
la storiografia ha acquisito già da
decenni, nonostante stenti a radicarsi
nel senso comune e nella
pubblistica divulgativa) e che il
tema della creazione di uno Stato
degli ebrei dispersi in tutta Europa
precede cronologicamente
l’Olocausto e va retrodatato
almeno alla fine del XIX secolo.
Fatte – e doviziosamente documentate
– queste necessarie premesse,
Hart tenta quindi di spiegare
come i Paesi occidentali,
tutti in prevalenza di cultura
antisemita abbiano sostanzialmente
sostenuto il progetto di
creazione dello Stato di Israele e
come sia diventato un Paese strategico
nella ridefinizione della
mappa del Medio Oriente nel
secondo dopoguerra. Risultato
notevole, se si considera l’iniziale
opposizione di Inghilterra e Stati
Uniti, di tutti i Paesi arabi e la
diffidenza degli stessi ebrei americani
e dei Paesi occidentali, che
in maggioranza non erano sionisti
e non ambivano comunque a
trasferirsi in Israele. Insomma,
quanto avvenne tra il 1947 e il
1948 è assai lontano da un altro
luogo comune sfatato dal libro,
quello del “ritorno” in Palestina
di un popolo esule e disperso che
ricostituiva il suo Stato (ma nel
corso dei secoli la Palestina non
era stata affatto “abbandonata”, e
anche nei millenni in cui vi avevano
abitato, gli ebrei avevano
costituito una minoranza tra le
altre popolazioni presenti, costituendo
uno Stato solo per un
breve periodo, tra l’XI e il X secolo
a. C.).
Lo Stato di Israele è allora frutto,
secondo Hart, di un insieme
di concause. I Paesi europei scelsero
di ridimensionare l’influenza
ebraica all’interno dei propri
confini, rinunciarono alla sfida
posta dall’accettazione e dall’integrazione,
scaricando la contraddizione
sulla Palestina e le
popolazioni arabe, le cui élite
sarebbero state, da parte loro,
incapaci di cogliere il significato
dei massicci flussi migratori di
ebrei prima del 1948, pensando
forse al semplice ritorno di una
minoranza facilmente integrabile
all’interno del tessuto sociale
arabo-musulmano.
Hart è però anche fortemente
critico sul ruolo giocato nella
crisi dalla Lega Araba, della
quale sottolinea la sostanziale
subalternità alle logiche geopolitiche
occidentali. Giocò poi un
ruolo importante, secondo Hart,
anche la possibilità di spezzare –
attraverso il sionismo – la solidarietà
di classe che aveva portato
tanti ebrei russi a solidarizzare con la rivoluzione bolscevica: il
nazionalismo sionista in quanto
antidoto all’internazionalismo
comunista, che rischiava di “contagiare”
anche gli ebrei che vivevano
(o migravano) in Occidente.
Inoltre i britannici pensarono
che la necessità di proteggere il
Canale di Suez, di importanza
vitale ai fini del mantenimento
della “spina dorsale” dell’impero
britannico, fosse possibile solo a
condizione di favorire la presenza
di uno Stato ebraico nella
regione (ne conseguì la scelta
della Gran Bretagna di rilasciare
la Dichiarazione Balfour,
2/11/1917).
Una riflessione a parte merita
la vicenda dalla pubblicazione
del libro in Italia, caratterizzata
da un imbarazzato silenzio,
soprattutto dopo quanto avvenuto
in occasione della presentazione
ufficiale del libro, il 7 dicembre
2015. Quel giorno presso la
sede dell’Anpi di Roma, la sezione
Anpi “don Pappagallo” aveva
promosso un incontro cui dovevano
partecipare Giorgio Gomel
(Ebrei per la pace), Marco
Ramazzotti Stockel (rete Ebrei
contro l’Occupazione), Carlo
Tagliacozzo (studioso dello
Shoah), e Diego Siragusa (che
oltre ad aver tradotto il testo di
Hart in italiano ne ha scritto
anche la prefazione).
Contro l’iniziativa è intervenuta
però la Comunità ebraica di
Roma, che ha indotto l’Anpi
nazionale e l’Anpi di Roma a
chiedere alla sezione Anpi “don
Pappagallo” di ritirarsi dall’organizzazione
dell’evento, giustificando
la clamorosa marcia indietro
con il rifiuto a promuovere
«qualsiasi forma di razzismo ed
antisemitismo». Da allora il libro
ha ricevuto in Italia pochissime
segnalazioni e recensioni, e vive
in una sorta di limbo, ignorato
dalla stragrande maggioranza
degli organi di informazione, ma
al contrario piuttosto conosciuto
e commentato in rete.
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