di Fabio Massimo Parenti
08 Gennaio 2018
Xinjiang e Tibet
Il 13 dicembre Human Right Watch, organizzazione con base a New York e sedi in mezzo mondo, ha rilasciato un rapporto sulla violazione dei diritti umani nella regione autonoma uigura del Xinjiang, Cina. L’accusa, immediatamente rigettata dalle autorità cinesi come totalmente infondata, è legata alla raccolta di campioni di DNA, impronte digitali, scansioni dell’iride di tutti i residenti. Una raccolta dati che viene fatta in diversi territori di questa provincia e in altre regioni cinesi per raccogliere informazioni demografiche e biologiche, al fine di costruire database da condividere tra vari dipartimenti governativi.
Molto semplicemente si tratta di misure di sicurezza – dichiarano le autorità centrali – totalmente legittime perché non discriminatrici verso uno specifico gruppo etnico, ma applicate a tutti i residenti … non sono dannose, né lesive dei diritti della persone. Queste misure rispondono esclusivamente a ragioni di identificazione e di informazione. Sono circa 120 i paesi che hanno cominciato a incorporare informazioni biometriche nei passaporti dei loro cittadini e molti esperti sostengono che le nuove tecniche biometriche siano funzionali alla difesa dell’identità. Già dal 2009, secondo documenti ufficiali pubblicati da Wikileaks, gli Usa hanno ordinato ai propri diplomatici la raccolta di dati biometrici, che sono ampiamente utilizzati da CIA, FBI e NSA. Movimenti in questa direzione sono regolamentati anche in ambito europeo. Dunque, le accuse alla Cina sono da considerare irragionevoli. Human Right Watch “ha sempre fatto dichiarazioni false sui diritti umani in Cina e non c’è bisogno di perdere tempo su ciò” – ha detto Lu Kang, portavoce del Ministero degli esteri. Peraltro, è noto che HRW sia sempre stata in linea con l’agenda di politica estera degli Stati Uniti (non è un caso che nell’organizzazione abbiano lavorato ex consiglieri politici del governo Usa e persino un membro della CIA).
Altro esempio, ancora più forzato e falsato, lo prendiamo in prestito dal libro di Maria Morigi, di prossima pubblicazione in Italia. Nel 2016 alcune importanti fonti di informazione denunciavano senza mezzi termini la distruzione della più importante università buddista, Larung Gar, che si trova nella regione tibetana di Kham, (prefettura tibetana di Garzê). Scrive la Morigi: “sono circolate voci sullo smantellamento con le ruspe del campus universitario, quando invece si trattava di interventi motivati da ragioni igienico sanitarie per il sovraffollamento, o di messa in sicurezza dal costante pericolo di incendi”. Se la prima news è un esempio di forzatura, in questo caso siamo di fronte a una vera e propria fake news.
Andiamo ora a parlare di una news edificante, ma non commentata nei nostri media. Le autorità tibetane hanno promosso nuove azioni per far conoscere la regolamentazione dei crescenti meccanismi di apertura di questa storica regione cinese, nell’ambito di un processo che coinvolge la Repubblica popolare da decenni. Il Tibet, sempre più aperto e interconnesso, con ritmi di sviluppo economico straordinari, ma anche di avanzamento sociale e culturale (come abbiamo spiegato in alcuni interventi nel corso degli ultimi due anni), ha organizzato nel 2017 una serie di eventi per far conoscere ai locali la nuova legge nazionale sulla presenza delle Ong straniere. La prima organizzazione a registrarsi in Tibet è stata una Ong tedesca, dedita alla medicina tibetana, a cui se ne sono aggiunte molte altre, che sono state riconosciute ufficialmente per il contributo dato allo sviluppo locale. In generale, questi sforzi delle autorità locali a far conoscere le nuove regolamentazioni ha un duplice vantaggio: i residenti possono garantire una sorta di controllo sociale sulle attività delle Ong straniere, mentre quest’ultime possono evitare di incorrere in attività illegali, relative a questioni politiche, religiose e ideologiche, essendoci oggi un quadro normativo più chiaro e definito.
Gli esempi brevemente riportati riguardano regioni autonome di confine particolarmente soggette a interferenze esterne - avvenute frequentemente non solo nella Cina contemporanea, ma anche nella Cina moderna e antica. Si tratta di regioni colpite da attenti terroristici e attività sovversive, di grande estensione geografica e ricche di risorse energetiche.
Le stridenti contraddizioni statunitensi
Questi esempi mettono ancora una volta in evidenza l’uso strumentale ed ipocrita della questione dei diritti umani, messo in opera in modo particolarmente intensivo proprio dalle organizzazioni di un paese che, tuttavia, presenta contraddizioni stridenti. La prima riguarda la situazione, sempre più deteriorata, dei diritti umani negli Usa (vedi il rapporto annuale rilasciato dall’ufficio dell’informazione del Consiglio di Stato cinese). Il loro porsi come paladini dei diritti umani è discreditato e negato dalle manifestazioni di fenomeni sociali regressivi che lì si registrano: i crimini con armi da fuoco, comprese le sparatorie di massa, hanno raggiunto quasi i 60 mila casi nel 2016 (la sparatoria di Orlando di giugno 2016 è considerato il più sanguinoso della storia delle mass shooting negli Usa); per non parlare del più alto tasso di incarcerazione al mondo (secondo solo alle Seychelles), dei numerosi casi di discriminazioni e crimini razziali, del peggioramento delle condizioni dei soggetti sociali più vulnerabili, del divario crescente tra vari gruppi di reddito, delle migliaia di uccisioni di civili negli interventi arei in Siria, Iraq, Yemen, Pakistan e Somalia. Insomma, retorica contro realtà, così come il rifiuto del governo degli Stati Uniti di firmare molte Convenzioni e risoluzioni sui diritti umani in ambito Onu.
La seconda contraddizione emerge dall’ultimo rapporto sulla sicurezza della Casa Bianca, che ripete la propria visione conflittuale ed iper-competitiva delle relazioni internazionali. Nel rapporto si legge, ancora una volta, che Cina, Russia, Iran e DPKR sarebbero le principali minacce per gli Usa e il mondo. I primi due paesi, in particolare, sarebbero gli attori statali che “sfidano il potere, l'influenza e gli interessi americani tentando di erodere la sicurezza e la prosperità statunitensi”. E via dicendo con le azioni destabilizzatrici… A un osservatore di politica internazionale onesto sembrerebbe che gli Usa descrivano sé stessi, riferendosi però ad altri. In questo documento sembra non esserci spazio per il dialogo e quindi per la democrazia fra le nazioni, soprattutto se i “paladini” statunitensi si esprimono in questo modo: “proteggere la patria, il popolo americano e il suo modo di vivere, promuovere la prosperità statunitense, preservare la pace attraverso la forza e avanzare l'influenza Usa”. Qui c’è un grave deficit culturale, di civiltà.
In questo quadro competitivo, contraddittorio e alquanto paradossale vanno recuperate e lette criticamente le news sulle regioni confinarie della Repubblica popolare e le legittime e lungimiranti misure volte a garantire l’unità del paese e la sicurezza della propria sovranità territoriale. Nell’interesse di tutti i membri delle Nazioni Unite… almeno quelli che hanno recentemente rigettato l’inqualificabile decisione Usa di spostare la capitale di Israele a Gerusalemme.
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