SCENA DELL’ARTE
La fotografia di Antonino Siragusa
di Diego Siragusa
Mi sono convinto, dopo molti anni di frequentazione assidua,
che l’opera fotografica di Antonino Siragusa si connota per “dichiarazioni
d’amore”. Dopo il primo volume dedicato al mondo del jazz e ai suoi musicisti,
dal meno noto fino alle leggende universalmente riconosciute, ora è venuto il
momento del mondo dell’arte ovvero l’incontro con la pittura, la scultura e le
rappresentazioni estemporanee delle correnti artistiche contemporanee,
avanguardie comprese. Non si intende con questo dire che l’occhio fotografico
di Siragusa non catturi gli altri aspetti dell’esistenza o si dimostri ad essa
estraneo, si intende dire che vi sono delle predilezioni, delle vocazioni da
cui il nostro autore si dimostra particolarmente attratto. Come un rabdomante,
Antonino Siragusa afferra le occasioni, le cerca e, come un solitario
scopritore di tesori si “impossessa” di immagini uniche e, forse, irripetibili.
Così è avvenuto col Jazz e così è avvenuto con l’arte contemporanea in
occasioni fortunate che egli ha saputo non perdere, come nel caso della
rappresentazione “fisica” dell’opera “Guernica” di Picasso messa in scena con
delle donne figuranti che portano sul proprio corpo pitturato i segni del
cubismo picassiano e gli elementi distintivi dell’opera. Immagini che riempiono
di stupore, non solo per l’intelligenza degli ideatori per aver saputo
rappresentare un’opera “vivente”, ma per il nostro fotografo che ha saputo
fissare con notevole efficacia la fase preparatoria delle figuranti e la fase
“espositiva” dell’opera come una forma di recitazione muta, una mimesi.
Nel caso di Mitoraj assistiamo alla ricostruzione di un
paesaggio “con rovine”. Rovine di foggia greca: questo è lo stile delle opere
di Mitoraj disseminate ad Agrigento nella Valle dei Templi. Qui Siragusa le
fotografa, nella sua Sicilia che assume, ancora di più, le sembianze originarie
della Magna Grecia. I corpi dei guerrieri mutilati, le teste staccate dal
tronco e adagiate a terra rimandano alla bellezza classica, all’armonia e alla
perfezione della forma come sinonimi di virtù e verità.
Lo spirito geometrico che contraddistingue i grandi
protagonisti dell’arte contemporanea doveva attirare la curiosità del nostro
fotografo. Quale poteva essere l’artista che del rigore geometrico aveva fatto
la regola aurea della propria opera? Maurits Cornelis Escher. L’occasione per
render omaggio a questo grande artista è un viaggio in Olanda fino al “Museo
Escher” che si trova a L’Aia. Nei vari scatti osserviamo non solo la centralità
delle opere di Escher ma anche il “coinvolgimento” dei visitatori che
partecipano alle provocazioni tecniche dell’artista che li trascina nei propri
giochi illusionistici. L’occhio di Siragusa
presenta le opere di Escher da curiose angolazioni prospettiche:
attraverso le straordinarie lampade che arredano il museo, con le rifrazioni
degli specchi o attraverso vetrate opache che deformano il soggetto. I primi
piani dei visitatori diventano “illustrazioni” delle emozioni che essi provano
con silenzi densi di stupore o con prolungati incantamenti davanti alle
immagini visionarie di edifici, di animali in metamorfosi o ai giochi geometri
che si dipanano uguali e ripetitivi nello spazio di una parete.
L’aspetto curioso di questa nuova silloge di foto di Antonino
Siragusa è il pedinamento di altri artisti, alcuni localmente famosi e altri
meno, catturati nel momento di esecuzione dei loro lavori. Si tratta di opere
estemporanee durante esibizioni collettive o solitarie dove gli artisti sono
colti “a propria insaputa”. L’obiettivo fissa le bizzarrie, la pluralità delle
tecniche e lampi insoliti di creatività che presuppongono faticosi tirocinii e
improbi studi. In questa cattura di immagini centrate sull’arte non c’è una
regola. Antonino Siragusa “afferra” ciò che il caso gli concede, come nello
scatto che raffigura una coppia di sposi in mezzo ad alcune statue sullo sfondo
del mare assistito da nuvole provvidenziali, fotogeniche, formatesi come per
incanto a completare l’opera.
Non mancano le “installazioni” di artisti fedeli alle
avanguardie nell’atto di mostrare se stessi e le proprie confessioni
ideologiche o filosofiche, come la polemica citazione di Nietzsche nel contesto
di un’opera iconoclastica: “Le religioni sono come le lucciole, per brillare
hanno bisogno di buio”. Sorprendente lo scatto di un murale che si trova a
Pollara, nell’isola di Salina, raffigurante Massimo Troisi e Philippe Noiret,
proprio nel luogo dove furono girate molte scene del film “Il postino”, e al
quale ha dato la sua parte di figurante l’autore di questa prefazione.
Un omaggio generoso il nostro fotografo concede agli artisti
di strada, questi nomadi estrosi capaci di sorprenderci con le loro tecniche e
maniere che denotano una lunga assuefazione col disegno e col pennello. Si
tratti di un abile caricaturista, di un artigiano del cavalletto, di un pittore
sorpreso in Olanda nell’atto di interpretare una teoria di mulini, di una
disabile all’opera col pennello in bocca, di uno scultore del legno o della
terracotta, di un vagabondo artista clochard che campa coi suoi cartoncini
abilmente dipinti con paesaggi, chiese e piazze, sempre l’occhio del nostro
fotografo nobilita quella “arte povera”, antiaccademica, in attesa di un umile
riconoscimento della propria dignità. Veri atti d’amore, quindi, che ci dicono
quanto necessaria sia la “bellezza” e la sua contemplazione come contraltare al
mondo consumista, superficiale e distratto che consuma le fondamenta
dell’esistenza. Oggi sappiamo quanto Picasso fosse attratto da questa arte
“anonima”, quanto fosse curioso, girando le strade di Roma, di osservare i
“poveri artisti” e, a volte, rubasse qualcosa da loro che poi trasferiva sulle
sue tele.
Fedele al suo amore per il jazz, il nostro fotografo, durante
le sue peregrinazioni di rabdomante, ha dato lustro agli artisti di questa
nobile musica sullo sfondo di affreschi, quadri, murali, statue, quasi tentando
di far sentire allo spettatore note musicali di sottofondo che accompagnano
l’opera d’arte figurativa. Una gioia dell’occhio che si appaga di emozioni
inconsuete che solo chi conosce bene la grammatica e la sintassi della luce è
capace di dare. In fondo, se gli antichi greci chiamavano l’arte “tekné” una
ragione ci sarà!
PICASSO INTERPRETATO
SUL CORPO UMANO
Nessun commento:
Posta un commento