venerdì 31 marzo 2017

PER RICORDARE INGRAO, UNA SUA POESIA DEDICATA A GAZA




PER I 100 ANI DI PIETRO INGRAO PUBBLICAI QUESTA POESIA  DEDICATA A GAZA. 
LA RIPROPONGO PER I MIEI LETTORI

di Pietro Ingrao


Guarda:
vedi come osti­nate
tor­nano dal cielo le bombe fio­renti, e furenti
calano sulle strade, spez­zano corpi,
ardono case, testarde inse­guono
gli stu­piti fan­ciulli,
gri­dano
can­tano l’inno alla morte
senza stan­carsi mai…
Chi siete,
per­ché illu­mi­nate le notti,
insan­gui­nate le vie:
per­ché siete in ansia
per­ché vi serve la strage degli inno­centi
e forse dispe­rate sull’esistere
tor­nare a can­tare la glo­ria
dell’uccidere di massa,
affi­date la pace alla morte… Voi
così senza spe­ranza
se sol­tanto
l’assassinio di massa può assi­cu­rarvi la vita
e solo le male­di­zioni e le lacrime
pos­sono difen­dervi.
E non vedete, non spe­rate
altra sal­vezza
per l’uomo e per il figlio dell’uomo
che la morte corale.
Voi che venite da un cam­mino di lagrime
e ora senza lume di tre­gua
semi­nate nuovo pianto inno­cente.
Da lon­tano
vi scru­tiamo impo­tenti:
e null’altro sap­piamo
che invo­care da voi l’elemosina della pace.
Noi che veniamo da lotte di secoli
con­dotte per tutte le terre infi­nite di que­sto globo rotondo
in cui dato a noi
fu di vivere,
e sem­briamo ora
solo capaci
di edu­carci all’indifferenza.
O scru­tare allibiti.


PIENI POTERI A MADURO: L'ATTACCO AL VENEZUELA E LA CONGIURA DELL'INFORMAZIONE


di Fabio Marcelli

fonte: Il Fatto Quotidiano

Ho visto recentemente un bel film della regista venezuelana Patricia Ortega, El regreso, che parla del massacro di una comunità di pescatori indigeni Wayù da parte di una banda di paramilitari colombiani e della fuga della bambina unica superstite che si rifugia a Maracaibo in Venezuela. Un film che parla dei mali atavici dell’America Latina: la violenza, la sopraffazione, la miseria. Mali atavici che vengono da lontano e sono dovuti principalmente alla dominazione di ristrette oligarchie in combutta con poteri stranieri che ricorrono anche ai servigi di bande criminali come quella in azione nel film.

Contro questi mali atavici si è prodotta nell’ultimo ventennio la reazione di numerosi popoli latinoamericani. E’ stato il Rinascimento latinoamericano contro i decenni bui delle dittature e del neoliberismo. Con tutti i suoi limiti, risultato in gran parte del retaggio negativo di secoli di dominazione coloniale e neocoloniale, il Venezuela bolivariano ha determinato l’emersione sulla scena politica e sociale del Paese di enormi settori di popolazione tradizionalmente condannati all’emarginazione e alla miseria. Assoggettato ormai da anni a un pesantissimo attacco che vede coinvolta la potenza imperiale statunitense, le oligarchie locali e buona parte della stampa internazionale, unite dal poco nobile obiettivo di porre fine a questa importante esperienza rivoluzionaria,  il Venezuela bolivariano ha messo a segno negli ultimi tempi alcuni successi significativi. Si tratta di risultati che riguardano le varie sfere in cui si sviluppa l’attacco dell’imperialismo e delle oligarchie a questa esperienza.

In primo luogo sul piano della restaurazione dell’ordine pubblico contro la criminalità. Va segnalato, da questo punto di vista, il successo dell’operazione Popa 2017 che ha visto l’intervento di 180 effettivi delle Forze armate venezuelane contro un accampamento di paramilitari colombiani. Ripristinare la legalità smantellando i gruppi armati che minacciano la pace interna del Paese appare di estrema importanza anche per garantire condizioni normali di approvvigionamento dei beni fondamentali e dei medicinali, oggi oggetto di speculazione da parte di gruppi a volte apertamente criminali. Neanche in questo settore può essere consentito il permanere di sacche di illegalità e speculazione che si traducono in difficoltà e disagi gravi per vari settori sociali. La risposta consiste anche e soprattutto nell’allestimento dei Comitati locali di approvvigionamento e produzione (Clap), che registrano significativi progressi con grande scorno dei sostenitori della guerra economica.

I risultati positivi raggiunti dal Venezuela bolivariano sul piano dei diritti sociali sono stati accertati con l’attribuzione da parte del Programma delle Nazioni unite per lo Sviluppo (Pnud) di un punteggio estremamente lusinghiero, superiore a quello di vari, altri e importanti Paesi latinoamericani.

Risulta nuovamente sconfitto, inoltre, il tentativo di utilizzare l’Organizzazione degli Stati Americani, l’obsoleta istituzione internazionale oggi sostituita per moltissimi aspetti da Unasur e Celac, come più funzionali ed effettive sedi di cooperazione regionale, per avallare un’inaccettabile ingerenza negli affari interni del Venezuela.

Stretto tra l’aggressione esterna, marcata anni fa dall’incredibile e illegittima decisione statunitense di dichiarare il governo venezuelano “un pericolo” per la propria sicurezza nazionale, le difficoltà di liquidare un passato storico difficile fatto di corruzione, criminalità, inefficienza e dipendenza dalla rendita petrolifera, e l’egoismo di oligarchie inferocite per la perdita di privilegi e commercianti speculatori, il governo di Nicolas Maduro resiste e mette a segno taluni successi significativi, anche se certamente c’è ancora molto da fare. Tale resistenza è oggi punto di riferimento fondamentale per l’intera America Latina, vittima di un tentativo di restaurazione dei poteri tradizionali, e tutte le forze che nel pianeta si oppongono al disastro del neoliberismo.

La decisione del Tribunale supremo di affidare a Maduro pieni poteri va letta anch’essa nella chiave di questa lotta tra istanze contrapposte, nella prospettiva di garantire la continuità e l’approfondimento di irrinunciabili conquiste sociali e politiche. Su di essa mi riprometto di intervenire nuovamente a breve.

Riflettano quelli che, sghignazzando come iene appollaiate sulle spalle del potere, sono sempre disposti a farsi eco delle fake news diffuse da un sistema informativo che vede come fumo negli occhi il tentativo generoso di questo Paese di liberarsi finalmente, a caro prezzo e con molte difficoltà, dalle catene del passato coloniale e neocoloniale.

giovedì 30 marzo 2017

"ORDINE PUBBLICO": MINISTRO MINNITI, A QUANDO I CARRI ARMATI IN PIAZZA?



UNIONE SINDACALE DI BASE: 
questo ormai é stato di polizia


Oggi in occasione dello sciopero dei precari della pubblica amministrazione indetto da Usb si sta svolgendo un presidio presso Palazzo Vidoni in attesa dell'incontro che si terrà con il ministero della funzione pubblica. 
Molti pullman che portavano manifestanti a Roma sono stati fermati dalla polizia. Riconosciuti e fotografate le lavoratrici ed i lavoratori quasi fossero pericolosi delinquenti. 
Intanto centinaia di carabinieri e agenti di polizia con caschi e scudi e tanti blindati hanno di fatto accerchiato i manifestanti a Palazzo Vidoni.

Fatti assolutamente inaccettabili e fuori da ogni logica democratica che ricordano altri decenni e anche altri "ventenni".
Ridurre le vertenze sindacali, gli scioperi e le manifestazioni a problemi di ordine pubblico dimostra da una parte l'assoluta mancanza di volontà politica di affrontare i problemi sociali e dall'altra una sempre più marcata caratterizzazione autoritaria di questo governo e della gestione del paese.
Dopo i fatti del 25 marzo dove la pacifica manifestazione di Eurostop é stata preceduta da una campagna "terroristica" di istituzioni e mezzi di informazione quasi si prevedesse e auspicasse la calata dei barbari a Roma e con le "forze dell'ordine" che hanno fermato manifestanti arbitrariamente, hanno circondato minacciosamente tutto il percorso previsto ed hanno alla fine spezzato il corteo con un intervento del tutto immotivato sperando in una reazione che non c'è stata, oggi il Ministro Minniti ha evidentemente dato l'ordine di un ulteriore forte restringimento delle libertà democratiche.
Lo fa questa volta contro lavoratori che manifestano e proprio contro i precari, cioè i lavoratori più deboli e meno tutelati.

Tutto ciò è inaccettabile. Chiediamo a tutte le forze politiche e parlamentari di prendere parola contro tale assurdo ricorso alla repressione.
L'attuale governo ed il Ministro Minniti non possono nascondere la loro estrema debolezza politica dietro la repressione poliziesca e la forte  ventata di autoritarismo che sta investendo l'intero paese.

I problemi politici e sociali si affrontano con strumenti politici e sociali e non con blindati e manganello.
Che qualcuno in Parlamento fermi il Ministro Minniti prima che in occasione della prossima manifestazione sindacale ci faccia trovare i carri armati in piazza.

Roma 30 marzo 2017


Unione Sindacale di Base
Via dell'Aeroporto, 129 - 00175 Roma - tel. 06/762821, fax 06/7628233  - web: www.usb.it  e-mail: usb@usb.it

Intervista a Michel Warshawski: in Israele si sta verificando più che una regressione, c'è un passaggio da un regime a un altro.




Lo Stato di Israele sta diventando un'altra cosa

Redazione Megachip

giovedì 30 marzo 2017 


(a cura) di Alessandra Mecozzi 

Abbiamo incontrato Michel Warshawski, giornalista, scrittore e attivista israeliano, nato a Strasburgo nel 1949 da madre francese e padre polacco immigrato e residente a Gerusalemme, in occasione del seminario "È tempo di giustizia in Palestina. Le responsabilità dell'Europa". L'Università La Sapienza di Roma ha negato la sera prima l'aula designata per ospitare l'incontro, Warshawski, co-fondatore dell'Alternative Information Center (Gerusalemme ovest - Beit Sahour), ne era uno dei relatori più autorevoli. Abbiamo approfittato del suo viaggio a Roma per porgli alcune domande sulla nuova profonda svolta antidemocratica che sta investendo il suo paese. [Alesssandra Mecozzi | Comune-info]

***
Come sei arrivato a impegnarti nella lotta contro l'occupazione israeliana? E' stato il frutto dell'educazione familiare?

Mio padre, rabbino, è diventato una personalità, ma ha dovuto lottare per farsi accettare socialmente. Io non capivo granché, ma da piccolo a scuola mi chiamavano dispregiativamente "polaque" (non polonais). Faccio parte della prima generazione nata dopo la guerra, sono cresciuto con l'onnipresenza dei discorsi e dei ricordi sulla "occupazione" nazista. A 17 anni sono andato nei territori palestinesi, accompagnavo mio padre che portava pellegrini ebrei a visitare i luoghi santi. Mi sono trovato di fronte alla occupazione israeliana senza sapere proprio niente di conflitto arabo-israeliano, della guerra del 1967.ma è lì che ho capito. Nel momento in cui, parlando con un commerciante palestinese, ho visto nei suoi occhi la paura, la paura di un ragazzo israeliano: e di nuovo è risuonata la parola "occupazione". Ma questa volta noi non eravamo gli occupati, ma gli occupanti. Quella parola, occupazione, evocava nella mia testa storie di violenza, di brutalità, di miseria, ho capito che mi riguardava in prima persona e che dovevo battermi contro di essa, ma dovevo farlo mantenendo sempre aperto e vivo il rapporto tra Israeliani e Palestinesi. Per questo, insieme ad altri, fondammo l'Alternative Information Center, che è l'unica organizzazione "bilaterale" che ha resistito a resiste a tutte le crisi. Siamo riusciti a farne una sola organizzazione, non una partnership tra due diverse. Quelle che hanno scelto la separazione ad ogni crisi si sono fermate, ognuno si è rinchiuso nel suo cerchio. Perfino Neve Shalom che esiste da moltissimi anni...

A che cosa attribuisci questa resistenza?

Per quanto mi riguarda, sono certo che derivi dalla mia formazione internazionalista, per la quale ritengo che ci siano valori che trascendono le diversità di paese, di religione, di etnia... Per molti anni il lavoro, la lotta in comune tra Israeliani e Palestinesi, è stato forte... Oggi purtroppo le cose sono cambiate, ed è diventato molto più difficile. Israele ha costruito un muro di cemento, che si è alzato anche nelle teste di tantissimi attivisti/e. Ci tengo a dire che io parlo sempre di occupazione coloniale e che tutto il dibattito sull'indipendenza ci porta alla questione del controllo dei confini. Fin da Ben Gurion nella cultura israeliana non ci sono confini. Il termine anglosassone, americano, fronteer indica uno spazio libero da occupare, quello di border indica invece un limite che non va oltrepassato! Dal 1967, con l'occupazione conseguente di territori, il concetto "colonizzazione" è entrato nel discorso politico. Anche l'impatto psicologico è stato forte; si è realizzato nel 1977, quando è avanzata la destra nazionalista, la religione ha preso maggior peso, e i giovani a quel momento sono diventati l'avanguardia dei coloni...

Oggi, e ancor più dopo l'elezione di Trump, sembra che la situazione non permetta più di parlare di "due popoli, due Stati". Molti dicono che la situazione sul campo è irreversibile. Sei d'accordo?

Assolutamente no. Questo concetto di irreversibilità già negli anni '70 lo esprimeva Meron Benvenisti (vice sindaco di Gerusalemme) dicendo che il processo di colonizzazione/annessione era un fatto irreversibile e dunque non fattibili i due Stati. Ma non ero e non sono d'accordo. Non c'è niente di irreversibile... tranne se c'è un genocidio!

In Europa, e ancor più in Italia, stiamo assistendo ad una azione repressiva ed escludente rispetto a iniziative che vogliano promuovere informazione sulla Palestina e la cultura palestinese. L'ultimo caso è quello dentro cui anche tu ti sei trovato, con il divieto dell' Università la Sapienza di fare il seminario a cui sei stato invitato all'interno dell'università. Il divieto è stato espresso su richiesta esterna di un Osservatorio sulle discriminazioni, Solomon, legato alla Comunità ebraica. A tuo avviso questa "stretta" corrisponde ad una stretta anche nella politica interna di Israele?

Sì, in Israele si sta verificando più che una regressione, c'è un passaggio da un regime a un altro. Lo Stato di Israele sta diventando un'altra cosa. Lo stesso Adam Burg, già presidente di Israele, parla di fascismo. La dimensione democratica viene rimessa in discussione. Si parlava di Stato ebraico democratico: adesso il ministro dell'Istruzione, Naftali Bennett, dice apertamente che la parte importante di questa definizione è l'"ebraico", non il democratico. E questo viene realizzato attraverso una serie di nuove leggi discriminatorie nei confronti dei Palestinesi in Israele. Per esempio quella detta della regolarizzazione che permette di espropriare un proprietario palestinese e passare la sua terra a uno ebreo. Prima per gli espropri si adducevano ragioni di sicurezza, per la località in cui era situata la terra, per esempio su una certa collina... Con questa legge lo si può fare senza alcuna motivazione. È importante notare che la Corte Suprema ancora non si è dichiarata, è stato espresso qualche dubbio di incostituzionalità, ma il ministro della giustizia ha già dichiarato che se la Corte Suprema si immischia nella questione verrà fatto un articolo speciale che proibisce alla Corte di esprimersi sulle decisioni del governo.

Ma come può avvenire una cosa del genere?

È semplice, il governo dice: noi siamo la maggioranza, quindi esprimiamo la volontà popolare. Una volontà assoluta, che non può essere contraddetta dalla Corte Suprema. Insomma, c'è una dittatura della maggioranza. Il cambiamento è profondo e viene operato passo dopo passo. Adesso ci sono due argini: la Corte Suprema e certi organi di informazione, dove ci sono buoni giornalisti, articoli critici, reportage. Netanyahou e la ministra della giustizia hanno deciso di rompere entrambi gli argini. Il governo sta distribuendo gratuitamente per strada un suo giornale e ha espresso l'intenzione di far votare una legge per limitare il potere dei mezzi di informazione. D'altro canto, la ministra della giustizia ha già fatto un passo verso la modifica della Corte Suprema, rimpiazzando con propri nominati nella commissione che ne sceglie i giudici, man mano che vanno in pensione i suoi componenti, quelli considerati dell'"attivismo giuridico", che può cioè intervenire sulla natura della legge. Se la Corte Suprema perde questa prerogativa, diventa una semplice corte d'appello, senza alcun potere.
Sulla informazione non siamo ancora alla censura, ma le ultime leggi rafforzano il "discorso unico". Al fondo c'è il concetto di "fedeltà allo Stato". Ad esempio i deputati della Knesset dovranno esprimere fedeltà allo Stato di Israele come Stato del popolo ebreo. Intanto, la ministra della cultura ha dichiarato che non darà più fondi a chi non dimostra fedeltà allo Stato: il Teatro Nazionale si è visto tagliare i fondi perché ha presentato una pièce teatrale scritta in carcere da un ex prigioniero politico palestinese. L'argomento a sostegno di tale scelta è che il bene pubblico va gestito dalla maggioranza eletta, cioè dal governo. Ora la ministra della cultura è piuttosto incolta, ma è significativo che sia stata il generale dell'esercito che operava la censura militare su tutta l'informazione pubblica civile, una censura motivata da questioni securitarie. Questa censura era scomparsa negli anni '80.

E sul caso dell'Università di Roma in particolare, tenendo conto che non è il primo, cosa ti senti di dire?

Immagino che non sarà neanche l'ultimo. Ricordo che in Francia, nel 2002, Sharon incontrò Cukiermann, presidente del CRIF, Consiglio dei rappresentanti della comunità ebraica in Francia, e disse esplicitamente che bisognava organizzare una controffensiva all'estero utilizzando "l'antisemitismo". Venne lanciata una campagna di demonizzazione di giornalisti e politici accusati di essere antisemiti. Poi ci fu un po' di calma. Ma dal 2008, da quando la campagna BDS ha cominciato a mostrare efficacia, dal punto di vista dell'immagine più che economicamente, in Israele si è aperta una nuova fase. In partnership con il ministro degli affari esteri, Lieberman, è stata messa in piedi una task force per una "strategia difensiva di attacco"! Una strategia basata su propaganda e repressione contro chi critica questo Israele. E' rivolta contro tutti coloro che chiedono qualche forma di sanzione, non solo la campagna BDS. La novità è che da un anno si è costituito un dipartimento con ampio budget statale che, attraverso una task force, è incaricato di tenere sott'occhio e prendere di mira Stati e istituzioni pubbliche, una vera e propria strategia del governo. Quanto è successo a Roma rientra in questa politica e di solito, penso al caso francese, c'è un collegamento con l'ambasciata israeliana del paese interessato.


(29 marzo 2017)


Link articolo © Alessandra Mecozzi © Comune-info.

Infografica © L'immagine potrebbe essere soggetta a copyright.

martedì 28 marzo 2017

UN MILIONE DI YEMENITI NON SONO UNA NOTIZIA, MA NAVALNY SI'...


di Massimo Ragnedda


Lo so che la manifestazione yemenita della scorsa settimana, alla quale hanno partecipato 1 milione di persone per chiedere lo stop ai bombardamenti dell’Arabia Saudita, non è altrettanto importante, per i media occidentali, della manifestazione non autorizzata a Mosca, guidata dal Alexey Navalny. Lo so che non è importante per i media occidentali, ma quel milione di persone voleva ricordarci che da due anni, ininterrottamente, le bombe saudite (prodotte anche in Sardegna) vengono sganciate sullo Yemen. Quella guerra ha, secondo l’Onu, causato 7.700 morti, 42.500 feriti e più di tre milioni di sfollati. Lo Yemen, giova ricordarlo, è il più povero della penisola arabica ed è minacciato da “un grave rischio di carestia”. Circa 432mila bambini soffrono di malnutrizione grave e 7,3 milioni di yemeniti hanno bisogno di aiuto alimentare. 
Lo so che questa guerra sostenuta dagli Stati Uniti (che a breve entreranno direttamente nel conflitto per continuare la mattanza di civili yemeniti) non è importante come la manifestazione capeggiata da Alexey Navalny “fellow” della Yale University e membro del «Greenberg World Fellows Program» (centro studi statunitense per la formazione di leader mondiali), ma un posto in prima pagina avrebbero meritato anche quel milione di persone che manifesta contro la guerra e la carestia e non solo la manifestazione in Russia. In questa guerra, non dovremmo dimenticarlo, i sauditi sganciano bombe a grappolo (in violazione del diritto internazionale) contro scuole e ospedali. Lo so che 3 milioni di sfollati, migliaia di morti, scuole e ospedali distrutti non vale come una manifestazione colorata a Mosca, ma sarebbe stato utile, ai fini di una corretta informazione, mostrare anche le immagini di quel milione di yemeniti che, nel secondo anniversario della guerra scatenata dall’Arabia Saudita, chiedono lo stop ai bombardamenti sauditi e all'indifferenza dei governi occidentali.

IL SOVVERSIVO NAVALNY E LA VISPA TERESA MOGHERINI


di Manlio Dinucci


il manifesto, 28 marzo 2017

Un poliziotto sfonda la porta di casa con un ariete portatile, l’altro entra con la pistola spianata e crivella di colpi l’uomo che, svegliato di soprassalto, ha afferrato una mazza da baseball, mentre altri poliziotti puntano le pistole contro un bambino con le mani alzate: scene di ordinaria violenza «legale» negli Stati uniti, documentate una settimana fa con immagini video dal New York Times, che parla di «scia di sangue» provocata da queste «perquisizioni» effettuate da ex militari reclutati nella polizia, con le stesse tecniche dei rastrellamenti in Afghanistan o Iraq.

Tutto questo non ce lo fanno vedere i nostri grandi media, gli stessi che mettono in prima pagina la polizia russa che arresta Alexey Navalni a Mosca per manifestazione non autorizzata. Un «affronto ai valori democratici fondamentali», lo definisce il Dipartimento di stato Usa che richiede fermamente il suo immediato rilascio e quello di altri fermati. Anche Federica Mogherini, alto rappresentante della politica estera della Ue, condanna il governo russo perché «impedisce l'esercizio delle libertà fondamentali di espressione, associazione e assemblea pacifica».

Tutti uniti, dunque, nella nuova campagna lanciata contro la Russia con i toni tipici della guerra fredda, a sostegno del nuovo paladino dei «valori democratici».

Chi è Alexey Navalny? Come si legge nel suo profilo ufficiale, è stato formato all’università statunitense di Yale quale «fellow» (membro selezionato) del «Greenberg World Fellows Program», un programma creato nel 2002 per il quale vengono selezionati ogni anno su scala mondiale appena 16 persone con carattertstiche tali da farne dei «leader globali». Essi fanno parte di una rete di «leader impegnati globalmente per rendere il mondo un posto migliore», composta attualmente da 291 fellows di 87 paesi, l’uno in contatto con l’altro e tutti collegati al centro statunitense di Yale.

Navalny è allo stesso tempo co-fondatore del movimento «Alternativa democratica», uno dei beneficiari della National Endowment for Democracy (Ned), potente «fondazione privata non-profit» statunitense che con fondi forniti anche dal Congresso finanzia, apertamente o sottobanco, migliaia di organizzazioni non-governative in oltre 90 paesi per «far avanzare la democrazia».

La Ned, una delle succursali della Cia per le operazioni coperte, è stata ed è particolarmente attiva in Ucraina. Qui ha sostenuto (secondo quanto scrive) «la Rivoluzione di Maidan che ha abbattutto un governo corrotto che impediva la democrazia». Col risultato che, con il putsch di Piazza Maidan, è stato insediato a Kiev un governo ancora più corrotto, il cui carattere democratico è rappresentato dai neonazisti che vi occupano posizioni chiave.

In Russia, dove sono state proibite le attività delle «organizzazioni non-governative indesiderabili», la Ned non ha per questo cessato la sua campagna contro il governo di Mosca, accusato di condurre una politica estera aggressiva per sottopporre alla sua sfera d’influenza tutti gli stati un tempo facenti parte dell’Urss. Accusa che serve da base alla strategia Usa/Nato contro la Russia.

La tecnica, ormai consolidata, è quella delle «rivoluzioni arancioni»: far leva su casi veri o inventati di corruzione e su altre cause di malcontento per fomentare una ribellione anti-governativa, così da indebolire lo Stato dall’interno mentre dall’esterno cresce su di esso la pressione militare, politica ed economica.

In tale quadro si inserisce l’attività di Alexey Navalny, specializzatosi a Yale quale avvocato difensore dei deboli di fronte ai soprusi dei potenti.

IL LEONE MORENTE E LA PREGHIERA DELLE MADRI





Lettera aperta all’Anpi Nazionale.


Torino 27 marzo 2017
A Torino all’incrocio tra via Appio Claudio e corso Svizzera troviamo  il Sacrario del Martinetto, poligono di tiro che dopo l’8 settembre 1943   fu scelto dalla Repubblica Sociale Italiana come luogo per le esecuzioni delle condanne a morte. Oltre 60 tra partigiani e resistenti vi furono fucilati.
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Poco distante su Corso Lecce c’è la lapide che ricorda Vera e Libera Arduino. La notte dell’11 Marzo del 1945 Vera fu catturata insieme alla sorella  Libera e al padre nella sua abitazione di Via Moncrivello 1 (Barriera di Milano), da fascisti che per entrare in casa si erano finti partigiani.  Il padre Gaspare fu fucilato la sera stessa in Corso Belgio, Vera e Libera, trattenute per due giorni assieme a Rosa Ghizzone, sono trucidate la notte fra il 12 e il 13 Marzo del 1945 sulla sponda del Canale Pellerina a Torino.  [1]
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Poco più avanti, in via San Donato, di fronte al numero civico 11, una lapide ricorda il sacrificio di Luciano Domenico, staffetta partigiana assassinato a 11 anni.
Il 23 febbraio 1945 si trovava, con un gruppo di partigiani, in un cascinale nelle campagne di Givoletto, quando l’edificio fu circondato dai repubblichini. Alle prime luci del giorno ebbe luogo un lungo conflitto a fuoco al termine del quale si decise di far uscire il ragazzo con un pezzo di stoffa bianco in segno di resa. Il ragazzo, allora, si tolte la maglietta bianca per sventolarla, fu raggiunto da una raffica di mitra e ucciso. [2]
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Proseguendo su via San Donato più avanti sulla destra troviamo il nuovo stabilimento della Fratelli Fiorio, conceria di pelli di capra e montone, l’azienda, grazie al suo proprietario, l’ingegner Sandro Fiorio, costituì durante la Resistenza uno dei centri più importanti dell’attività clandestina, sia come luogo di riunione che per la stampa del giornale La Riscossa Italiana. Qui vennero nascosti i fondi per il finanziamento della lotta partigiana. La lapide su via S. Donato, posta il 25 aprile del 1946 dal C.L.N. del Piemonte, ricorda questi fatti. [3]

Il Programma.

In questo stesso quartiere in Via Bianzè 28/A c’è  la sezione ANPI  “Martiri del Martinetto”. E’ proprio  questa sezione che sabato 25 Marzo 2017  ha  festeggiato l’8 marzo spostandosi nella vicina sede dell’EcoMuseo. Un programma ricco di iniziative tra le tante anche la proiezione del video “La preghiera delle madri”, la marcia della speranza di donne ebree e arabe unite in una manifestazione che si concluse nell’ottobre del 2016 sotto l’abitazione del falco israeliano Netanyahu.
A  un evento così raro sulla Palestina in una sede Anpi, organizzata  direttamente da una sede storica di Torino, non possiamo mancare.
Essendo il video da noi tradotto (Invictapalestina) e sottotitolato dopo una serie di accordi con la cantante YAEL che  ci ha autorizzati  a creare una versione italiana del video originale,  la prima cosa che abbiamo fatto, ricevuto l’invito via mail, è stata quella di comunicare all’ANPI  la presenza in rete della versione italiana fornendo relativo link del video:
a: anpimartinettotorino@gmail.com

Qualche mese fa in accordo con YAEL abbiamo sottotitolato il suo video e resa pubblica su YOUTUBE   la versione in italiano.

https://www.youtube.com/watch?v=7wUtCw67zwE

Fa piacere che sia proiettato pubblicamente con riferimento alla lotta delle donne per la pace ottenibile con la fine dell’occupazione israeliana della Palestina.

Cordialmente



Volantino 25 Marzo 2017
Locandina dell’evento distribuita nel quartiere.

Il Cinismo.

Puntuale, come previsto nel manifesto, alle ore 17,30 inizia  la serata con la proiezione del primo video con le memorie della partigiana Marisa Ombra, segue l’intervento di Marilla Boccassino delle “Donne in Centro”.
In sala ci sono solo una decina di persone anziane e un paio di ragazzi trentenni, qualcuno annoiato dalla retorica commemorativa e/o da un intervento lungo e noioso è già andato via.
Finalmente un’attivista dell’ANPI presenta il video sulla marcia delle donne in Palestina anticipando la traduzione.
Il video dice: Non svalutare nessuno, Salva ogni persona nel tuo cuore, perché un giorno potresti ricordare e percepire che hai perso un diamante quando eri troppo occupato a raccogliere pietre, spedisci questo abbraccio a tutti quelli che non vuoi perdere conservandoli per sempre in cuor tuo... [4]
La traduzione letta dall’attivista  è completamente inventata, come dire a “sti quattro rimbambiti  possiamo raccontare  qualsiasi cosa, aspettano solo  tarallucci e  vino”.
E’ stata questa una mancanza cinica di rispetto verso i presenti ma la cosa ancor più grave è stata la presunzione di poter fare/dire qualsiasi cosa impunemente molto probabilmente in una prassi consolidata nel tempo.
Cercando su internet potete scoprire la traduzione tra le migliaia di aforismi che la “gente di Facebook” copia e incolla sulle proprie home.
aforisma
In questo quartiere della città Medaglia d’Oro della Resistenza è rimasta questa pochezza: un aforisma anonimo rubato al web contrabbandato come traduzione del video, una banalità che offende le donne più che ricordare le lotte dell’Otto Marzo.
Chiaramente nessun accenno alla situazione palestinese, né alle lotte delle donne ebree/arabe unite in una lotta congiunta (nel video) per la fine dell’occupazione israeliana.
Non sono state tradotte neanche le parole del premio Nobel Leymah Gbowee presente nel video. Assente qualsiasi riferimento alle nuove forme resistenze che potrebbero dare vitalità e continuità alla lotta partigiana, niente di più cinico che lasciare incomprese le sue parole!
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Colgo l'occasione per congratularmi con le donne di Women Wage Peace.
 Vi voglio ringraziare per esservi schierate dalla parte della pace a fianco delle sorelle palestinesi.  Vi voglio ringraziare e farvi sapere che nel mondo in cui viviamo la pace è possibile solo quando le donne - donne di integrità e di fede - si mobilitano per il futuro dei propri figli. Congratulazioni!
 Mi auguro che continuiate a battervi per la pace in modo costruttivo e aspetto con impazienza il giorno in cui verrò per unirmi a voi.

Grazie in nome dei bambini di Israele

Grazie in nome dei bambini della Palestina

Grazie!  Pace!
Questo fatto pesa sull’ANPI come un macigno, non è neanche un caso isolato, altri compagni raccontano episodi anche più gravi e soprattutto legati a un potere politico forte e funzionale dei partiti che sfruttano il bacino elettorale per le proprie correnti politiche, lo stesso presidente sembra sia stato candidato in una lista di sostegno al sindaco uscente Fassino.
Chiaramente è ingenuo chiedersi perché il presidente non ha programmato la proiezione del video sottotitolato in italiano ma ha mandato in onda il video in ebraico/arabo incomprensibile per i presenti,  oppure perché  ha lasciato ingannare gli anziani  con le banalità dell’aforisma. D’altra parte la Palestina spesso è usata nelle programmazioni “Equidistanti” solo per dimostrare imparzialità, la lotta di Resistenza del popolo palestinese per porre fine alla più lunga occupazione coloniale della storia moderna non ha mai turbato il sonno dei suoi dirigenti, neanche quelli nazionali che nella  pubblicazione conclusiva dell’ultimo congresso su 100 pagine si sono limitati a riportare la frase diventata ormai storica:
[ Il quadro mondiale...] oltre alla nota situazione della Palestina, di cui si parla meno, ma è lì, ancora grave come un macigno. [5]
Non è per questo che sono morti i nostri partigiani, non è questo che animava Domenico la staffetta di 11 anni che nascondeva i messaggi nella cartella di scuola, non è a questa miserabile strumentalizzazione  che pensava Sandro Fiorio quando stampava La Riscossa Italiana.  
Qualcuno dirà “questo è l’Anpi”, un muro di gomma impenetrabile, resistente a qualsiasi proposta/cambiamento, un leone in agonia che si cura con i ricordi e la retorica. Si organizzano decine di eventi si scambiano corone di fiori e targhe e il Leone è trascinato dappertutto solo per dare dignità agli eventi, poi è nuovamente lasciato in agonia in mezzo alle bandiere accartocciate in attesa della prossima parata.
L’ANPI è un’associazione con oltre 110.000 iscritti che dovrebbe dare risposte concrete a queste denunce piuttosto che subire  pressioni  e censurare quei piccoli sprazzi  culturali che spesso vengono proposti dai giovani in solidarietà con le nuove forme di  Resistenza.

Gramsci

Chi dovrebbe interpretare meglio queste parole se non l’ANPI?
"Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Questa lettera/articolo sarà spedito a tutte le sezioni ANPI e direttamente all’ANPI Nazionale attraverso il direttore della rivista “Patria Indipendente”, come in altre occasioni non ci aspettiamo nulla, nessuna decisione  importante, nessun cambiamento di rotta, sappiamo fin troppo bene che nel nostro sistema associativo/politico un mazzo di tessere in mano conta più dell’orgoglio partigiano, però non disperiamo, continuiamo a credere che un altro ANPI sia possibile!
Intanto pensando a VERA e LIBERA Arduino, riproponiamo il video della marcia delle Madri con la speranze che le nuove forme di fascismo siano contrastate a partire dalla cultura, dal rispetto e dallo stesso coraggio che ha animato la RESISTENZA. La traduzione è stata fatta da una amica ebrea e da un intellettuale arabo per farci apprezzare la potenza della poesia (segue a parte anche  il testo).

La Preghiera delle Madri

Un fruscio di brezza di mare

arriva da lontano

e il bucato sventola

all’ombra del muro.

Tra la terra e il cielo

c’è tanta gente

che vive insieme.

Non temete di sognare

la pace e la sicurezza.

Quando si scioglieranno i muri della paura

e sarò tornata dal mio esilio?

Allora si apriranno le mie porte

al bene vero e proprio.

Una nuova alba // su dormi!

è giunto il mattino. // Ti do il piccione

pregando, // vattene piccione!

una madre manda // Non credere!

il figlio a scuola

E’ per far dormire il bambino!

e sullo sfondo – il suono della guerra.

Basta paura // i muri della paura

ricominciamo da capo // si scioglieranno

e io tornerò dal mio esilio

apriamo le porte // le mie porte si apriranno

al bene vero e proprio.

Da nord a sud

da ovest a est

ascoltate la preghiera delle madri

portategli la pace

portategli la pace.

Da nord

a sud

da ovest

verso est

ascoltate la preghiera delle madri

per la pace.

Vogliamo la pace.

La luce sale dall’oriente

di fronte alla preghiera delle madri

per la pace.

[1] http://www.museotorino.it/view/s/f76a9a8d93fb4b77896e8bf26bc11269
[2] http://www.museotorino.it/view/s/bf22267f5af245438c2ca7708c685cdc
[3]-http://www.comune.torino.it/circ4/eut/luoghi4fiorio.html
[4] http://blog.libero.it/XDONO/commenti.php?msgid=9062763
[5] Atti del 16 congresso ANPI: http://www.anpi.it/media/uploads/files/2017/02/Documenti_16esimo_Congresso_Nazionale_ANPI.pdf

 

venerdì 24 marzo 2017

Il Controllo della Narrativa sulla Siria



24/3/2017


Investig’Action : In questo saggio Louis ALLDAY analizza la narrativa mainstream sulla Siria e i suoi vettori principali : il mito del non-intervento occidentale, l’occultamento di verità scomode sull’opposizione, l‘intimidazione di quelli che mettono in discussione la narrazione e la presentazione dei propagandisti come esperti neutrali.

Dal 2011 il flusso di analisi mal informate, inaccurate e spesso del tutto disoneste sugli eventi in Siria è stato inarrestabile. Ho già scritto sui pericoli dell’utilizzo di spiegazioni sempliciste per comprendere il conflitto, un problema che è emerso ripetutamente negli ultimi cinque anni. Tuttavia c’è un problema più grande. Il discorso mainstream sulla Siria è diventato così tossico, distaccato dalla realtà e privo di sfumature che chiunque abbia il coraggio anche solo di mettere in discussione l’impostazione della narrazione della ‘rivoluzione’ in corso, o si oppone agli argomenti di quelli che supportano l’imposizione di una no-fly zone da parte dell’Occidente, può aspettarsi una rapida punizione. Questi dissidenti sono immediatamente attaccati, spesso calunniati come ‘Assadisti’ o ‘Pro-Assad’ e accusati di mostrare una crudele indifferenza verso le sofferenze dei siriani. Una delle tante verità che si sono perse in questo discorso è che l’imposizione di una no-fly zone significherebbe, per usare le parole del più alto generale delle Forze Armate statunitensi, che gli Stati Uniti vanno in guerra “contro la Siria e la Russia”. Voglio essere chiaro dall’inizio che scrivo questo avendo vissuto in Siria e che porto nel cuore i ricordi di quel periodo. Sono in contatto con tanti amici siriani, molti dei quali ora sono rifugiati fuori dal loro paese. Quindi è particolarmente difficile per me ingoiare le accuse di insensibilità verso le sofferenze dei siriani e del loro paese. Nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà.
Nel contesto attuale anche esprimere un’opinione timidamente dissenziente, far notare fatti basici ma sgraditi come la presenza di un supporto popolare significativo per il governo siriano, o evidenziare gli atti spesso brutali dei gruppi ribelli, per molti ha avuto come conseguenza l’essere ridicolizzati e attaccati sui social media. Raramente o quasi mai questi attacchi  sono critiche ragionate tra visioni opposte; al contrario, sprofondano regolarmente in insulti personali spesso isterici e accuse al vetriolo senza fondamenti. Di solito viene usato un gruppo di argomenti chiave per denunciare quelli che mettono in discussione la narrazione dominante : tra questi l’argomento che sia in qualche modo islamofobico criticare le azioni dei gruppi ribelli o etichettarli come estremisti, e che evidenziare il ruolo centrale dell’imperialismo statunitense nel conflitto sia orientalista perché nega ai siriani il loro ‘ruolo’ all’interno del conflitto. Spesso critiche legittime vengono liquidate semplicemente come ‘fasciste’, ‘staliniste’, ‘putiniste’ o tutt’e tre. La polizia dell’opinione accettabile esercita una semplice e pratica funzione : favorire un clima in cui le persone si sentono intimidite per potersi esprimere in modo autonomo, permettendo alla narrazione dominante di rimanere incontestata di modo che, fondamentalmente, possa continuare ad essere usata per generare supporto pubblico per un ulteriore intervento occidentale in Siria.
Ovviamente questa strategia ha un precedente ben consolidato ; il trattamento riservato a molti oppositori dell’attacco NATO in Libia nel 2011 e dell’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna nel 2003 sono chiari esempi recenti. Purtroppo rimane un mezzo efficace per reprimere il dissenso e stabilire i parametri accettabili del dibattito mainstream. Il suo successo ha avuto come conseguenza la monopolizzazione  del dibattito pubblico da parte di  chi è in favore di un maggiore intervento occidentale in Siria  ; gli stessi ne controllano la narrazione. Conosco diverse persone che mi hanno confessato di essere troppo intimidite per scrivere o parlare onestamente della Siria in pubblico e quindi o limitano quello che dicono oppure, se possibile, non toccano proprio l’argomento. Sono certo che molti lettori avranno notato una differenza lampante tra le conversazioni private che hanno con amici e conoscenze che in qualche modo lavorano sulla Siria e le dichiarazioni che fanno in pubblico.
Io pubblicamente non sono rimasto muto sulla questione, ma francamente anch’io talvolta mi sono sentito intimidito. Di conseguenza, non ho scritto molto su questo argomento, come invece avrei dovuto fare.
È probabile che in conseguenza alla stesura di questo articolo, alcune delle persone che cito mi attaccheranno pubblicamente come una qualche combinazione tra un sostenitore di Assad cripto-fascista, un fantoccio di Putin/Iran e un anti-imperialista bianco deluso, molti altri mi giudicheranno in silenzio nello stesso modo. Tuttavia, nonostante l’incertezza sull’esatta direzione della politica estera statunitense causata dalla recente vittoria e incombente presidenza di Donald Trump, l’intervento militare diretto degli Stati Uniti in Siria per un cambio di regime o una divisione del paese rimane un rischio reale. Quindi spetta a me, e anche agli altri, pronunciarsi chiaramente, non fosse altro che per demolire i soliti pretestuosi punti di discussione che sono rimasti largamente incontestati per troppo tempo. Di recente Bassam Haddad ha osservato che il dibattito sulla Siria oggi ha raggiunto un punto morto : in Gran Bretagna, come in molti altri casi, il dibattito continua, ma è sempre più dominato da un gruppo di attivisti, piccolo ma estremamente sviluppato. I personaggi di cui parlo – la stragrande maggioranza dei quali non sono siriani – non sono un monolite ; ma ciò che sembra unirli praticamente tutti è il loro pieno supporto alla creazione di una no-fly zone (che per essere chiari è intrinsecamente una posizione favorevole alla guerra), supporto incondizionato per i White Helmets, e disprezzo totale per ogni posizione anti-imperialista rispetto all’intervento in Siria. Molti condividono anche un’analisi inaccurata e a volte disonesta dell’intervento della NATO in Libia nel 2011, che è spesso utilizzata per giustificare la loro posizione sulla Siria.
In questo contesto, penso sia importante chiarire che non mi oppongo ad ogni potenziale intervento occidentale solamente perché “non aiuterebbe”, come sostengono alcuni : lo faccio anche perché non credo che un tale intervento sia motivato da azioni umanitarie. Questo chiarimento è cruciale, perché accettare questa premessa umanitaria prima di sollevare obiezioni cede molto terreno prima che l’argomento venga anche solo sfiorato. Rafforzare l’idea che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sarebbero motivati a intervenire in Siria, o in qualsiasi altra parte del mondo, per un desiderio genuino di “fermare il massacro” è astorico e intrinsecamente ipocrita. Al contrario, ogni intervento di questo tipo, oltre a uccidere inevitabilmente più civili, rappresenterebbe un’escalation interessata e pericolosa nella campagna occidentale di aggressione in corso ai danni dello stato siriano. Questa escalation non solo aumenterebbe le probabilità che lo smembramento permanente della Siria diventi realtà ( un risultato fortemente e da lungo tempo desiderato da alcune parti, è palese), ma potrebbe attivare un conflitto più grande con la Russia, le cui conseguenze sarebbero assolutamente catastrofiche.
Decisamente, nessuna guerra è stata più caratterizzata dai fraintendimenti dell’attuale conflitto in Siria. Questo articolo cercherà di correggere alcune tra gli le falsità più grandi in circolazione, fare luce sul modo in cui le voci dissidenti vengono fatte fuori dal dibattito mainstream con accuse e intimidazioni, e smascherare le posizioni apparentemente neutrali di una serie di voci rilevanti sul conflitto.

Il Mito del Non-Intervento occidentale
Una delle tante falsità che prevalgono in questa narrazione dominante è che l’Occidente non sia intervenuto nel conflitto in Siria. Per esempio, Amnesty International di recente ha scritto che il Regno Unito “siede in disparte” rispetto al conflitto. Questa posizione del tutto falsa ignora svariati anni di armamento, finanziamento e addestramento dei gruppi ribelli da parte dell’Occidente e dei suoi alleati regionali (principalmente Turchia, Arabia Saudita e Qatar), le disastrose sanzioni economiche imposte contro il governo siriano, gli attacchi aerei in corso, le operazioni delle forze speciali, e una miriade di altre misure diplomatiche, militari ed economiche che sono state prese. Non solo l’Occidente (principalmente gli Stati Uniti) è intervenuto, ma lo ha fatto anche su larga scala. Ad esempio, nel giugno 2015, è stato rivelato che il coinvolgimento della CIA in Siria è diventato “una delle operazioni sotto copertura più vaste dell’agenzia” in cui stava spendendo approssimativamente 1 miliardo di dollari all’anno (circa un dollaro ogni quindici del budget comunicato). Questa operazione con base in Giordania ha già “addestrato ed equipaggiato quasi 10.000 combattenti inviati in Siria negli ultimi anni.” Come ha dichiarato Patrick Higgins, “in altre parole gli Stati Uniti hanno lanciato una guerra su larga scala contro la Siria e in realtà pochi americani l’hanno notato.” È cruciale posizionare questa aggressione nel contesto dell’ostilità statunitense di lungo corso nei confronti del governo siriano. Come rivelato dai cabli diplomatici pubblicati da Wikileaks, gli Stati Uniti provano almeno dal 2006 a minare la sua stabilità “con tutti i mezzi disponibili”, utilizzando una serie di tecniche che comportano uno sforzo – in coordinamento con l’Arabia Saudita – per incoraggiare il fondamentalismo islamico e il settarismo nel paese giocando sulle paure dell’influenza iraniana. Infatti, anche se viene menzionato raramente, un alto ufficiale USA ha confermato più volte in una intervista televisiva con Mehdi Hasan che la facilitazione dell’ascesa dell’ISIS e altri gruppi estremisti islamici in Siria e Iraq è stata una decisione premeditata dell’amministrazione Obama. Di recente la BBC ha riportato che l’ISIS usa munizioni comprate legalmente in Europa dell’Est dai governi degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita, che sono poi trasportate in Siria e Iraq attraverso la Turchia, “certe volte dopo soli due mesi dall’uscita dalla fabbrica”.
Quando si riconosce l’intervento USA in Siria,  lo si descrive regolarmente come un intervento su piccola scala e insufficiente. Il prof. Gilbert Achcar del SOAS ha dichiarato che “Il supporto di Washington all’opposizione è più uno scherzo che qualcosa di serio”. Visto che Achcar ha fatto questa osservazione sei mesi dopo le rivelazioni sull’enorme scandalo dell’operazione CIA in Siria, è difficile immaginare esattamente quale livello di supporto militare sarebbe necessario per essere considerato più che ‘uno scherzo’. Questa narrazione ingannevole su un intervento inadeguato o inesistente da parte degli Stati Uniti, combinata alla propensione a difenderlo con gli insulti è molto comune, anche tra i commentatori che scrivono per pubblicazioni che si vogliono di sinistra. Alcuni opinionisti come Murtaza Hussain di The Intercept sono andati persino oltre nel dichiarare che gli Stati Uniti stanno sì intervenendo in Siria, ma “in favore di Assad”, un argomento assurdo che anche Glenn Greenwald ha sostenuto.

Un’atmosfera di intimidazione
Racconto questa storia non per passare come vittima o provare a raccogliere simpatie, ma per fornire un piccolo esempio dalla mia esperienza personale, rappresentativa del livello in cui è sceso il dibattito sulla Siria, e mostrare perché cosi tante persone ora hanno paura di prendere parte ad un dibattito aperto sulla questione. Nell’agosto 2016, Murtaza Hussain ha intervistato Mostafa Mahamed, l’allora portavoce di Jabhat Fatah al-Sham, ridenominato più di recente come Jabhat al-Nusra (i.e. Al-Qaeda in Siria); in un periodo in cui i media occidentali davano al gruppo molta copertura, che spesso era del tutto acritica. In questa intervista Mahamed pontificava sulla sua visione per il futuro della società siriana e il ruolo di Jabhat Fatah al-Sham. Leggendo questa intervista fui colpito del fatto che, come in un’intervista di Sky News quattro giorni prima, Hussain non aveva pensato fosse pertinente chiedere perché Mahamed, un fondamentalista australiano nato in Egitto senza legami con il paese, dovesse influenzare il futuro della società siriana. Ho fatto questa domanda a Hussain su Twitter e ha risposto in maniera sprezzante, prima di dichiarare brutalmente “è incredibile la velocità con cui i sostenitori di Assad cominciano a parlare come Mark Regev”. Cosi facendo, e senza averci pensato un secondo, non solo mi ha denunciato ai suoi 50,000 follower come sostenitore di Assad, ma mi ha anche paragonato a uno dei propagandisti più ripugnanti di Israele.
La risposta istintiva di Hussain per delegittimare immediatamente anche domande educate sul suo lavoro, lasciando intendere che veniva dalla prospettiva di un sostenitore di Assad è rivelatrice e indicativa della più ampia tendenza attuale. Dopo questo scambio, molte persone hanno messo in discussione il modo in cui sono stato liquidato da Hussain. Una di queste persone era la giornalista americana Rania Khalek, che in seguito è diventata forse la vittima più esposta di questo trend. Khalek, che all’epoca era stata ampiamente criticata, fu perseguitata per la sua posizione sulla Siria a tal punto che nell’ottobre 2016, dopo aver deciso di partecipare ad una conferenza a Damasco, è stata obbligata a dimettersi dal ruolo di Editor di Electronic Intifada. Ironia della sorte, mentre Khalek alla fine non ha nemmeno partecipato alla conferenza, molti altri giornalisti e analisti mainstream che lo hanno fatto non sono stati sottoposti ad alcuna critica. Khalek è stata il target preferito di un gruppo che include Oz Katerji, che attualmente lavora per l’emittente nazionale turca TRT World, e Charles Davis. Katerji ha avvertito Khalek di “cambiare la tua retorica o continueremo a lottare contro di te”; ha anche mandato messaggi aggressivi simili al collega di Khalek, Asa Winstanley.
Una recente inchiesta in due parti del giornalista americano Max Blumenthal ha scatenato una reazione adirata seguita da una campagna di intimidazione simile a quella riservata a Khalek. Nella sua indagine Blumenthal ha riportato numerosi fatti scomodi sui White Helmets e il gruppo lobbistico The Syria Campaign (entrambi sostengono fortemente l’imposizione di una nofly zone) che ha fatto perdere molti supporter ai due gruppi. L’indagine di Blumenthal, che consiglio di leggere, era approfondita nei fatti e tutt’altro che fango, come è stata invece ampiamente descritta. La furia della reazione al lavoro di Blumenthal mi ha spiazzato, non solo perché molta dell’informazione che conteneva era già risaputa in alcune cerchie online ed era stata pubblicata altrove prima, ma perché Blumenthal non aveva esplorato le enormi accuse sul fatto che i White Helmets avessero falsato alcuni filmati ed immagini. Queste accuse (per le quali alcune persone online sono state definite senza cuore e nauseabonde) più tardi hanno ricevuto credito dopo lo strano incidente in cui i White Helmets postano online il cosiddetto video della ‘sfida del manichino’ (poi cancellato), in cui due dei suoi membri e un uomo apparentemente ferito, intrappolato tra le macerie posa in silenzio e immobile per trenta secondi, prima che inizi un commovente salvataggio e l’uomo all’improvviso cominci a lamentarsi per il dolore.
Nonostante questa omissione, dopo la pubblicazione della sua indagine Blumenthal è stato immediatamente attaccato e insultato da una serie di voci prominenti sulla Siria ; Robin Yassin-Kassab lo ha calunniato come “immondizia-pro-fascista” che era “alla ricerca disperata di attenzione, per distrarre dal genocidio e dai crimini imperialisti russi”. Muhammad Idrees Ahmad, che ha dichiarato che i White Helmets sono la sua famiglia e che “attaccare loro equivale ad attaccare me”, ha reagito agli articoli con la stessa furia. Blumenthal ha dichiarato che molte telefonate di insulti e minacce ricevute dopo l’indagine erano di Idrees Ahmad. Nella sua risposta al lavoro di Blumenthal, il giornalista di BuzzFeed Borzou Daragahi ha utilizzato un’altra tecnica comunemente usata per infangare posizioni politiche di sinistra, ossia la loro patologizzazione, affermando che “l’ossessione della Sinistra per i SyriaCivilDef [i White Helmets] è proprio indecorosa. Probabili spunti di riflessione su complessi materni irrisolti. Buona parte della sinistra è danneggiata psicologicamente”. Daragahi si è prolungato sulla sua oscena analogia con gli abusi domestici, affermando che “Forse papà picchia mamma, come Assad bombarda i civili. Ti senti colpevole per essere dalla parte di papà (Assad) e senti rabbia verso mamma (i civili)”. In precedenza Daragahi ha vilipeso gli anti-imperialisti come “non davvero di sinistra, semplicemente anti-occidentali. Sono persone arrabbiate, traumatizzate con enormi complessi di Edipo.” In uno scambio con Vijay Prashad, Joey Ayoub di Global Voices ha criticato Blumenthal come uno “pseudo-giornalista” con un evidente disprezzo per i siriani”, una critica particolarmente ipocrita, considerando che – distorcendo la realtà in maniera davvero insensata, ha poi dichiarato che non ci sono due fazioni in Siria, dato che “la stragrande maggioranza dei siriani è insorta contro Assad”. Che Ayoub ignori cosi spavaldamente una parte significativa del popolo siriano unicamente perché non è d’accordo con la sua prospettiva personale solleva seri dubbi sulla sua obiettività.
Pare che questa reazione diffusa e spesso isterica all’inchiesta di Blumenthal da parte di Ayoub, Daragahi e altri – nessuno dei quali è stato capace di discutere l’accuratezza dell’inchiesta stessa, occorre segnalare – non solo è dovuta al fatto che per la prima volta un giornalista della statura di Blumenthal aveva l’audacia di criticare The Syria Campaign e i White Helmets, ma che, per dirla con le parole di un suo attuale detrattore, Blumenthal “una volta era uno di noi”. Infatti nel 2012 Blumenthal si è dimessopubblicamente dal giornale libanese Al-Akbar, citando la sua posizione ritenuta “Pro-Assad”. Qui si può trovare una dura risposta alla decisione di Blumenthal di licenziarsi redatta da Sharmine Narwani – uno degli scrittori di Al-Akhbar da lui criticati. Il trattamento che hanno ricevuto sia Blumenthal che Khalek è sintomatico di quanto sia ristretto il dibattito mainstream sulla Siria. Entrambi in precedenza si erano espressi contro Assad e hanno cambiato le loro posizioni sulla Siria solo di recente. Eppure nonostante il loro alto profilo, o forse a causa di ciò, entrambi sono stati largamente attaccati come presunti insensibili scagnozzi pro-Assad; e nel caso di Khalek, la campagna contro di lei l’ha obbligata alle dimissioni.

La Campagna contro Jeremy Corbyn e il contesto britannico
Ultimamente in Gran Bretagna si è dato significativo risalto alla posizione di Jeremy Corbyn sulla Siria, soprattutto dopo che il già menzionato Oz Katerji, che per sua stessa ammissione supporta “inequivocabilmente” la guerra contro la Siria, nell’ottobre 2016 lo ha interrotto ripetutamente durante un evento della Coalizione Stop the War. Questa critica a Corbyn in Gran Bretagna fa parte di una più larga campagna che ha attaccato la coalizione Stop the War e in misura crescente ‘la Sinistra’ in generale per il suo rifiuto di supportare l’imposizione di una no-fly zone e la sua presunta insufficiente condanna dei governi russo e siriano. La recente dichiarazione di Joey Ayoub che “non c’è letteralmente nessuna differenza tra “molta della Sinistra occidentale e la “vera Estrema Destra” quando si tratta della Siria” è tipica di questo trend. Il Vice-Direttore di Stop the War, Chris Nineham, ha risposto a queste critiche tranquillamente ed efficacemente in questa intervista.
Uno dei critici più accessi di Corbyn a questo riguardo è stato lo scrittore Robin Yassin-Kassab, perlopiù conosciuto per il suo racconto del 2008 The Road to Damascus e il suo recente libro Burning Country : Syrians in Revolution and War (scritto con Leila al-Shami). A Yassin-Kassab viene regolarmente concesso uno spazio importante da cui parlare e scrivere sulla Siria, specialmente nel Regno Unito. Parla di Corbyn come di un “pro-Putin, pro-Khamenei” e un “verme stalinista”, ed è arrivato persino ad esortare che il leader laburista “venga soppresso” a causa del suo presunto “Stalinismo (o Putinismo, o Assadismo, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare)”. Ha attaccato pure Jill Stein (la candidata presidenziale del Verdi statunitensi) come una“ridicola stronza” e l’ha accusata di “coccolare il criminale imperialista Putin”.
In aggiunta a questi commenti oltraggiosi, Robin Yassin-Kassab ha assunto una serie di posizioni estremamente problematiche che mettono in discussione la sua credibilità come voce affidabile sulla Siria. Yassin-Kassab ha esortato apertamente e con veemenza l’Occidente ad armare l’opposizione in Siria e ha etichettato l’idea che gli Stati Uniti siano interessati al cambio di regime in Siria come un “falso concetto” che ossessiona i sinistroidi occidentali. Nel febbraio 2013, durante un dibattito a seguito dello spettacolo Sour Lips di Omar el-Khairy, l’ho sentito argomentare capziosamente che la situazione in Siria era del tutto assimilabile a quella in Palestina, un conflitto tra colonizzatori (Israele/Assad) e colonizzati (palestinesi/siriani). Yassin-Kassab ha anche elogiato svariate volte l’aggressione militare turca in Siria e persino ringraziato quando la Turchia ha abbattuto un aereo russo nel novembre 2015. Nel mese di aprile 2014, ha fatto un elogio inquietante della “brillante” offensiva di Lattakia e ha ringraziato in particolare Erdogan e la Turchia “per le filiere” che l’hanno facilitata. Questa offensiva, che è stata guidata da una coalizione di gruppi ribelli tra cui Jabhat al-Nusra (al-Qaeda in Siria), ha attaccato aree civili e, quando ha preso la città di Kessab, saccheggiato negozi e case di proprietà di armeni, preso famiglie armene in ostaggio e dissacrato tre chiese della città, costringendo circa 2.000 armeni a fuggire.
Forse la cosa più preoccupante, in aggiunta a quelle già specificate in precedenza, è che Yassin-Kassab ha assunto posizioni sorprendentemente reazionarie in relazione agli eventi in Siria che da sole illustrano quanto sia realmente estremo il punto di vista di molti di questi attivisti. Per esempio, nel dicembre 2015, quando il leader del gruppo Jaish al-Islam – sostenuto dall’Arabia Saudita – Zahran Alloush è stato ucciso in un attacco aereo, Yassin-Kassab ha chiesto pubblicamente che il suo “omicidio da parte degli imperialisti russi” fosse “vendicato”. Alloush era un estremista wahabita implicato in una serie di brutali violazioni dei diritti umani, tra cui tortura e omicidio, così come la vendita di cibo e aiuti a prezzi gonfiati. Nel 2013 Alloush – che era fortemente contrario alla democrazia in Siria – ha annunciato concretamente il ripristino del califfato omayyade e ha dichiarato che “[noi] seppelliremo le teste degli sciiti impuri a Najaf, se Dio vuole”. Yassin-Kassab davvero non poteva essere all’oscuro di questo, e ciò fa del suo appello a vendicare la morte di un violento signore della guerra settaria una cosa davvero grave. Tanto più vero se si considera che Yassin-Kassab ha dichiarato – in uno stile di pensiero settario con cui probabilmente Alloush stesso sarebbe stato d’accordo – che “l‘espansionismo iraniano-sciita è una delle cause principali del crescente jihadismo sunnita” e sostenuto che “le milizie transnazionali di jihadisti sciiti dell’Iran sono attualmente il più grande motore del settarismo nella regione”. In questo contesto ha addirittura sostenuto che “la maggior parte del popolo siriano probabilmente direbbe che l’ISIS è meglio di Assad”. Che un uomo con opinioni così estreme sia regolarmente ospitato in festival letterari, istituzioni culturali, università britanniche/statunitensi, e persino organizzazioni per i diritti umani è indicativo di quanto sia distorta la narrativa mainstream sulla Siria.
Insieme a così tante figure che sostengono un ulteriore intervento militare in Siria, Yassin-Kassab sembra anche negare la realtà degli eventi in Libia. Nel maggio 2016 ha sostenuto che in Libia c’era stata una “rivoluzione popolare” contro un “fascista” che stava massacrando il suo popolo, e che era “West-centric” sostenere che la ragione per cui Gheddafi è caduto era l’intervento di Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Questa posizione è stata ripresa da molti altri tra cui Ayoub, che ha affermato che dire che la Libia era stata distrutta significa “omettere del tutto il ruolo chiave dei libici”, e ha descritto la Libia come un “paradiso rispetto alla Siria. Questa interpretazione degli eventi in Libia è stata completamente smentita da diverse fonti, tra cui una relazione della Commissione Affari esteri del Regno Unito che discutiamo nel dettaglio nel prossimo paragrafo .
Il Discorso nel Modo Accademico : Libia – un Modello per la Siria ?
Nel mondo accademico la narrativa dominante sulla Siria, con alcune notevoli eccezioni, è stata praticamente indistinguibile da ciò che va per la maggiore nei media mainstream. Difatti diversi accademici sono diventati aperti e in alcuni casi fanatici partigiani di un intervento occidentale più ampio in Siria. Per esempio, Gilbert Achcar ha più volte rimproverato al Presidente Obama di non aver armato a sufficienza l’opposizione siriana.
Anche se ha negato con veemenza da allora, Achcar ha appoggiato l’intervento NATO in Libia. Nel marzo 2011, Achcar ha sostenuto che, data l’ “imminente minaccia di un massacro di massa” era “moralmente e politicamente sbagliato per chiunque a sinistra opporsi alla no-fly zone” e che “l’idea che le potenze occidentali stiano intervenendo in Libia perché vogliono rovesciare un regime ostile ai loro interessi è semplicemente assurda”. Nonostante le prove di attacchi e arresti indiscriminati di neri africani da parte dei ribelli libici, Achcar descrive le forze di opposizione come “unite dal desiderio di democrazia e diritti umani. Ha anche rigettato l’idea che la maggior parte degli oppositori più forti fossero estremisti islamici, sostenendo che si trattava di Gheddafi “che cercava di ottenere il sostegno dell’Occidente”. Sulle prospettive della Libia dopo la rimozione di Gheddafi ha osservato: “[Anche] se non c’è chiarezza su come potrebbe essere la Libia post-Gheddafi, … non può essere peggio del regime di Gheddafi”.
Già di dubbio valore all’epoca, più tardi tutte queste affermazioni si sono rivelate spettacolarmente errate. Nel settembre 2013 uno studio dell’Università di Harvard ha affermato che Gheddafi non aveva preso di mira i civili o fatto un uso indiscriminato della forza, che gli islamisti erano in effetti dominanti tra i ranghi delle forze ribelli e che l’intervento non solo aveva aumentato in modo drammatico il numero delle vittime nel conflitto, ma aveva anche esacerbato “le violazioni di diritti umani, la sofferenza umanitaria, il radicalismo islamico, e la proliferazione delle armi in Libia e nei paesi vicini”. Tutte queste conclusioni tre anni dopo sono state confermate e estese da un’indagine della Commissione Affari Esteri del governo britannico, che ha confermato che l’intervento ha causato “il collasso politico ed economico, la guerriglia tribale e tra le milizie, crisi umanitarie e crisi migratorie, diffuse violazioni dei diritti umani, la diffusione delle armi del regime di Gheddafi nella regione e la crescita dell’ISIS in Siria”. È un peccato che l’essersi sbagliato cosi tanto sulla Libia non sembri aver fornito ad Achcar il bisogno di una pausa di riflessione e, sfortunatamente, ha seguito una linea molto simile alla Siria ed è determinato a seguirla.


Anche Thomas Pierret dell’Università di Edimburgo ha adottato una posizione esplicitamente pro-interventista e richiesto più volte un intervento militare degli Stati Uniti in Siria. Forse non sorprende, dato il suo evidente fervore per una escalation del conflitto, che Pierret assuma una posizione decisamente disinvolta verso la potenziale dissoluzione dell’intero stato siriano, quando argomenta sfacciatamente: “Perché dovremmo avere paura dell’apolidia in Siria? La Libia è molto meglio della Siria senza uno ‘stato’ ”. Presumo che questo atteggiamento sia facile da adottare quando si è immersi nel comfort in Scozia, nei confronti di un siriano che dipende dallo stato di sopravvivenza, o uno dei circa 1,8 milioni di libici (un terzo di tutta la popolazione) che sono stati costretti a fuggire in Tunisia dopo la distruzione dello stato libico. Oltre al suo coinvolgimento in campagne di intimidazione come descritto in precedenza, anche Muhammad Idrees Ahmad, docente dell’Università di Stirling ha fatto luce della distruzione della Libia, considerato che il suo stato attuale è migliore rispetto alla Siria e sostenuto che stava per “essere trascinata nel baratro” da Gheddafi prima dell’intervento. Ahmad, che ha preso una posizione fortemente pro-interventista sulla Siria, è una presenza al vetriolo sui social media e spesso etichetta come “fascista” qualsiasi posizione o individuo con cui si trova in disaccordo, tra cui la rivista Jacobin e Seymour Hersh. Di recente ha anche descritto Glenn Greenwald come “oggettivamente pro-Assad” e “l‘Ayatollah della sinistra alternativaaccusandolo anche per la vittoria elettorale di Trump. Purtroppo, le opinioni e gli attacchi di Idrees Ahmad contro i suoi avversari sono solo le espressioni più floride di una posizione sull’intervento militare in Siria che è ampiamente sostenuta nel mondo accademico occidentale.

Il mito degli ‘esperti’ neutrali
Com’era prevedibile, nel corso degli ultimi cinque anni, una simile narrativa ha dominato nel mondo dei think-tanks e dell’expertise di politica estera (di solito quello che nei fatti è programmazione imperialista a tutti gli effetti). In questo periodo diversi specialisti senza scrupoli sono riusciti a posizionarsi come esperti sulla Siria e l’intera regione. É stato enormemente scoraggiante vedere molte persone – sia del mondo accademico che dei media – trattare i lavori di questi individui spesso profondamente compromessi come se si trattasse di un’analisi obiettiva. Una delle figure più importanti ad aver costruito in questo modo la propria carriera sul retro della guerra in Siria è Charles Lister del Middle East Institute (prima nella Brookings Institution a Doha). Lister è fortemente pro-intervento e per svariati anni ha oscurato ipocritamente l’intervento occidentale in Siria. Nel mese di ottobre 2015 ha sostenuto che quattro anni e mezzo di “inazione USA/occidentale” in Siria avevano “chiaramente dimostrato che ‘non fare nulla’ è molto peggio del ‘fare qualcosa’ ”. Ultimamente Lister ha curato un editoriale con John Allen, un ex generale Marines statunitense, in cui la coppia ha sostenuto l’idea di una guerra degli Stati Uniti contro Siria e Russia. In un altro articolo recente in cui ha attaccato la posizione di Trump sulla Siria, senza fornire alcuna prova, Lister ha fatto l’affermazione straordinaria che il governo siriano aveva “metodicamente” costruito sia al-Qaeda in Iraq che l’ISIS dal 2003 fino al 2010. Eppure, inspiegabilmente – dati i suoi legami evidenti con l’establishment statunitense, la sua posizione visibilmente a favore della guerra e le frequenti affermazioni prive di fondamento – molti continuano a trattare Lister come una fonte di analisi neutra. Non è una sorpresa, tuttavia, che Yassin-Kassab abbia elogiato Lister e lo abbia difeso dalle critiche.
Oltre al suo lavoro con Brookings e, successivamente, con il Middle East Institute, Lister partecipa anche alla ‘Track II Siria Initiative’. Nel corso di questo lavoro, che come dice lui stesso è stato “finanziato al 100 per cento dai governi occidentali“, Lister ha ovviamente sviluppato stretti legami con i membri di diversi gruppi armati presenti in Siria. A volte il suo ruolo sembra essere stato quello di agente di pubbliche relazioni di questi gruppi rivolto all’Occidente, con gli annunci dei cambi di nome e le fusioni e con esercizi di riduzione del danno in seguito a manifestazioni della loro violenza spesso brutale. Nessun incidente lo ha mostrato in maniera più brutale della raccapricciante decapitazione di un giovane ragazzo palestinese da parte della Brigata Nur al-Din al-Zinki nel luglio 2016. Lister in precedenza aveva presentato al-Zinki – destinatario di finanziamenti ed armi da parte del governo degli Stati Uniti – come uno dei gruppi che formavano i 70.000 combattenti presunti ‘moderati’ in Siria, di cui David Cameron aveva rivendicato l’esistenza nel novembre 2015. Quando il video della decapitazione è emerso online, Lister ha twittato quasi immediatamente che aveva appena parlato al gruppo e che a breve avrebbe formulato una dichiarazione. Più tardi, lo stesso giorno, Lister ha ribadito la sua tesi che era “assolutamente assurdo” paragonare al-Zinki e altri gruppi all’ ISIS o a al-Qaeda e che era “ben oltre il discutibile”. È scioccante che lo abbia fatto subito dopo aver guardato i membri del gruppo provocare e poi decapitare un bambino. Inoltre, il piano incredibile di Lister per mettere apparentemente “fine” al conflitto in Siria – scritto dopo la decapitazione di al-Zinki – includeva l’aumento vertiginoso delle spedizioni di armi ai gruppi ribelli da parte degli Stati Uniti.
Un altro osservatore che per diversi anni ha massicciamente sostenuto l’intervento militare degli Stati Uniti in Siria è l’ex collega di Lister alla Brookings, Shadi Hamid. Come Lister, Hamid ha più volte sostenuto l’argomentazione insensata che gli Stati Uniti non siano intervenuti in Siria e in tutto il Medio Oriente, affermando che Obama nella regione ha portato avanti una “Politica-del-far-nulla“. Ha anche affermato che la presunta inazione di Obama nel paese ha contribuito alla recente vittoria elettorale di Donald Trump. In breve, Hamid – che ha dichiarato che l’intervento della NATO in Libia in realtà è stato un successo e che nessun mondo migliore è possibile senza l’esercito americano – è uno dei propagandisti più eclatanti e palesi dell’impero statunitense attualmente in circolazione. Pochi rappresentano meglio di Hamid ciò che Edward Said definiva il “coro di intellettuali disposti a dire parole distensive su imperi benigni o altruistici, come se non ci si dovesse fidare dell’evidenza davanti agli occhi di tutti”. Sorprende quindi che venga spesso trattato come un esperto obiettivo sulla Siria e altrove. Anche in questo caso, è importante ricordare che le posizioni a favore della guerra tenute da Lister e Hamid non sono un’eccezione, ma largamente rappresentative dei loro colleghi nelle stesse istituzioni e in quelle simili. Altri ‘esperti’ che avrebbero potuto essere discussi a lungo in questo senso includono Hassan Hassan e Michael Weiss, che hanno esplicitamente chiesto agli Stati Uniti di smembrare e poi occupare la Siria, ed Emile Hokayem dell’Istituto Internazionale per gli studi strategici apparentemente indipendente, che in realtà ha ricevuto fino ad un terzo dei suoi fondi direttamente dalla famiglia regnante del Bahrein. Un esempio eclatante del tipo di annebbiamento in cui questi analisti eccellono, è quando nel mese di novembre 2015, mentre era sul palco con Charles Lister, Hokayem ha sostenuto che era del tutto inutile scoprire chi finanziava l’ISIS e che, invece, la nascita del gruppo dovrebbe essere considerata il risultato di errori nella società mediorientale nel suo complesso. Successivamente, nel mese di ottobre 2016, Hokayem anche dichiarato che la sconfitta dello Stato Islamico sarebbe uno sviluppo negativo per la regione.
Nel corso della stesura di questo articolo, ho volutamente identificato un certo numero di individui, scambi documentati e commenti sui social media che finora sono stati di fatto nascosti alla vista di molti. Ci sono molti altri individui, incidenti e temi che avrei potuto discutere, ma per ragioni di (relativa) brevità mi sono limitato a concentrarmi solo su alcuni dei più importanti. La mia speranza è che, facendo luce sulle campagne di bullismo e di intimidazione messe in atto da diverse voci di primo piano sulla Siria, oltre a mostrare che molti di questi stessi individui hanno atteggiamenti e connessioni inquietanti, incoraggerò altri ad essere più critici sulle analisi che leggono e a chiedersi esattamente chi è che stanno ascoltando. Date le conseguenze potenzialmente disastrose di un intervento occidentale maggiore in Siria, la posta in gioco non potrebbe essere più alta. Non possiamo permetterci che queste siano le uniche voci che si sentono nel dibattito.
Louis Allday è un dottorando alla SOAS di Londra. Seguilo su Twitter @Louis_Allday.
Fonte : MRZine
Traduzione di Federica Morelli