martedì 18 aprile 2017

MARWAN BARGHOUTI E 1000 PRIGIONIEI PALESTINESI IN SCIOPERO DELLA FAME




Le parole di Marwan Barghouthi dalla prigione di Hadarim, pubblicate dal «New York Times» il 16 aprile. Continua lo sciopero della fame di mille prigionieri palestinesi. Iniziativa di solidarietà il 19 a Roma.

di Marwan Barghouti
Dopo aver trascorso gli ultimi 15 anni in una prigione israeliana, sono stato sia un testimone, sia vittima, del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti di prigionieri palestinesi. Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c’era altra scelta che resistere a questi abusi cominciando uno sciopero della fame.
Circa 1.000 prigionieri palestinesi hanno deciso di prendere parte a questo sciopero, che inizia oggi, giorno che qui celebriamo come Giorno dei prigionieri. Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza a disposizione. Esso infligge dolore esclusivamente a coloro che vi partecipano e ai loro cari, nella speranza che gli stomaci vuoti e il sacrificio aiutino il messaggio a risuonare al di là dei confini delle buie celle.
Decenni di esperienza hanno dimostrato che il sistema inumano di occupazione coloniale e militare israeliana punta a sfibrare lo spirito dei prigionieri e della nazione a cui appartengono, infliggendo sofferenze sui loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, utilizzando misure umilianti per costringere alla sottomissione. A dispetto di tale trattamento, non ci arrenderemo ad esso.
Israele, la potenza occupante, ha violato il diritto internazionale in molti modi per quasi 70 anni, ma gli è stata garantita impunità per le proprie azioni. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, tra cui uomini, donne e bambini, non fanno eccezione.
Avevo solo 15 anni quando sono stato imprigionato per la prima volta. Avevo appena 18 anni quando un ufficiale israeliano mi ha costretto a divaricare le gambe mentre mi trovavo nudo nella stanza degli interrogatori, prima di colpire i miei genitali. Sono svenuto dal dolore, e la caduta conseguente ha lasciato una grande cicatrice che da allora segna la mia fronte. L’ufficiale mi prese in giro, dicendo che non avrei mai potuto procreare, perché dalla gente come me nascono solo terroristi e assassini.
Pochi anni dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana, conducendo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Invece dei dolci che di solito distribuiamo per celebrare simili eventi, ho distribuito agli altri prigionieri del sale. Quando aveva appena 18 anni, mio figlio a sua volta è stato arrestato e ha trascorso quattro anni nelle prigioni israeliane.
Il più anziano dei miei quattro figli è ora un uomo di 31. Eppure, io sono ancora qui, continuando questa lotta per la libertà insieme a migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e il sostegno di così tanti in tutto il mondo. L’arroganza dell‘occupante oppressore e dei suoi sostenitori li rende sordi a questa semplice verità: prima che riescano a spezzare noi, saranno le nostre catene ad essere spezzate, perché è nella natura umana rispondere al richiamo della libertà a qualsiasi costo.
Israele ha costruito quasi tutte le sue carceri all’interno dei propri confini, piuttosto che nel territorio occupato. In tal modo, ha illegalmente e forzatamente trasferito civili palestinesi in cattività, usando questa situazione per limitare le visite dei familiari e per infliggere sofferenze attraverso lunghi trasferimenti in condizioni crudeli. I diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale – tra cui alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti scioperi della fame – sono stati trasformati in privilegi che l’amministrazione penitenziaria può decidere di concedere o sottrarre.
I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subìto torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi durante la detenzione. Secondo gli ultimi dati, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 a causa di tali azioni. I prigionieri palestinesi e le loro famiglie rimangono anche un obiettivo primario della politica di Israele di imposizione di punizioni collettive.
Nel corso degli ultimi cinque decenni, secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer, più di 800.000 palestinesi sono stati imprigionati da Israele – pari a circa il 40 per cento della popolazione maschile del territorio palestinese. Oggi, circa 6.500 sono ancora in carcere, tra i quali alcuni che detengono il triste primato dei più lunghi periodi di detenzione dei prigionieri politici al mondo. È difficile trovare una sola famiglia in Palestina che non abbia patito la detenzione di uno o più dei suoi componenti.
Come dar conto di questo assurdo stato di cose?
Israele ha stabilito un regime giuridico duale, una forma di apartheid giudiziaria, che garantisce potenziale impunità per gli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, mentre criminalizza la presenza e la resistenza palestinese. I tribunali di Israele sono una parodia della giustizia, palesi strumenti di occupazione coloniale e militare. Secondo il Dipartimento di Stato, il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è del 90 per cento circa.
Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha arrestato, ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, accademici, esponenti politici, militanti e familiari dei detenuti. Tutto con un unico obiettivo: seppellire le legittime aspirazioni di un’intera nazione.
Al contrario, le prigioni di Israele sono diventate la culla di un duraturo movimento per l’autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Libertà e la Dignità, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.
Le autorità israeliane e il servizio carcerario hanno trasformato i diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale in privilegi da concedere o sottrarre discrezionalmente. Israele ha provato ad etichettare tutti noi come terroristi per legittimare le sue violazioni, tra cui gli arresti di massa arbitrari, le torture, le misure punitive e le rigide restrizioni. Come parte dello sforzo di Israele di minare la lotta palestinese per la libertà, un tribunale israeliano mi ha condannato a cinque ergastoli e 40 anni di carcere in un processo farsa che è stato denunciato dagli osservatori internazionali.
Israele non è la prima potenza occupante o coloniale a ricorrere a tali espedienti. Ogni movimento di liberazione nazionale nella storia ricorda pratiche simili. Questo è il motivo per cui così tante persone che hanno lottato contro l’oppressione, il colonialismo e l’apartheid sono dalla nostra parte. La campagna internazionale per “la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi” che l’icona anti-apartheid Ahmed Kathrada e mia moglie, Fadwa, hanno lanciato nel 2013 dalla ex cella di Nelson Mandela a Robben Island ha avuto il sostegno di otto vincitori del Premio Nobel per la Pace, 120 governi e centinaia di dirigenti, parlamentari, artisti e accademici di tutto il mondo.
La loro solidarietà smaschera il fallimento morale e politico di Israele. I diritti non sono elargiti da un oppressore. La libertà e la dignità sono diritti universali che sono connaturali all’umanità e devono essere goduti da ogni nazione e da tutti gli esseri umani. I Palestinesi non saranno un’eccezione. Solo porre fine all’occupazione potrà cessare questa ingiustizia e segnare la nascita della pace.

Marwan Barghouti, 16 aprile 2017 

(da https://www.nytimes.com – Grazie a Luigi Daniele  per la traduzione)
FRA LE INIZIATIVE SOLIDALI c’è anche un appuntamento domani 19 aprile, dalle 17 alle 19, a Roma in Largo Argentina: «Con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame per la dignità e la libertà»
ENGLISH VERSION 



By Marwan Barghouti
April 16, 2017

HADARIM PRISON, Israel — Having spent the last 15 years in an Israeli prison, I have been both a witness to and a victim of Israel’s illegal system of mass arbitrary arrests and ill-treatment of Palestinian prisoners. After exhausting all other options, I decided there was no choice but to resist these abuses by going on a hunger strike.
Some 1,000 Palestinian prisoners have decided to take part in this hunger strike, which begins today, the day we observe here as Prisoners’ Day. Hunger striking is the most peaceful form of resistance available. It inflicts pain solely on those who participate and on their loved ones, in the hopes that their empty stomachs and their sacrifice will help the message resonate beyond the confines of their dark cells.
Decades of experience have proved that Israel’s inhumane system of colonial and military occupation aims to break the spirit of prisoners and the nation to which they belong, by inflicting suffering on their bodies, separating them from their families and communities, using humiliating measures to compel subjugation. In spite of such treatment, we will not surrender to it.
Israel, the occupying power, has violated international law in multiple ways for nearly 70 years, and yet has been granted impunity for its actions. It has committed grave breaches of the Geneva Conventions against the Palestinian people; the prisoners, including men, women and children, are no exception.
I was only 15 when I was first imprisoned. I was barely 18 when an Israeli interrogator forced me to spread my legs while I stood naked in the interrogation room, before hitting my genitals. I passed out from the pain, and the resulting fall left an everlasting scar on my forehead. The interrogator mocked me afterward, saying that I would never procreate because people like me give birth only to terrorists and murderers.
A few years later, I was again in an Israeli prison, leading a hunger strike, when my first son was born. Instead of the sweets we usually distribute to celebrate such news, I handed out salt to the other prisoners. When he was barely 18, he in turn was arrested and spent four years in Israeli prisons.
The eldest of my four children is now a man of 31. Yet here I still am, pursuing this struggle for freedom along with thousands of prisoners, millions of Palestinians and the support of so many around the world. What is it with the arrogance of the occupier and the oppressor and their backers that makes them deaf to this simple truth: Our chains will be broken before we are, because it is human nature to heed the call for freedom regardless of the cost.
Israel has built nearly all of its prisons inside Israel rather than in the occupied territory. In doing so, it has unlawfully and forcibly transferred Palestinian civilians into captivity, and has used this situation to restrict family visits and to inflict suffering on prisoners through long transports under cruel conditions. It turned basic rights that should be guaranteed under international law — including some painfully secured through previous hunger strikes — into privileges its prison service decides to grant us or deprive us of.
Palestinian prisoners and detainees have suffered from torture, inhumane and degrading treatment, and medical negligence. Some have been killed while in detention. According to the latest count from the Palestinian Prisoners Club, about 200 Palestinian prisoners have died since 1967 because of such actions. Palestinian prisoners and their families also remain a primary target of Israel’s policy of imposing collective punishments.
Through our hunger strike, we seek an end to these abuses.
Over the past five decades, according to the human rights group Addameer, more than 800,000 Palestinians have been imprisoned or detained by Israel — equivalent to about 40 percent of the Palestinian territory’s male population. Today, about 6,500 are still imprisoned, among them some who have the dismal distinction of holding world records for the longest periods in detention of political prisoners. There is hardly a single family in Palestine that has not endured the suffering caused by the imprisonment of one or several of its members.
How to account for this unbelievable state of affairs?
Israel has established a dual legal regime, a form of judicial apartheid, that provides virtual impunity for Israelis who commit crimes against Palestinians, while criminalizing Palestinian presence and resistance. Israel’s courts are a charade of justice, clearly instruments of colonial, military occupation. According to the State Department, the conviction rate for Palestinians in the military courts is nearly 90 percent.
Among the hundreds of thousands of Palestinians whom Israel has taken captive are children, women, parliamentarians, activists, journalists, human rights defenders, academics, political figures, militants, bystanders, family members of prisoners. And all with one aim: to bury the legitimate aspirations of an entire nation.
Instead, though, Israel’s prisons have become the cradle of a lasting movement for Palestinian self-determination. This new hunger strike will demonstrate once more that the prisoners’ movement is the compass that guides our struggle, the struggle for Freedom and Dignity, the name we have chosen for this new step in our long walk to freedom.
The Israeli authorities and its prison service have turned basic rights that should be guaranteed under international law — including those painfully secured through previous hunger strikes — into privileges they decide to grant us or deprive us of. Israel has tried to brand us all as terrorists to legitimize its violations, including mass arbitrary arrests, torture, punitive measures and severe restrictions. As part of Israel’s effort to undermine the Palestinian struggle for freedom, an Israeli court sentenced me to five life sentences and 40 years in prison in a political show trial that was denounced by international observers.
Israel is not the first occupying or colonial power to resort to such expedients. Every national liberation movement in history can recall similar practices. This is why so many people who have fought against oppression, colonialism and apartheid stand with us. The International Campaign to Free Marwan Barghouti and All Palestinian Prisoners that the anti-apartheid icon Ahmed Kathrada and my wife, Fadwa, inaugurated in 2013 from Nelson Mandela’s former cell on Robben Island has enjoyed the support of eight Nobel Peace Prize laureates, 120 governments and hundreds of leaders, parliamentarians, artists and academics around the world.
Their solidarity exposes Israel’s moral and political failure. Rights are not bestowed by an oppressor. Freedom and dignity are universal rights that are inherent in humanity, to be enjoyed by every nation and all human beings. Palestinians will not be an exception. Only ending occupation will end this injustice and mark the birth of peace.

Marwan Barghouti is a Palestinian leader and parliamentarian.

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