martedì 31 gennaio 2017

UCCIDETE GLI ARABI. NON SONO ESSERI UMANI



di Gideon Levy 
(Haaretz)


Per la maggioranza degli ebrei israeliani gli arabi non sono esseri umani come noi. Questa disumanizzazione consente che i soldati e i poliziotti abbiano il grilletto facile



west bank

Roma, 28 gennaio 2017, Nena News - 

I palestinesi e gli arabi israeliani sono un bersaglio facile. Lo sono nei territori occupati ed in Israele. Lo sono perché il loro sangue vale poco. Vale poco a Umm al-Hiran e vale poco al checkpoint di Tulkarem. Vale poco nei cantieri edili [molti palestinesi lavorano come muratori in Israele, ndtr] e vale poco ai posti di blocco.

Quando le persone uccise sono arabe, a nessuno importa. Quando un soldato viene ucciso in un incidente, è una notizia da prima pagina. Ma quando un palestinese viene ucciso mentre sta camminando verso casa sua, a nessuno importa. Nessuna delle persone uccise negli ultimi giorni sarebbe stata colpita a morte se non si fosse trattato di un palestinese o di un beduino. Ci sono dubbi sul fatto che ognuno di loro meritasse di morire. E’ stata una strage al fine di spostare l’attenzione da altre vicende, come è già successo in Israele e come è normale nei regimi poco trasparenti? Difficile dirlo. Ma si può con certezza dire: sono un facile bersaglio.

Lo sono stati mercoledì nel Negev. Ecco il sionismo del 2017 – la distruzione di una comunità di rifugiati beduini per costruire al suo posto una comunità ebraica. E’ la violenza che sta alla base del sionismo, nazionalista e razzista. Se si confronta questo caso con quello dell’avamposto di Amona (insediamento di coloni che doveva essere sgomberato in base ad una sentenza dell’Alta Corte israeliana, ndtr.) si ha la prova evidente dell’apartheid: negoziati e risarcimenti per gli ebrei, brutalità per gli arabi.

In nessuna situazione di espulsione di ebrei la polizia avrebbe sparato in quel modo. A Umm al-Hiran lo si può fare. E’ anche consentito ferire il capo della Lista Unita Ayman Odeh, perché la polizia è stata addestrata a pensare che i membri arabi della Knesset sono dei traditori. Questo è quanto hanno sentito dire dal loro ministro della pubblica sicurezza, Gilan Erdan (del partito di destra Likud, ndtr.).

Yakub Abu al-Kiyan, un insegnante, è stato colpito a morte nella sua macchina perché l’avrebbe lanciata di proposito contro un poliziotto. Immediatamente le autorità hanno diffuso le loro menzogne su di lui. Hanno detto che era legato allo Stato Islamico e che aveva quattro mogli. (Il deputato Ahmad Tibi [della Lista Unitaria, coalizione di partiti palestinesi di Israele, ndtr.] afferma che l’unica moglie di Abu al-Kiyan ha un dottorato di ricerca, e che suo fratello è un ispettore del Ministero dell’Educazione [i cui funzionari arabi sono selezionati in base alle informazioni dei servizi di sicurezza, ndtr.]).

Dopo questo, come si può credere alla polizia, che si è affrettata a dichiarare che lui stava deliberatamente lanciando l’auto contro un poliziotto? Almeno un testimone, Kobi Snitz, ha detto ad un sito web di aver visto il contrario. Prima la polizia ha sventagliato di proiettili l’auto di Abu al-Kinyan, e poi lui ha perso il controllo della vettura. Anche un video postato mercoledì solleva pesanti sospetti su quanto accaduto. Si ha l’impressione che gli spari siano stati precedenti all’investimento.

Ma molto altro nel corso della settimana scorsa ha preceduto gli avvenimenti di Umm al-Hiran. Nel campo profughi di Fara i soldati hanno ucciso un uomo che si era appena svegliato: 11 pallottole a bruciapelo di fronte a sua madre; i soldati affermano che stava cercando di aggredirli. Mohammed al-Salahi era figlio unico e viveva con la madre in un’unica stanza.

Nella città palestinese di Tuqu la polizia di frontiera ha ucciso un diciassettenne, Qusai al-Amour, che aveva lanciato pietre – ovvia vendetta. Poi hanno trascinato il ragazzo morente per terra come un sacco di patate. Mentre lo facevano, ha battuto la testa sulle pietre, mentre le telecamere filmavano la scena.

Il giorno dopo le telecamere hanno documentato anche l’uccisione di Nadal Mahadawi, di 44 anni, al checkpoint di Tulkarem. Una scena orribile. Lo si vede tranquillamente fermo in piedi quando i soldati sparano senza apparente ragione. Quando cerca di fuggire, in quella che sembra una corsa per salvarsi, loro lo uccidono.

Ma nulla di grave, il “terrorista” è stato ucciso. Così i media hanno descritto il fatto. Il modo in cui è stato trascinato il giovane ferito a Tuqu e l’esecuzione al checkpoint dovrebbero sconvolgere chiunque. Soprattutto dovrebbero sconvolgere tutti gli israeliani, perché chi ha fatto questo sono i loro figli, i loro soldati e i loro poliziotti. Ma le vittime erano palestinesi.

Un unico filo unisce Umm al-Hiran, Tuqu, Fara e Tulkarem – il filo della disumanizzazione che guida soldati e polizia. Inizia con le campagne di istigazione e finisce con le truppe dal grilletto facile. Le radici sono profonde; devono essere riconosciute. Per la maggioranza degli israeliani tutti gli arabi sono uguali e non sono esseri umani come noi. Loro non sono come noi. Loro non amano i propri figli o la propria vita come facciamo noi. Sono nati per uccidere. Non c’è nessun problema ad ucciderli. Sono tutti nemici, oggetti sospetti, terroristi, assassini – la loro vita e la loro morte valgono poco.

Quindi, uccideteli, perché non vi succederà niente. Uccideteli, perché è l’unico modo di trattarli.

(traduzione di Cristiana Cavagna – Zeitun.info)

Non la Nato, ma la sinistra è «obsoleta»




di Manlio Dinucci

da ilmanifesto.it
31 Gennaio 2017


Autorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato. Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine.

I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.

Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa. Il quadro è desolante. Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).

La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e la stabilità».

La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».

Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito». Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia.

L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno.

La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico. L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.

venerdì 27 gennaio 2017

CARO, DIEGO - UNA LETTERA DI RABBI JOSEPH


27/1/2017

Caro Diego,

Ho partecipato Mercoledì sera ad una strana festa da ballo, scintillante,   all'esterno di una casa affittata da Mike Pence.(*)

Venerdì scorso ho saltato il rito dello shofar (**), mentre Trump prestava giuramento, per esprimere  dolore e pena, ma anche come un segnale di sveglia, un grido di battaglia.

E poi ho sfilato con i capi di Jewish Voice for Peace a fianco di lavoratori organizzati, i dirigenti di Standing Rock, e quelli di Black Lives Matter.

Ieri sono stato incollato a Facebook per il rispetto dovuto a milioni di persone scesi in piazza.

Ora è il momento di mettersi al lavoro.

Dobbiamo fermare la conferma di David Friedman come ambasciatore degli Stati Uniti in Israele.




Sei pronto a unirti a me? Perché JVP in particolare, anche in modo univoco, deve sfidarlo.

David Friedman non ha alcuna esperienza diplomatica - egli, per la verità, è l'avvocato fallimentare di Trump. Ma condivide con Jared Kushner e con altri membri della cerchia ristretta di Trump, una visione incredibilmente estrema sulla questione Israele / Palestina.

Friedman ha negato l'esistenza dei rifugiati palestinesi, che sono riconosciuti dal diritto internazionale, ha chiamato "kapò" gli ebrei liberali per la loro misurata dedizione tesa a cambiare le politiche israeliane, ha difeso l'annessione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, e ha approvano l'indagine discriminatoria degli immigrati musulmani che chiedono di entrare negli Stati Uniti.

E non è solo un sostenitore degli insediamenti illegali per soli Ebrei nella West Bank - è il presidente del consiglio di "American Friends of Beit El", uno dei più antichi e più violenti insediamenti in Cisgiordania.

David Friedman è un attivista viscerale a favore dell'apartheid permanente e dell'occupazione.

La sua nomina farebbe diventare più vicini tutti questi disastri politici :

  • Spostare l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme - infatti, ha già dichiarato la sua decisione di vivere a Gerusalemme personalmente.
  • Annettere Ma'ale Adumim o addirittura tutta la West Bank. Ieri anche il NY Times ha descritto Friedman come in "stretto rapporto politico con i rivali di destra di Netanyahu." (Sì, è  possibile che superi a destra Netanyahu )
  • Approfondire l'aiuto reciproco tra gli Stati Uniti e i governi israeliani sui progetti di sorveglianza (si pensi ai registri) e della militarizzazione delle frontiere (i muri).
Non siamo riusciti a trovare una sola sua affermazione che dimostri anche un minimo rispetto per i palestinesi o per i loro diritti umani.

Ho sperimentato tanto la forza, l'amore, la gentilezza e la creatività in questo fine settimana - e li ho visti infinitamente di più riflessi nelle immagini e nelle storie di persone di tutto il mondo. E l'unico modo in cui posso immaginare di sentire tutto questo, ancora una volta, è quello di conquistare un cambiamento concreto.

Fermare Friedman, in difesa della fondamentale uguaglianza di tutte le persone, è la cosa più adeguata che possiamo fare oggi, in qualità di membri di JVP. 


(clicca il collegamento qui sotto e aderisci alla raccolta 
di firme contro David Friedman)

 Click here and help us get going.

Andiamo avanti,

Rabbi Joseph Berman
Government Affairs Manager


(*) Vicepresidente degli USA.
(**) Lo shofar (שופר) è un piccolo corno di montone utilizzato come strumento musicale. Viene utilizzato durante alcune funzioni religiose ebraiche ed in particolar modo durante Rosh haShana e Yom Kippur.


LA CONFERENZA DI AMIRA HASS A TORINO






di Diego Siragusa

27/1/2017


Ieri sera a Torino, nell'aula magna della Cavallerizza Reale, incontro con la giornalista israeliana Amira Hass per una conferenza su "LA PALESTINA DOPO TRUMP". L'incontro è stato organizzato dal gruppo "Ebrei contro l'Occupazione", Pax Christi e l'associazione "Ponti non muri". L'aula era stracolma, circa 600 persone e molti rimasti in piedi. Un segno di forza e di speranza.


Amira Hass ha esordito con una notizia che non conoscevo. E' venuta a Vercelli per testimoniare in un processo contro due attivisti vercellesi: Alessandro Jacassi, 44 anni, e Sergio Caobianco, 30. I due attivisti sono stati rinviati a giudizio per  il reato di istigazione all'odio razziale, denunciati dalla comunità ebraica di Vercelli per uno striscione appeso sui cancelli della loro sinagoga durante il massacro israeliano a Gaza nel 2014.  M i loro difensori, Gianluca Vitale e Laura Martinelli, spiegano: "Essere contro la politica di Israele non significa essere antisemiti. Tant'è che vi sono movimenti di ebrei antisionisti che non possono certo definirsi antisemiti". Per questo la difesa ha presentato una lista di testi che si allarga a personalità influenti sui temi del Medio Oriente. Per la prossima udienza, il 24 maggio, sono attesi l'attore e scrittore Moni Ovadia, Giorgio Forti, dell'Accademia dei Lincei e membro della Rete ebrei contro l'occupazione, oltre a Norberto Julini di Pax Christi.


Qual è la linea difensiva dei due attivisti? 

"I bombardamenti su Gaza iniziarono l'8 luglio 2014 e i primi a morire furono quasi tutti bambini. Il 17 luglio i raid colpirono la spiaggia uccidendo quattro ragazzini (che giocavano a pallone). Ma in tutta l'operazione Margine protettivo furono uccise, anche con armi vietate dalal Convenzione di Ginevra, circa 2.300 persone, tra cui 300 donne e più di 500 bambini". Con questa ricostruzione, fatta al tribunale di Vercelli, i testimoni presenti in aula - Angelo Stefanini, ex rappresentante dell'Oms per i «territori occupati» in Palestina e responsabile della cooperazione italiana, e la giornalista Amira Hass, ebrea corrispondente a Ramallah del quotidiano "HAARETZ" - hanno voluto inquadrare il gesto dei due giovani attivisti che, la notte del 18 luglio di tre anni fa appesero sulla cancellata della sinagoga della città lo striscione "Stop bombing Gaza, Israele assassini, Free Palestine".

Gli imputati hanno rivolto le scuse alla Comunità ed espresso rammarico per la strumentalizzazione e l’incomprensione del gesto, spiegando che lo striscione era contro le politiche repressive di Israele e non un atto di antisemitismo. E avevano scelto la sinagoga per suscitare una presa di posizione della comunità.  Gli ebrei di Vercelli, invece, li hanno denunciati e si sono costituiti parte civile. 

Questo processo rivela l'estrema pericolosità del sionismo e degli ebrei sionisti. Processare due persone, che hanno espresso la loro collera per il massacro sionista contro i palestinesi di Gaza, significa annullare secoli di civiltà giuridica in difesa dei diritti soggettivi. Lo striscione appeso ai cancelli della sinagoga di Vercelli aveva lo scopo di "dire" agli ebrei sionisti che il loro silenzio era un segno di complicità verso il crimine che i sionisti israeliani stavano compiendo. Dov'è l'incitamento all'odio razziale? Forse, quando negli anni '60 e '70 manifestavamo contro l'aggressione americana al Vietnam, anche davanti ai consolati e alle ambasciate degli USA, eccitavamo l'odio contro il popolo americano? Questo reato aberrante è il frutto delllegge 25 giugno 1993, n. 205, chiamata anche "Legge Mancino", dal nome del suo estensore. Si tratta di una norma della Repubblica Italiana che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
La verità è che, dietro questa legge, la lobby sionista italiana ha lavorato per imbavagliare ogni critica a Israele e ai suoi crimini per consentirgli di concludere la pulizia etnica della Palestina col consenso della comunità internazionale e col dissenso di pochi. Correttamente, Amira Hass ha detto che nel tribunale di Vercelli c'è stato "uno scontro di culture". Quali? La cultura dei diritti umani universali e la cultura del suprematisno etnico religioso impersonato dal sionismo e dal suo braccio armato che si chiama Israele. 

Il resto della conferenza di Amira è stato dedicato alla giaculatoria, diventata ormai una barzelletta, dell'antisemitismo come mezzo per criminalizzare ogni critica agli ebrei sionisti. Che governi, partiti politici e pezzi della magistratura soggiacciano a questa minaccia deve essere motivo di allarme per tutti noi impegnati nella difesa di diritti umani fondamentali. 



Un esempio infame di mondo a testa in giù, come in un quadro di Hieronymus Bosch dove gli uccelli nuotano e i pesci volano. 
Come disse Leo Longanesi, "l'Italia è il paese del diritto e del rovescio". 

giovedì 26 gennaio 2017

Il regime turco chiude due televisioni sciite




Fonte: Il faro sul mondo - Redazione il 26 gennaio 2017

Il regime turco ha ordinato la chiusura di due televisioni sciite per una presunta “propaganda contro il governo”. L’On4TV e Kanal12 sono state chiuse grazie un codice in materia di attività di gruppi terroristici. Il governo non ha fornito alcuna prova a sostegno delle accuse contro le due stazioni televisive.

Queste misure repressive arrivano in un momento di crescente preoccupazione per la libertà di stampa in Turchia. Ankara ha introdotto lo stato di emergenza a seguito del fallito colpo di Stato nel mese di luglio 2016.

La Turchia ha arrestato centinaia di giornalisti di spicco a seguito del fallito colpo di Stato. Gli attivisti per i diritti umani e per la libertà di stampa hanno ripetutamente avvertito che lo stato di emergenza potrebbe essere utilizzato dal regime per un giro di vite contro gruppi o individui dell’opposizione.

Libano, arrestate cinque spie del Mossad




fonte: Il faro sul mondo - Redazione il 26 gennaio 2017 

Le forze di sicurezza libanesi hanno arrestato cinque persone per aver collaborato con l’agenzia di spionaggio israeliana Mossad. Gli arrestati hanno confessato di aver passato informazioni al servizio di intelligence di Tel Aviv tramite le ambasciate israeliane in Turchia, Giordania, Gran Bretagna e Nepal.

La Direzione della Sicurezza Generale ha arrestato due libanesi, nati rispettivamente nel 1977 e nel 1982, un profugo palestinese nato nel 1992, e due donne nepalesi nate nel 1991 e 1993, per il reato di spionaggio in favore di ambasciate del nemico israeliano all’estero.

Gli individui sono stati arrestati in seguito a un laborioso servizio di monitoraggio intensivo effettuato dalle forze di sicurezza libanesi, nell’ambito di operazioni volte a smantellare reti simili nel Paese dei Cedri. Le due spie del Nepal sono state impegnate anche nel reclutamento di altri lavoratori nepalesi in Libano.

Dopo il loro interrogatorio, gli arrestati sono stati deferiti al tribunale competente con il reato di spionaggio in favore di ambasciate del nemico israeliano all’estero. Le indagini degli inquirenti libanesi sono ancora in corso per perseguire possibili complici.

martedì 24 gennaio 2017

UN IGNOBILE ARTICOLO DEL SIONISTA BERNARD HENRY LEVY



di Bernard-Henri Lévy


Sono un indefettibile sostenitore della soluzione, in Medio Oriente, dei due Stati. E continuo a pensare che tale soluzione, per quanto debole, trascurata dagli uni e rifiutata dagli altri, sia l’unica che, a termine, consentirà a Israele di continuare ad essere lo Stato degli ebrei voluto dai suoi pionieri e al tempo stesso la democrazia esemplare di cui settant’anni di guerra aperta o larvata non hanno scalfito né lo spirito né le istituzioni. Sono stato tuttavia profondamente colpito dalla confusione che si è creata, a Natale, sul voto dell’ormai famosa Risoluzione 2334 che esige la «cessazione immediata» della «colonizzazione» nei territori palestinesi occupati. Innanzitutto c’è il luogo: l’assemblea dell’Onu che da decenni continua a condannare, demonizzare, ostracizzare Israele e che rappresenta uno degli ultimi luoghi al mondo dove si possa sperare, su questo problema come su altri, sia presa una posizione equilibrata o coraggiosa.
C’era lo spettacolo di quelle quindici mani incapaci di alzarsi, appena qualche giorno prima, per fermare il massacro ad Aleppo: che ora si manifestino di nuovo, per fare del piccolo Israele il Paese che più ostacola la pace in questo momento, che credano di poter ritrovare, fra gli applausi dei presenti, parte del loro onore perduto e di riconsolidare così, a discapito dello Stato ebraico, una comunità internazionale frantumata e spettrale è lamentevole e al tempo stesso agghiacciante. C’era il penoso testo della Risoluzione che — malgrado la frase che condanna «tutti gli atti di violenza contro i civili, fra cui gli atti terroristici» (questo «fra cui gli atti terroristici» lascia perplessi: ci si chiede quali possano essere gli altri «atti di violenza» messi quindi sullo stesso piano degli «atti terroristici») — faceva degli israeliani i responsabili principali, per non dire unici, del blocco del processo per la pace: e la testardaggine palestinese? L’ambiguo linguaggio del governo di Ramallah? Gli alberi di Natale su cui, in certi quartieri della Gerusalemme araba, sono state appese, come fossero ghirlande, foto di «martiri» morti «in combattimento», cioè nel tentativo di pugnalare civili israeliani? Nulla di tutto questo, per i redattori della Risoluzione come per coloro che l’hanno votata, poi celebrata, rappresentava un «ostacolo alla pace»; nulla è paragonabile alla perfidia della politica di Netanyahu che moltiplica le colonie.
C’era la questione delle colonie e il modo in cui, ancora una volta, è stata presentata. Che sia un errore continuare ininterrottamente con gli insediamenti in Cisgiordania, è evidente. E che all’interno della destra israeliana vi sia un numero sempre più grande di falchi che, con Benjamin Netanyahu in testa, sognano l’amplificarsi del processo e la creazione di una situazione definitiva, è probabile. Ma non è vero che siamo già arrivati a questo punto. Non è esatto presentare tali costruzioni come una proliferazione metodica e maligna, che produce metastasi nella futura Palestina e già in anticipo la smembra. La realtà, chiara agli occhi di chiunque faccia lo sforzo di analizzare le cose senza paraocchi e senza troppa passione, è che la concentrazione territoriale degli insendiamenti più popolosi genera una situazione che, malgrado il numero, non è radicalmente diversa da quella che prevaleva nel Sinai prima dell’accordo con l’Egitto del 1982 o nella Striscia di Gaza prima dello smantellamento deciso da Ariel Sharon nel 2004; la realtà è che tali costruzioni sono ancora abbastanza vicine alla Linea verde perché sia possibile, giunto il momento, procedere a scambi di territori e iniziare, altrove, per gli insediamenti più lontani e più isolati, evacuazioni dolorose (senza parlare dell’opzione secondo cui un certo numero di ebrei potrebbero vivere in terra palestinese così come un milione e mezzo di palestinesi vivono in Israele condividendone appieno la cittadinanza…).
Infine, per la prima volta da 40 anni, c’è stata l’astensione a sorpresa dell’ambasciatrice Samantha Power; poi, qualche giorno più tardi, il lungo discorso di accompagnamento del segretario di Stato John Kerry. Si può dire quel che si vuole. Ma vedere questa amministrazione che tante concessioni ha fatto all’Iran, tanto ha ceduto alla Russia, e ha inventato in Siria la dottrina della Linea rossa, che in fin dei conti di rosso ha solo il sangue dei siriani sacrificati sull’altare della rinuncia alla potenza e al diritto; vederla dunque riprendersi e quasi trasformarsi alzando la voce, in extremis, contro quella pecora nera su scala planetaria, spelacchiata e rognosa, che è il Primo ministro di Israele, è miserevole! Non riconosco più, nella posizione troppo facile in cui troppo comodamente si ritrova il fantasma di una autorità perduta, il giovane e sconosciuto senatore che incontrai a Boston, un giorno di luglio del 2004, quando mi decantava la duplice gloria, a suo avviso parallela, del movimento di liberazione del popolo nero e della nuova fuga d’Egitto che per gli ebrei è il sionismo. Sento fin troppo i segni premonitori di una umanità smembrata, dove si ripercuote come non mai lo sfasciamento di imperi e visioni del mondo; una umanità destinata all’infinito ripetersi di ingiustizie e carneficine, ma dove l’odio più antico diventerà, per tutti o quasi, religione.
Bernard-Henri Lévy, Corriere della Sera 17 gennaio 2017

La falsa accusa di Trump a Obama



di Manlio Dinucci

da il manifesto, 24 gennaio 2017

Di fronte all’accusa del neoeletto presidente Trump all’amministrazione Obama, perché avrebbe ottenuto poco o niente dagli alleati in cambio della «difesa» che gli Stati uniti assicurano loro, è sceso in campo il New York Times.  Ha pubblicato il 16 gennaio una documentazione, basata su dati ufficiali, per dimostrare quanto abbia fatto l’amministrazione Obama per «difendere gli interessi Usa all’estero». 

Sono stati stipulati con oltre 30 paesi trattati che «contribuiscono a portare stabilità nelle regioni economicamente e politicamente più importanti per gli Stati uniti». A tal fine gli Usa hanno permanentemente dislocati oltremare più di 210 mila militari, soprattutto in zone di «conflitto attivo». 

In Europa mantengono circa 80 mila militari, più la Sesta Flotta di stanza in Italia, per «difendere gli alleati Nato» e quale «deterrente contro la Russia». In cambio hanno ottenuto l’impegno degli alleati Nato di «difendere gli Stati uniti» e la possibilità di mantenere proprie basi militari vicine a Russia, Medioriente e Africa, il cui costo è coperto per il 34% dagli alleati. Ciò permette agli Usa di avere la Ue quale maggiore partner commerciale. 

In Medioriente, gli Stati uniti mantengono 28 mila militari nelle monarchie del Golfo, più la Quinta Flotta di stanza nel Bahrain, per «difendere il libero flusso di petrolio e gas e, allo stesso tempo, gli alleati contro l’Iran». In cambio hanno ottenuto l’accesso al 34% delle esportazioni mondiali di petrolio e al 16% di quelle di gas naturale, e la possibilità di mantenere proprie basi militari contro l’Iran, il cui costo è coperto per il 60% dalle monarchie del Golfo. 

In Asia orientale, gli Stati uniti mantengono oltre 28 mila militari nella Corea del Sud e 45 mila in Giappone, più la Settima Flotta di stanza a Yokosuka, per «contrastare l’influenza della Cina e sostenere gli alleati contro la Corea del Nord» In cambio hanno ottenuto la possibilità di mantenere proprie «basi militari vicino alla Cina e alla Corea del Nord», il cui costo è coperto dagli alleati nella misura del 40% in Corea del Sud e del 75% in Giappone. Ciò permette agli Usa di avere il Giappone e la Corea del Sud quali importanti partner commerciali.  

In Asia sud-orientale, gli Stati uniti mantengono un numero variabile di militari, nell’ordine di diverse migliaia, per sostenere Thailandia e Filippine unitamente all’Australia nel Pacifico. In tale quadro rientrano «le esercitazioni militari per la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale», da cui passa il 30% del commercio marittimo mondiale. In cambio gli Stati uniti hanno ottenuto la possibilità di «proteggere» un commercio marittimo del valore di oltre 5 mila miliardi di dollari annui. Allo stesso tempo hanno ottenuto «una regione più amica degli Stati uniti e più in grado di unirsi contro la Cina». 

Viene dimenticato in questo elenco il fatto che il Pentagono, durante l’amministrazione Obama, ha cominciato a schierare contro la Cina, a bordo di navi da guerra, il sistema Aegis analogo a quello già schierato in Europa contro la Russia, in grado di lanciare non solo missili anti-missile, ma anche missili da crociera armabili con testate nucleari. 

È dunque infondata la critica di Trump a Obama, il quale ha dimostrato con i fatti ciò che afferma nel suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione: «L’America è la più forte nazione sulla Terra. Spendiamo per il militare più di quanto spendono le successive otto nazioni combinate. Le nostre truppe costituiscono la migliore forza combattente nella storia del mondo». 

Questa è l’eredità lasciata dal presidente «buono». Che cosa farà ora quello «cattivo»?

Netanyahu: “La caduta di Aleppo grave pericolo per Israele”

Raid israeliano a Mezzeh. (Fonte foto: media della difesa nazionale siriana)



di Stefano Mauro

21 gen 2017

Nena News

Lo stato ebraico teme che Damasco possa restaurare l’autorità al periodo precedente la guerra civile siriana. Tel Aviv, in particolare, guarda con preoccupazione al Golan dove i gruppi “ribelli” da lei precedentemente sostenuti potrebbero essere sostituiti dalle truppe di al-Asad, dai Pasdaran iraniani e da Hezbollah

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Roma, 21 gennaio 2017, Nena News – É passato poco più di un mese dalla caduta di Aleppo e dal ritiro delle milizie “ribelli” legate al Fronte Jabhat Fatah Al Sham (ex Al Nusra) ed alla galassia dei gruppi salafiti ad esso affiliati. Rimane, però, ancora vivo il dibattito in Israele riguardo la sconfitta dell’”opposizione jihadista moderata” al regime di Bashar Al Assad.

Israele nutre forti preoccupazioni dopo Aleppo, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza dei suoi confini con la Siria lungo le alture occupate del Golan. La preoccupazione ed il dibattito è talmente vivo da aver fatto affermare al premier Netanyahu che “la caduta di Aleppo mette in serio pericolo la sicurezza di Israele”. Un recente studio del Centro Dayan per gli studi sul Medio Oriente e l’Africa afferma: “quello che è avvenuto ad Aleppo pone delle solide basi circa la possibilità del regime per restaurare l’autorità di Assad al periodo precedente la guerra civile”. L’analisi, pubblicata sul quotidiano Yediot Ahronot, prosegue indicando le prossime tappe e prevede la rapida disfatta di tutti quei gruppi nella zona di Deraa, precedentemente sostenuti da Tel Aviv per supporto logistico, militare e infermieristico, che “sono destinati ad essere sconfitti”. “Senza nessuna ingerenza o intervento esterno” – afferma lo studio – questi gruppi saranno sostituiti nel territorio del Golan dalle truppe lealiste siriane, dai Pasdaran iraniani e da Hezbollah”.

Gli stessi apparati militari israeliani hanno più volte dichiarato il rischio di un riavvicinamento delle truppe di Hezbollah lungo la linea di confine tra le Alture del Golan e le Fattorie di Shebaa (territori occupati illegalmente, secondo numerose risoluzioni dell’ONU, da Tel Aviv e richiesti rispettivamente dalla Siria e dal Libano, ndr), visto che l’area del “Monte Hermon forma una zona strategica predominante su tutto il territorio sottostante in maniera da mettere in difficoltà il sistema difensivo israeliano”. Gli stessi media filo-governativi “rimpiangono” apertamente i sei anni di guerra civile in Siria “perché dal 2011 ad oggi hanno tenuto lontano dai propri confini le truppe sciite iraniane e libanesi” creando una situazione di totale sicurezza lungo la zona di confine.

Proprio da questo timore nascono le reazioni e le provocazione da parte di Tzahal (esercito israeliano) con i recenti bombardamenti dell’aeroporto di Mazzeh, vicino a Damasco, avvenuto la settimana ed il mese scorso. L’obiettivo dichiarato, secondo il quotidiano Ray al Youm, è stato ufficialmente la distruzione di missili Fateh-1 che hanno una gittata di oltre 300 km e possono portare testate da circa 400 kg di esplosivo. Secondo l’editorialista, Abdel Bari Atwan, sono comunque due i punti di analisi e di interesse da analizzare circa i fatti di Mazzeh.

“Quello che colpisce l’opinione pubblica internazionale non è il fatto che Tel Aviv abbia colpito per l’ennesima volta la Siria – afferma il giornalista – ma che piuttosto nessuno stato o capitale araba (riferendosi agli stati del Golfo o alla Giordania, ndr) e occidentale abbia protestato contro l’aggressione ad uno stato sovrano come la Siria, colpita da anni di guerra”.

La seconda considerazione è, invece, legata al fatto che l’esercito israeliano ha colpito Mazzeh con un bombardamento missilistico e non, come ha sempre fatto in passato, con i suoi caccia militari. Questa scelta deriverebbe dal recente abbattimento di un velivolo israeliano, mai confermato da Tel Aviv, e dalla paura circa l’efficacia e la capacità di risposta missilistica delle truppe siriane e delle milizie di Hezbollah con le nuove batterie S-300 di produzione russa.

I bombardamenti israeliani mirano di sicuro a verificare anche il livello di capacità difensiva lungo il confine siro-libanese, come dimostrato dall’abbattimento di alcuni droni spia israeliani in questi ultimi giorni (fonte Al Manar). Provocazioni che potrebbero portare ad una risposta o ad una escalation preoccupante, anche grazie al clima favorevole, a livello internazionale, con l’insediamento del neo-presidente americano Donald Trump ed al suo incondizionato appoggio politico nei confronti del governo di Netanyahu.

Dei primi segni di risposta potrebbero essere già stati lanciati. Diverse fonti interne riportano la notizia di “sospette esplosioni” il 16 gennaio nella base aerea di Hatzor nel sud di Israele. Il governo ha, però, stranamente sigillato tutto il perimetro alla stampa, dichiarando che “le detonazioni sono state causate da un problema tecnico che ha fatto esplodere un deposito di carburante”. Al contrario, secondo alcuni media indipendenti, le esplosioni sarebbero state una risposta di Hezbollah per l’attacco a Mazzeh, magari con i nuovi missili Fateh -1 che Israele pensava di aver distrutto. 

lunedì 23 gennaio 2017

CONTINUA LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA



di Jonathan Cook

16 gennaio 2017

Dimenticate l'atteggiamento vuoto dei leader mondiali ieri a Parigi. Questa foto ci dice ciò che il "conflitto" israelo-palestinese è veramente.
Immagina per un secondo che il bambino - quanti anni ha, otto, nove? - è tuo figlio, che cerca di aggiustare la sua kefiah, perché continua a cadere sugli occhi e lui non può vedere nulla. Immagina tuo figlio piccolo, circondato da "soldati" israeliani mascherati, o quello che sembra più simile a una milizia ebraica di un esercito. Immaginate che il ragazzo, probabilmente sarà trascinato nel retro di un furgone militare e interrogato senza i suoi genitori o senza la presenza di un avvocato, o anche sapere dove si trova. Che potrebbe finire picchiato e torturato, come i gruppi per i diritti umani hanno regolarmente documentato.
Forse non si può immaginare nulla di tutto ciò perché, un genitore responsabile che vive in Europa o negli Stati Uniti, non avrebbe mai permesso al proprio figlio di lanciare pietre.
Allora dovete sapere di più sulla storia che sta dietro questa immagine.
Questa foto è stata scattata a Kfar Qaddum, il mese scorso. Il ragazzo e i suoi amici non sono lì per adescare i soldati israeliani o indulgere a un attacco di antisemitismo. Gli ebrei dal violento e illegale insediamento di Kedumim si sono impossessati dei loro terreni agricoli. L'espansione di Kedumim è stata ulteriormente utilizzata per giustificare la chiusura della strada, da parte dell'esercito, per entrare e uscire da Qaddum. Il villaggio è stato soffocato alla gola. In breve, questi abitanti del villaggio stanno subendo una pulizia etnica.
I genitori che vivono in tali circostanze non hanno il privilegio di nascondere ai loro figli ciò che sta accadendo. Tutti nel villaggio conoscono la loro comunità e il suo modo di vivere che si sta spegnendo. Israele è determinato a consentire che i coloni ebrei della porta accanto possano rubare la loro terra. Israele vuole che questi abitanti del villaggio si uniscano al resto della popolazione palestinese che vive di aiuti in una delle città ghettizzate nel Bantustan della West Bank.
Anche i ragazzini capiscono la posta in gioco. E a differenza di tuo figlio, questo sa che, se non resiste, perderà tutto ciò che ha di più caro.

(Traduz. di D. Siragusa)

Oscar López Rivera è libero, ma la lotta per l'indipendenza di Porto Rico continua!




di Socorro Gomes, 
Presidenta del Consiglio Mondiale della Pace



22 Gennaio 2017 21:25

Traduzione di Marx21.it


La lotta per la libertà ottiene una nuova vittoria con la grazia concessa al portoricano Oscar López Rivera, che ha scontato 36 anni di prigione negli Stati Uniti per avere difeso l'indipendenza di Porto Rico, ancora sotto controllo statunitense. Il Consiglio Mondiale della Pace si aggiunge a tutti coloro che sono solidali con la lotta anticoloniale e il diritto all'autodeterminazione, con i diritti politici di attivisti come Rivera.

L'indipendentista portoricano fu arrestato nel 1981 ed è stato, fino alla concessione della grazia da parte del presidente statunitense uscente, Barack Obama, uno dei prigionieri politici che, nel mondo, abbiano scontato una pena così lunga.

Rivera aveva partecipato ad azioni di disobbedienza civile e militanza pacifica, aderendo in seguito alle Forze Armate di Liberazione Nazionale (FALN), il che gli valse l'accusa di “cospirazione a scopo di sedizione”. Catturato dal FBI nel 1981, Rivera fu condannato a 55 anni di carcere.

Nel corso degli anni, il Comitato per la Decolonizzazione delle Nazioni Unite ha approvato risoluzioni che riconoscono il diritto dei portoricani all'autodeterminazione, ma il governo statunitense ha rafforzato il suo ruolo coloniale.

I movimenti per la pace di tutto il mondo salutano la liberazione di Rivera e si mobilitano non solo per celebrare questa importante vittoria, ma per appoggiare e solidarizzare con il popolo portoricano nella sua lotta per l'indipendenza!

Salutiamo i valorosi indipendentisti portoricani e tutte le lotte anticoloniali ancora in corso in pieno XXI secolo!

Viva Oscar López Rivera e la liberazione di Porto Rico!


domenica 22 gennaio 2017

Dov’era Meryl Streep quando Obama andava a caccia degli informatori e bombardava le feste di matrimonio ?




di DANIELLE RYAN

rt.com

Bene, prima di rischiare qualche malinteso, premetto una cosa: io adoro Meryl Streep.  potete dire tutto quello che volete, ma “Il diavolo veste Prada” è un classico e non dovrò mai pentirmi di averlo detto ed il discorso anti-Trump  della Streep nella notte di Domenica ai Golden Globes è stata un’altra performance sublime,  recitata con emozione e con grazia. Un vero e proprio strappalacrime per tutti quelli che si sentono preoccupati per l’inizio della prossima epoca-Trump.

Eppure … si sentiva un cattivo odore. In effetti qualcosa puzzava:  era vera ipocrisia allo stato puro. Perché la Streep, purtroppo, viene da una razza di ipocriti della Hollywood- Liberal.  Parlo di quelli che, quando l’inquilino della Casa Bianca è un democratico, che si è appena fatto un giretto con Beyoncè, non sentono che il loro cuore sanguina, anzi, diventano improvvisamente introvabili.

Nel suo discorso appassionato,  la Streep ha invitato colleghi e fan ad unirsi a lei nel fare una donazione al Comitato per la protezione dei giornalisti: “Abbiamo bisogno di una stampa che abbia dei valori,  che sappia chiedere al potere di rendere conto del proprio comportamento, che sappia metterli all’angolo ogni volta che si fa un sopruso. E’  per questo motivo che i padri fondatori della nostra Costituzione sancirono  la libertà di stampa”.

Ha ragione, naturalmente. Ma ci si chiede se la Streep sia stata almeno a conoscenza, per esempio, che l’amministrazione Obama  ha  perseguito più informatori – whistleblowers  di quanti ne abbiano mai perseguito tutti i suoi predecessori messi insieme?  E’ una  tradizione questa, che  Trump probabilmente continuerà, ma è piuttosto strano che un un pensiero del genere, finora, non le fosse ancora passato per la mente.

Dove stava la Streep – quella che all’improvviso si preoccupa del fatto che ” violenza chiama violenza” – quando Obama aiutava l’ Arabia Saudita a radere al suolo lo Yemen,  bombardando funerali e feste di matrimonio? O quando  con un “intervento umanitario” in Libia ha prodotto tanti di quei disastri da trasformare la Libia in uno stato fallito, permettendo  ai terroristi dell’ ISIS di crescere e prosperare? O quando il grande unificatore si guadagnava il soprannome di ‘The Drone King- Il Re dei Droni’ , quando decideva di espandere il programma dei droni americani, fino a portare 10 volte più attacchi  di quanti ne faceva George W. Bush?  Un ‘altra tradizione  che anche Trump probabilmente sarà ben felice di mantenere.

Dove era la  Streep quando il Premio Nobel per la Pace bombardava non uno, due o tre – ma  sette paesi diversi? Per correttezza nei confronti della Streep, probabilmente non se ne poteva accorgere perché neanche la “stampa  che difende i valori” sembrava essersene accorta. La cosa divertente anche su questo punto è che –  dal momento che la Streep e i suoi amici sembrano preoccupati per l’apparente disprezzo che manifesta Trump verso gli stranieri: Tutti i paesi bombardati dall’amministrazione Obama erano paesi musulmani.

E dove stava la Streep quando l’amministrazione Obama, in Siria,  negoziava a nome dei ” ribelli moderati” legati a Al Qaeda? Certo dove stavano tutti quelli ipocriti seduti in sala, quando Obama nel corso del solo 2016   ha fatto buttare  26.171 bombe?

Oh, è vero, stavano tutti  festeggiando a casa sua!

Attenzione, queste persone hanno tutto il diritto di fare tutte le rimostranze contro Trump  che vogliono fare- e devono farle. E’  legittimo fare rimostranze. Ma  non si meritano né gli applausi, né l’adulazione dalle masse, se mettono la testa sotto la sabbia per non vedere e non sentire,  quello che meritano è che qualcuno le scuota e le svegli.

La loro indignazione morale è vuota e senza senso, a meno che non siano – loro stessi – sempre coerenti.

Per quanto riguarda  Trump,  è facile leggere tutto il suo livore nella risposta al discorso della Streep, quando l’ha  definita un’attrice “sopravvalutata” – cosa che difficilmente ha ferito i sentimenti dell’attrice, quanto le parole della Streep hanno ferito lui. Per lui, il Presidente-eletto, questo potrebbe essere il momento giusto per rendersi conto che, durante i prossimi quattro anni, riuscirà a fare molto poco, se continuerà a rispondere ad ogni insulto, anche poco importante scrivendo ogni volta su  Twitter.

Il fatto è che, molte delle offese subite –  contro cui la Streep e tutta l’elite di Hollywood stanno combattendo – non sono specificamente dirette contro Trump, non sono nuove offese. Sono oltraggi che la gente sta già subendo. Obama, l’eroe di Hollywood,  è quello che si è messo di traverso con i giornalisti e gli informatori ed è quello che ha bombardato degli innocenti, se questo è il percorso migliore che ha trovato, ha reso ancora più facile il compito di Trump.   E’ ora di svegliarsi.

Sei grande, una grande attrice Meryl.  Molti dicono che tu sia la migliore. Potresti far finta di pensare solo a questo, e lasciar perdere tutto il resto.



Danielle Ryan è una freelance irlandese, scrittrice, giornalista e analista dei media.  Ha vissuto e viaggiato in  USA, Germania, Russia e Ungheria. Ha pubblicato su  RT, The Nation, Rethinking Russia, The BRICS Post, New Eastern Outlook, Global Independent Analytics e altri, oltre a lavorare su numerosi altri progetti di copywriting e editing. Website www.danielleryan.net.



Fonte: https://www.rt.com

Link : https://www.rt.com/op-edge/373182-meryl-streep-obama-bombing-golden-globes/