martedì 28 febbraio 2017

Confermato l’incontro “Gaza: Rompiamo l’assedio” con Ann Wright nella Sala della Piccola Protomoteca



Fassina e il Campidoglio non possono sospendere la solidarietà con la Palestina #IsraeliApartheidWeek




Per domani 28 febbraio, il movimento BDS Roma ha organizzato alle ore 17 nella Sala della Piccola Protomoteca in Campidoglio l’incontro “Gaza: Rompiamo l’Assedio”, con la partecipazione di Ann Wright, già colonnella nell’esercito e membro del corpo diplomatico degli Stati Uniti, per testimoniare le condizioni della popolazione di Gaza che vive sotto assedio da 10 anni.

Ciò è bastato per provocare l’astiosa reazione dell’ambasciata israeliana e di una parte della Comunità Ebraica italiana e romana, che sono riuscite a far sospendere l’incontro lanciando accuse infamanti e calunniose nei confronti del movimento, addirittura di sostegno al terrorismo.

Siamo fortemente indignati per le accuse infondate che ci sono state mosse, soprattutto quelle di razzismo e antisemitismo, visto che il nostro è un movimento inclusivo e tra le nostre file ci sono molti ebrei, ma siamo ancora più delusi dall’accondiscendenza di una certa Sinistra Italiana.

È ormai prassi che in Italia, e non solo, si facciano sistematicamente tacere le voci critiche nei confronti di Israele e questo sta creando un gravissimo vulnus alla libertà di espressione e di parola.

Poiché non intendiamo rinunciare all'opportunità di ascoltare Ann Wright su quanto succede a Gaza, confermiamo l’appuntamento alla Sala della Piccola Protomoteca, e invitiamo a parteciparvi tutti coloro che sostengono i diritti umani, i consiglieri che non ci conoscono e la stampa.

BDS Roma


Perché i nazisionisti non vogliono che l'ex diplomatica USA Ann Wright parli dei diritti dei palestinesi in Campidoglio?

(Ann Wright)


Comunicato stampa
28/2/82017

Perché non si vuole che l'ex diplomatica USA Ann Wright parli dei diritti dei palestinesi in Campidoglio?

Il 28 febbraio prende avvio a Roma la 13esima edizione della Settimana internazionale contro l'Apartheid israeliana, iniziativa che si svolge in centinaia di città in tutto il mondo


per sensibilizzare il pubblico sulle politiche israeliane di occupazione e di colonialismo di insediamento.
La settimana comincia con un'iniziativa di rilievo, “Gaza: Rompiamo l'Assedio”, che vede la partecipazione di Ann Wright, già colonnella nell'esercito degli Stati Uniti e diplomatica presso varie ambasciate statunitensi (biografia
di seguito). L'incontro avrà luogo nella Sala della Piccola Protomoteca in Piazza del Campidoglio, martedì 28 febbraio, ore 17. Porterà un saluto il consigliere comunale di SI Stefano Fassina.

L'iniziativa del 28 febbraio rappresenta una straordinaria occasione per sentire le testimonianze di Ann Wright, che è stata a Gaza sette volte e ha partecipato alla Gaza Freedom Flotilla nel 2010 quando nove attivisti furono uccisi dalle forze militari israeliane, e per conoscere le condizioni della popolazione che a Gaza vive sotto assedio da dieci anni ed è soggetta a ripetuti attacchi militari.
Anche questa volta, come da copione, da ieri girano appelli da parte della feccia sionista di estrema destra (si veda il presente collegamento al bollettino del fascismo ebraico)


rivolti alla Sindaca Virginia Raggi e alla Giunta capitolina affinché siano negati gli spazi per l'iniziativa. Ormai da anni,


e non solo in Italia, l'ambasciata israeliana tenta di bloccare le iniziative volte a far conoscere la realtà del popolo palestinese e le azioni della società civile internazionale a sostegno dei suoi diritti. Non avendo argomenti per giustificare decenni di occupazione militare e le numerose e
ampiamente documentate violazioni dei diritti del popolo palestinese, ricorre a false e calunniose accuse come quella dell'antisemitismo.

Confidiamo che la Sindaca e la giunta, che sono invitate a partecipare, vogliano garantire gli spazi per un dibattito aperto e in difesa della libertà di espressione.

BDS Roma

Biografia di Ann Wright: È stata colonnella nell'esercito statunitense, dove ha prestato servizio per 29 anni. Successivamente ha fatto parte del corpo diplomatico per 16 anni nelle ambasciate statunitensi di Nicaragua, Grenada, Somalia, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Sierra Leone, Micronesia, Afghanistan e Mongolia. Si è dimessa dal governo degli Stati Uniti nel 2003 alla vigilia della guerra contro l'Iraq, in segno di protesta contro l'aggressione militare.
Da allora è impegnata contro la guerra e l'ingiustizia. È co-autrice del libro “Dissent: Voices of Conscience” sui funzionari governativi che si sono dimessi per protestare contro le politiche di guerra del proprio governo.
Ann Wright è stata sette volte a Gaza e ha partecipato più volte alle flottiglie per Gaza, tra cui la Gaza Freedom Flotilla nel 2010, quando nove attivisti sono stati uccisi dalle forze militari israeliane, e la Barca delle Donne nel 2016.

Organizza BDS Roma: Sezione romana del movimento nonviolento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni nei confronti di Israele lanciato nel 2005 da 170 organizzazioni della società civile palestinese. Il movimento BDS si ispira all'analogo movimento contro l'apartheid in Sudafrica. Il movimento BDS fonda la sua lotta sul rispetto del diritto internazionale e sulla tutela dei diritti umani universali. È contro ogni forma di discriminazione razziale, politica, religiosa e di genere e rifiuta l'antisemitismo, il razzismo, l'islamofobia e ogni ideologia fondata su presunte supremazie etniche o razziali. Sostengono il movimento BDS personaggi come l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, il premio Pulitzer Alice Walker, Roger Waters dei Pink Floyd, il compositore Brian Eno, tra gli altri. In Italia aderiscono al BDS numerose associazioni tra cui il sindacato FIOM CGIL, Pax Christ, l'Ong Un ponte per…, e la Rete Ebrei contro l'occupazione.

Il presidente socialista della Moldavia condanna le ingerenze degli ambasciatori di USA e Romania

(Igor Dodon)



Ufficio Stampa del Partito Comunista di Ucraina 



Traduzione dal russo di Mauro Gemma

27 Febbraio 2017 

Il presidente della Moldova, il socialista Igor' Dodon, ha fornito un esempio illuminante di come deve comportarsi il capo di uno stato indipendente nei confronti di coloro che dall'estero si permettono di impartire lezioni all'indirizzo delle autorità di un altro Stato.

Così, il 26 febbraio, l'edizione online moldava di Indipendent ha pubblicato la lettera di Igor' Dodon, in cui si chiede agli ambasciatori di Stati Uniti e Romania di non interferire nell'attività del presidente della Moldova.

Secondo la pubblicazione, i precedenti ambasciatori americano e romeno a Kishinev avevano indirizzato una lettera al presidente della repubblica, deplorando il fatto che I. Dodon aveva impedito la partecipazione di un contingente di soldati moldavi alle esercitazioni militari che, dal 20 febbraio al 1 marzo, si svolgono nel centro di formazione di Smardan al confine tra la Romania e la Moldavia. All'esercitazione prendono parte forze multinazionali di USA, Bulgaria, Macedonia, Montenegro, Romania, Serbia, Slovenia e Ucraina.

I due ambasciatori hanno accusato I. Dodon di “comportamento ostile”, avvertendo che a causa del suo gesto “l'esercito moldavo non sarà in grado di ricevere una formazione adeguata”, dal momento che “tale formazione è per l'80% basata sulla partecipazione a queste esercitazioni”.

Dodon ha risposto, ricordando ai due ambasciatori che “la Repubblica di Moldova è uno stato indipendente e sovrano” e che “l'apparato presidenziale non accetta commenti e prediche sulla sua attività e sulle decisioni che adotta”.

“Vi prego di non insegnare al presidente come debba comportarsi, soprattutto per quanto riguarda i suoi poteri costituzionali e anche in merito alle altre sue prerogative. Non penso che, nei paesi che voi rappresentate, qualche ambasciatore possa commentare le azioni del presidente, in particolare in merito all'utilizzo delle forze armate. Sarei curioso di osservare la reazione della Casa Bianca o di Palazzo Cotroceni (la sede della presidenza a Bucarest) di fronte a commenti rilasciati, ad esempio, dagli ambasciatori della Repubblica di Moldova a Washington o a Bucarest”, - ha dichiarato I.Dodon.

Purtroppo, nell'Ucraina di oggi la situazione è esattamente l'opposto. Come più volte ha dichiarato il leader del Partito Comunista di Ucraina, Petro Simonenko, dietro le continue rituali assicurazioni dei nazionalisti di tutte le risme e le dichiarazioni dei vertici oligarchici sul ripristino della sovranità, il nostro paese è stato trasformato dal regime al potere in un protettorato, che funge da marionetta obbediente degli Stati Uniti d'America, dell'Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale, della NATO.

COLPO DI SONNO NUCLEARE



di Manlio Dinucci

il manifesto, 28 febbraio 2015

Il governo Gentiloni ha capovolto il voto del governo Renzi all’Onu, votando a favore dell'avvio di negoziati per il disarmo nucleare! La sensazionale notizia si è rapidamente diffusa, portando alcuni disarmisti a gioire per il risultato ottenuto. Per avere chiarimenti in proposito, il senatore Manlio Di Stefano (Movimento 5 Stelle) e altri hanno presentato una interrogazione, a cui il governo ha dato risposta scritta nel bollettino della Commissione Esteri. Essa chiarisce come sono andate le cose. 

Il 27 ottobre 2016, durante il governo Renzi, l’Italia (accodandosi agli Stati uniti) ha votato «No», nella prima commissione dell'Assemblea generale, alla risoluzione che proponeva di avviare nel 2017 negoziati per un Trattato internazionale volto a vietare le armi nucleari, risoluzione approvata in commissione a grande maggioranza. 

Successivamente, il 23 dicembre 2016 durante il governo Gentiloni, quando la stessa risoluzione è stata votata all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia ha invece votato «Sì» insieme alla maggioranza. 

Capovolgimento della posizione italiana? No, solo un errore tecnico. «Tale errore – spiega il governo nella risposta scritta – sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte». In altre parole il rappresentante italiano, probabilmente per un colpo di sonno, ha premuto il pulsante sbagliato. «L'erronea indicazione di voto favorevole – spiega sempre il governo – è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in prima commissione». 

Il governo Gentiloni, come quello Renzi, ritiene che «la convocazione, nel 2017, di una Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari, costituisca un elemento fortemente divisivo che rischia di compromettere i nostri sforzi a favore del disarmo nucleare». Insieme ai paesi militarmente non-nucleari dell'Alleanza Atlantica, «l'Italia è tradizionalmente fautrice di un approccio progressivo al disarmo, che riafferma la centralità del Trattato di non-proliferazione». 

Il governo ribadisce in tal modo la centralità del Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, ratificato nel 1975, in base al quale l’Italia «si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». Mentre in realtà viola il Trattato, poiché mantiene sul proprio territorio, ad Aviano e Ghedi-Torre, almeno 70 bombe nucleari Usa B-61, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani. 

Quale sia l’«approccio progressivo al disarmo nucleare» perseguito dall’Italia lo dimostra il fatto che tra circa due anni essa riceverà dagli Usa, per rimpiazzare quelle attuali, le nuove bombe nucleari B61-12, sganciabili a distanza e con capacità penetranti anti-bunker. Armi nucleari da first strike dirette soprattutto contro la Russia, che, rendendo più probabile il lancio di un attacco nucleare dal nostro paese, lo esporranno ancora di più al pericolo di rappresaglia nucleare. 

Il modo concreto attraverso cui possiamo contribuire all’eliminazione delle armi nucleari, che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, è chiedere che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e chieda di conseguenza agli Stati uniti di rimuovere immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinunciare a installarvi le nuove bombe B61-12. Battaglia politica fondamentale se anche l’opposizione non fosse stata contagiata dal colpo di sonno,  che assopisce perfino l’istinto di sopravvivenza. 

lunedì 27 febbraio 2017

LA GIORNALISTA ISRAELIANA AMIRA HASS TESTIMONE A VERCELLI IN UN PROCESSO CONTRO DUE ATTIVISTI ANTISIONISTI


(Il video è provvisto di traduzione simultanea)


di Diego Siragusa

La giornalista israeliana Amira Hass è stata ascoltata , nelle scorse settimane, come testimone in un processo che si svolge presso il tribunale di Vercelli a carico di due attivisti antisionisti. Quale crimine hanno commesso i due attivisti. Mentre gli israeliani, nel 2014, massacravano 2.500 civili disarmati a Gaza, i due attivisti hanno steso uno striscione sul cancello della sinagoga di Vercelli. Quali erano le parole offensive incriminate? 


STOP BOMBING GAZA
ISRAELE ASSASSINI
FREE PALESTINE




Gli ebrei sionisti di Vercelli hanno denunciato i due attivisti per "istigazione all'odio razziale" in base a quella orrenda legge che si chiama "LEGGE MANCINO". Tra i testimoni vi sono alcuni amici ebrei che lottano contro il sionismo a fianco del popolo palestinese. Oltre ad Amira Hass, testimonieranno: Moni Ovadia, il prof. Giorgio Forti, Carlo Tagliacozzo e un mio amico di Pax Christi. 
Amira ha spiegato in tribunale che questo non è uno scontro di civiltà, questo lo dice la destra fondamentalista, Amira Hass, invece, parla di due culture che confliggono: quella della negazione e dell'occultamento della verità nei confronti del potere, presenti in tutte le società occidentali, e l'altra cultura, quella della conoscenza critica e della messa in discussione delle decisioni e delle scelte del potere. Cosa diavolo c'entra lo scontro di civiltà!!!

















domenica 26 febbraio 2017

I GIUDICI ISRAELIANI CONSENTONO LE PUNIZIONI COLLETTIVE: I PALESTINESI VITTIME DUE VOLTE


La casa della famiglia al-Qunbar a Gerusalemme (Foto: Ma'an News)


24 feb 2017


La Corte Suprema israeliana autorizza la distruzione della casa di Fadi Ahmad al-Qunbar, responsabile di un attacco. Si legalizza la punizione collettiva


della redazione

Roma, 24 febbraio 2017, Nena News – Ieri la Corte Suprema israeliana ha rigettato il ricorso di una famiglia di Gerusalemme contro la demolizione della propria casa. L’abitazione, nel quartiere di Jabal al-Mukabbir, è di proprietà della famiglia di Fadi Ahmad al-Qunbar, giovane palestinese ed ex prigioniero politico ucciso dalle forze militari israeliani a gennaio dopo aver investito con l’automobile un gruppo di soldati, uccidendone quattro in una colonia.

Sebbene la famiglia abbia sempre negato di essere stata a conoscenza dei piani del figlio, poco dopo l’uccisione si è vista consegnare un ordine di demolizione, pratica usuale che le autorità di Tel Aviv considerano un deterrente agli attacchi. Così non è: la demolizione di case come forma punitiva collettiva non è solo una pratica vietata dal diritto internazionale ma si è anche dimostrata inefficace. Anche esponenti di governo e esercito hanno in passato chiesto la sospensione della misura perché l’unico effetto che produce è un incremento ulteriore delle tensioni e della rabbia interna alla comunità palestinese per una radicata discriminazione.

Ieri, però, la Corte Suprema ha dato ragione al governo affermando, nella sentenza che conferma la demolizione, che l’ordine è “basato su prove concrete, è chiaro che la famiglia conosceva le intenzioni del figlio di compiere un attacco. Abbiamo raggiunto la decisione di permettere la distruzione della loro casa come punizione ragionevole”.

La famiglia al-Qunbar, come centinaia di altre famiglie di Gerusalemme, verrà così lasciata senza un tetto da una pratica che viola palesemente il diritto internazionale. E che oggi riceve il benestare della più alta corte israeliana, che legalizza nella pratica la misura punitiva. Il comune di Gerusalemme si spinge oltre e chiede la deportazione dei al-Qunbar a Gaza.

Ma a chiarire la situazione è il piano comunale recentemente approvato: un nuovo quartiere per coloni partirebbe proprio nel luogo dove si trova ora la casa dei al-Qunbar, ha fatto sapere la tv israeliana Channel 10. Sono 40 gli ordini di demolizione consegnati a famiglie del quartiere di Jabal al-Mukabbir il mese scorso, riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. 
Nena News

TENSIONE AL CONFINE TRA ISRAELE E IL LIBANO


(Missili di Hezbollah (Foto: The Daily Star/Mohammed Zaatari)


di Stefano Mauro

24 feb 2017 


Fonte: Nena News

La stampa israeliana mostra preoccupazione per l’aumento della capacità militare del movimento libanese dopo 6 anni di guerra in Siria e teme un conflitto se le provocazioni di Tel Aviv continueranno


Roma, 24 febbraio 2017, Nena News - Diventa sempre più alta la tensione lungo il confine tra Libano ed Israele. La stessa stampa di Tel Aviv, oltre ad alcuni esponenti politici e militari, continua ad evocare e parlare della prossima guerra, la terza, tra l’esercito sionista ed Hezbollah.

“Israele continua con la propria propaganda colonialista e di aggressione”, ha dichiarato in un recente discorso sulla situazione attuale il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. “Dopo l’investitura di Trump – continua Nasrallah – gli israeliani dimostrano che hanno bisogno del permesso americano per scatenare una nuova guerra contro il Libano”.

Come ha sempre fatto nei momenti di maggiore incertezza, il leader di Hezbollah ha lanciato un chiaro avvertimento allo Stato sionista, dopo le recenti violazioni e provocazioni di Tel Aviv. Un messaggio utilizzato anche per far capire che la resistenza libanese è pronta: “Il sostegno americano e quello arabo per una guerra contro il Libano non è stato mai tanto forte – ha continuato – visto che alcuni paesi arabi (Arabia Saudita e Qatar, ndr) sono pronti a pagare i costi di questa guerra”.

Quasi quotidianamente i media israeliani pubblicano articoli ed interviste relative ad un conflitto ormai molto vicino. Un rapporto molto dettagliato del quotidiano Haaretz, ad esempio, indica che il rischio di una possibile sconfitta israeliana rimane molto alto. Secondo l’opinione pubblica sionista Hezbollah costituisce il nemico numero uno, l’Iran sarebbe il numero due, mentre la resistenza palestinese sarebbe al terzo posto.

Haaretz afferma che l’arsenale di Hezbollah raggiunge oltre “130mila missili di nuova produzione iraniana e russa, con una gittata dai 40 ai 300 kilometri”: una potenza di fuoco in grado di colpire qualsiasi obiettivo in tutto lo Stato ebraico. Analisi sulla stessa lunghezza d’onda da parte del Centro Studi per la Sicurezza Israeliana che indica Hezbollah come una “minaccia seria e pericolosa” con i suoi droni, i suoi commandos, abituati a qualsiasi tipologia di combattimento dopo 6 anni di guerra in Siria, i suoi missili terra-aria che sono, per la prima volta, una concreta minaccia contro l’aviazione e la marina israeliana. Proprio per questo motivo le forze israeliane stanno continuando a costruire muri di protezione lungo il confine settentrionale o hanno avviato una serie di esercitazioni che coinvolgono la marina per il rischio di incursioni anche via mare.

Non sembrano, quindi, così inverosimili le parole di Nasrallah quando afferma che “Hezbollah è in grado di poter rispondere a qualsiasi attacco israeliano e di contrattaccare con qualsiasi mezzo” se verrà superata la “linea rossa di tolleranza nel conflitto”. Il segretario si riferisce anche a possibili obiettivi come le riserve di ammoniaca di Haifa o altri “target sensibili” nel caso in cui venissero attaccate nuovamente tutte le infrastrutture ed i civili libanesi, come avvenuto nel 2006.

Anche il presidente della repubblica, Michel Aoun, ha affermato, in una recente intervista sul canale LBC, che il suo paese “non tollererà più nessuna aggressione israeliana contro il territorio libanese” ed ha aggiunto che “Hezbollah e la Resistenza Libanese sono una risorsa complementare a quella dell’esercito libanese per la difesa dei confini nazionali”.

Nello specifico Aoun si riferiva alle polemiche relative alla lettera inviata da Tel Aviv all’ONU circa una violazione delle risoluzione 1701 da parte delle autorità libanesi proprio per il continuo riarmo delle milizie sciite. Come risposta ufficiale ad una “simile e infamante accusa” il presidente del Paese dei Cedri ha dichiarato in un comunicato che al contrario è “loSstato ebraico ad infrangere tutti i vincoli della risoluzione 1701 da oltre 10 anni, con continue ingerenze, attività di spionaggio, sconfinamenti oltre che la mancata restituzione di parte del territorio libanese (fattorie di Sheba’a, ndr)”.

In merito alla questione palestinese, infine, sia Nasrallah che Aoun concordano sul fatto che il processo di pace in Palestina sia definitivamente “seppellito” dopo l’incontro tra Trump e Netanyahu, visto che “Tel Aviv non si immagina più uno Stato palestinese indipendente, continua da decenni a colonizzare, distruggere case e terreni agricoli e non ha mai preso in considerazione il rientro dei rifugiati dai paesi limitrofi alla Palestina”.

Nasrallah, a conferma dell’ormai solida alleanza regionale tra sauditi e israeliani, afferma che “gli arabi hanno liquidato la questione palestinese e molti paesi del Golfo si affrettano a normalizzare le loro relazioni con l’entità sionista dimenticando le sofferenze del popolo”. Lo stesso Aoun ha irritato, pochi giorni fa, alcuni paesi della Lega Araba – succubi dell’egemonia saudita- dopo aver evocato “la protezione di Gerusalemme da parte dei paesi arabi e la necessità di sostenere la Resistenza palestinese contro il progetto sionista”.

Dichiarazioni e avvenimenti che fanno comprendere, purtroppo, quanto il Medio Oriente sia molto vicino a nuovi venti di guerra. 

venerdì 24 febbraio 2017

LA LETTERA DELLA RICERCATRICE TORINESE CHE HA BOICOTTATO L'UNIVERSITA' DI TEL AVIV




Riportiamo il testo scritto da una dottoressa di ricerca torinese in cui spiega le ragioni che recentemente l'hanno portata a rifiutare un lavoro di ricerca in collaborazione con l'Università israeliana di Tel Aviv:


24/02/2017

La necessità di scrivere queste righe sorge da un episodio, sicuramente non straordinario, che mi ha portata a confrontarmi con la natura politica delle scelte personali di chi lavora in ambito accademico. Mi sono chiesta come rendere pubblica una scelta personale che è, per l’appunto, estremamente politica nelle sue ragioni, sperando di renderne politici anche gli effetti. 

Per chi, come me, ha da poco concluso il dottorato in Italia, una delle poche opportunità di lavoro retribuito (si intende come attività di ricerca all'interno dell'università) è rappresentata dalla partecipazione a progetti finanziati da fondi europei/internazionali. Nello specifico, mi è stato proposto una collaborazione di ricerca all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020 – piattaforma di cui parleremo più avanti. Senza scendere eccessivamente nel dettaglio – non mi interessa farne una narrazione personalistica, ma vorrei sottolineare il carattere sistemico di questa esperienza – si sarebbe trattato di un lavoro nell'ambito della ricerca energetica/green/smart/quello-che-va-di-moda in collaborazione con, tra gli altri, l'università israeliana di Tel Aviv. 

Nello sgomento e incredulità delle persone che mi stavano proponendo come “persona giusta per il progetto”, che ritenevano si trattasse per me di un'opportunità imperdibile, ho rifiutato l'offerta perdendo di conseguenza il lavoro e – con ogni probabilità – qualsiasi velleità di carriera accademica in Italia. 

In Italia oggi, come nella maggior parte dell'Europa meridionale, le speranze di un ricercatore/ricercatrice di ottenere un lavoro stipendiato sono lontani miraggi. Di conseguenza, il docente di turno che avanza una proposta di questo tipo non è preparato all'idea di sentirsi rispondere di no. Il rifiuto è considerato un lusso, e forse mi azzardo a parallelismi inopportuni, ma l’idea che chi si sottrae sia spocchios@ e viziat@ non va molto lontano da certi commenti che abbiamo letto su vicende ben più drammatiche della mia.

A chi ha una qualche familiarità con la questione palestinese, sarà saltato all'occhio il particolare della collaborazione con un'università israeliana, che in effetti costituisce il motivo del mio rifiuto. Per farla breve, esiste dal 2004 un movimento internazionale (BDS) di boicottaggio su vari livelli delle istituzioni economiche, politiche e culturali israeliane. Secondo le linee guida di questa campagna internazionale (https://www.bdsitalia.org/index.php/campagne/bac), ed a ragion veduta, le istituzioni accademiche sono un punto chiave della struttura ideologica ed istituzionale del regime di oppressione, colonialismo ed apartheid di Israele contro la popolazione palestinese. Fin dalla sua fondazione, l’accademia israeliana ha legato il proprio destino a doppio filo con l’establishment politico-militare, e nonostante gli sforzi di una manciata di accademici interni, tale istituzione rimane profondamente impegnata a supportare e perpetuare la negazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. 

L'obiettivo principale di questa campagna di boicottaggio sarebbe l'isolamento dell'accademia israeliana con lo scopo di fare pressione sulle politiche dello stato stesso; questo isolamento risulta tanto più efficace quanto più va a colpire in profondità i legami di collaborazione con altre università, centri di ricerca e organismi internazionali. I legami di questo tipo - scambi di dati, ricerche e professori, conferenze e progetti condivisi – sono parte integrante della vita delle università e dei ricercatori in tutto il mondo: mantenere legami di questo tipo con Israele equivale una normalizzazione dello stato e dei suoi istituti di ricerca sullo scenario internazionale; significa dare riconoscimento a, e quindi non problematizzare, le strutture che sottendono alla produzione scientifica israeliana e le basi di esistenza dello stato di Israele.

Tornando al tipo di collaborazione di cui si sarebbe trattato, i progetti Horizon 2020 fanno parte di un ampio insieme di collaborazioni ufficiali tra Unione Europea e diversi partner internazionali, tra cui lo Stato di Israele (accordo siglato nel 2014 da Netanyahu e Barroso), in cui si rende possibile ai centri di ricerca israeliani di accedere ai fondi per innovazione e ricerca dell’Unione Europea stessa in partneriato con istituti europei. Ma ovviamente esistono anche accordi in cui i soldi sono messi da Israele, ed i “cervelli” dalle università nostrane. Israele ha siglato collaborazioni con le istituzioni europee sulla ricerca dal 1996. Nel periodo 2007-2013 Israele si è inserito in oltre 1500 progetti, tra cui progetti “European Research Council” (ERC) e fondi Marie-Skłodowska Curie. I fondi europei che sono andati direttamente nelle tasche israeliane sono attorno ai 780 millioni di euro. Lo stesso BDS definisce Horizon 2020 “Il più chiaro esempio di complicità accademica supportata dai governi”. Includendo Israele in questo massiccio progetto di ricerca accademica, nonostante le persistenti violazioni israeliane alla clausola sui diritti umani dell’Association Agreement tra Unione Europea ed Israele, il quadro giuridico di Horizon e di altri sistemi europei-israeliani è equivalente all’occultamento di una lunga lista di violazioni dei diritti umani che Israele e le sue università complici hanno commesso negli ultimi decenni. Con un budget di quasi 80 miliardi di euro totali, il programma Horizon 2020 è il primo programma europeo di ricerca ed innovazione, nonché uno dei più grandi al mondo.

In un panorama di così ampi obiettivi, interessi e denaro, ci si potrebbe domandare che valore possa avere il rifiuto individuale di un lavoro di ricerca, a tempo determinato e comunque precario – ovviamente già proposto ed accettato da qualcun'altro dei mille ricercatori in attesa di qualche briciola di finanziamento. I motivi che mi hanno spinto a questa scelta altro non sono se non la consapevolezza della mancanza di possibilità di agire che ci appartiene come generazione di accademici, forse anche come generazione tout court. I compromessi etici con cui funziona lo stato attuale della produzione di conoscenza e con cui ci siamo trovati a fare i conti sono in larga parte al di là della nostra possibilità di azione, chi detiene il potere di decidere con chi collaborare sta decisamente molto lontano dalle nostre sfere. La possibilità di non collaborare con uno stato di cose presente è per noi solo una possibilità di sottrazione e negazione, anche a costo della nostra cosiddetta carriera. 

Il boicottaggio come scelta politica a questo punto non è né il gesto eclatante di una rottura di accordi (perché non è in mio potere, anche se auspicabile), né la banale scelta allo scaffale del supermercato: sarebbe facile non accettare fondi e collaborazioni quando la disponibilità di alternative (il caleidoscopio di possibilità…) fosse effettivamente alla portata. 

Ho anche dovuto ragionare sulla natura del progetto stesso a cui sarei andata a collaborare, che aveva a che fare con le energie rinnovabili ed i consumi energetici. Come non pensare ad una perfetta installazione di sistemi fotovoltaici nelle colonie illegali, isole autosufficienti ed ipertecnologizzate, mentre al di là dei muri la popolazione palestinese viene costretta a morire di sete? Per quanto la chiarezza del tema di cui mi sarei dovuta occupare abbia reso la decisione più netta, non credo che la storia sarebbe dovuta andare diversamente se si fosse trattato, che ne so, di biotecnologie, o anche di studi filologici. La legittimazione di un sistema di apartheid e violenza non ha dipartimento. 

La produzione di conoscenza è situata politicamente, storicamente e geograficamente, non credo di doverlo spiegare io. E se siamo stati schiacciati nel ruolo di un esercito di riserva della ricerca che sopravvive a briciole, in un panorama di fondi che i nostri superiori elemosinano da organizzazioni internazionali distanti e sulle quali loro stessi non hanno potere di azione, ci sosteniamo emotivamente ostentando la dignità di uno status di “produttori di conoscenza”. Nella scelta che sto raccontando vorrei trovare un tipo di dignità politica differente. Per costruire una ricerca al di là dell’asfissiante stato di cose non credo abbia senso chiedere più spazio, più soldi, più contratti dentro questa accedemia, che non ha prospettive – parlo dell’Italia, ma credo abbia paralleli altrove - se non il collasso tra i feudalismi baronali, che praticamente ovunque si sono rivelati incapaci di mantenere il proprio potere in questo nuovo sistema di finanziamenti macrodirezionati.

Fonte: Collettivo Universitario Autonomo Torino

I LEGAMI FERREI DI MATTEO RENZI CON LA DESTRA SIONISTA


(Jonathan Pacifici e Netanyhau)

I CONTI TORNANO!! IN QUESTO ARTICOLO TRATTO DA "IL FATTO QUOTIDIANO" SI FA IL NOME DI JONATHAN PACIFICI, EBREO SIONISTA, CHE FA PARTE DI UNA SOCIETA' CREATA DA MARCO CARRAI, AMICO INTIMO DI RENZI, SUO CONSIGLIERE E FINANZIATORE. PER CARRAI, RENZI HA VOLUTO LA POLTRONA AL VERTICE DELLA "INTELLIGENCE INFORMATICA". UN RUOLO DELICATISSIMO.
HA SCRITTO "il fatto quotidiano"
"Quell’estate calda in Lussemburgo. Torniamo quindi al giugno 2012. Renzi annuncia la sua candidatura alle primarie contro Pier Luigi Bersani. Due mesi dopo Carrai vola in Lussemburgo. È il primo agosto. Il Richelieu del premier crea una società, la Wadi Ventures management capital sarl, con poche migliaia di euro e un pugno di soci. C’è la Jonathan Pacifici & Partners Ltd, società israeliana del lobbista Jonathan Pacifici, magnate delle start up che dalla “silicon valley” di Tel Aviv stanno conquistando il mondo."
La nomina di Carrai è fallita e le ragioni sono spiegate in questo articolo di HUFFINGTONPOST che cita un articolo de "IL FATTO QUOTIDIANO":
Dietro lo stop alla controversa consulenza a Palazzo Chigi per Marco Carrai, l'amico e fedelissimo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ci sarebbero gli Stati Uniti e la Cia in particolare. Lo scrive oggi il Fatto Quotidiano.
Lo stop definitivo, dopo quelli già posti dal Colle, è arrivato su "vigoroso consiglio" dei servizi segreti italiani fatti oggetto di un "costante e crescente pressing" da parte dell'intelligence statunitense. Il premier ha deciso di assecondare Washington. Almeno per ora.
Dietro allo stop Usa ci sarebbero i rapporti stretti che Carrai avrebbe con Israele e con la sua intelligence in termini sia di amicizie che di rapporti economici. Come ricorda il Fatto - alcune delle società riconducibili a Carrai vedrebbero come soci anche uomini di affari ed "ex agenti dei servizi israeliani".
Contestate a Carri anche alcune amicizie pesanti. Da Michael Ledeen, "già finito in un'inchiesta dell'Fbi che ha individuato e smantellato una rete di agenti legata al Mossad intenta a sottrarre documenti riservati del Pentagono" a "l'attuale ambasciatore di Israele a Roma Noar Gilon" fino a al primo ministro Benjamin Netanyahu "al quale proprio Carrai ha organizzato la visita in Italia e l'incontro fiorentino con il premier Matteo Renzi". (http://www.huffingtonpost.it/2016/05/07/cia-marco-carrai_n_9861296.html)

mercoledì 22 febbraio 2017

CLAMOROSO!!! EX VICE DIRETTORE DELLA CIA: BISOGNA UCCIDERE DI NASCOSTO RUSSI E IRANIANI PER IL LORO RUOLO IN SIRIA




(GUARDA IL VIDEO)


La morte improvvisa dell'Ambasciatore russo Vitaly Churkin a New York è stata spiegata come un incidente a cui nessuno avrebbe preso parte. Una morte accidentale!!! Come si suol dire.
Continuo a chiedermi se è davvero una coincidenza che 4 ambasciatori russi siano morti nell'arco di 3 mesi!! Credo che occorra affinare lo sguardo e considerare una intervista a un uomo della CIA che non ha avuto la minima prudenza nel dichiarare le intenzioni del criminale servizio segreto americano. Quest'uomo che sembra un attivista di parrocchia, ben pettinato e con la faccia di bravo ragazzo, si chiama Mike Morell, ex Vice-Direttore della CIA. In questa intervista dice, a proposito dei russi e degli iraniani:  "Dobbiamo  fargli pagare il prezzo per spaventare Assad". L'intervistatore dice: "Uccidendo iraniani e russi?" Morell rispose:  "Sì, di nascosto". In pratica, bisogna farlo in modo che il mondo non lo sappia.

LE STRANE MORTI DEGLI AMBASCIATORI RUSSI


Il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin è morto a New York il 20 febbraio, un giorno prima del suo 65 ° compleanno. Secondo la versione preliminare, la causa della sua morte è un attacco di cuore. Churkin ha ricoperto la carica di ambasciatore dall'aprile 2006.
In precedenza è stato riferito che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha reso pubblica una dichiarazione in relazione alla morte di Vitaly Churkin, esprimendo profondo cordoglio alla famiglia del diplomatico, ma anche al governo e al popolo russo. Le condoglianze sono state espresse anche dal segretario generale delle Nazioni Unite Anthony Gutteresh, che ha definito Churkin un eccezionale diplomatico. L'Ucraina ha bloccato la dichiarazione del presidente del Consiglio di sicurezza, in quanto ora lo presiede.

di Patrizio Ricci

fonte: LPL NEWS 24


Churkin era il più anziano e  noto diplomatico russo insieme a ministro degli esteri Sergey Lavrov. Nato a Mosca nel 1952, si era  laureato presso l’MGIMO nel 1974, successivammente aveva cominciato la sua carriera decennale presso il Ministero degli affari esteri . Durante il suo incarico all’Onu, memorabili i suoi scontri con i membri del Consiglio di Sicurezza che hanno sempre contestato le sue decisioni di
porre il veto. Prima della  nomina, Churkin è stato ambasciatore presso il Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa (2003-2006), ambasciatore in Canada (1998-2003), ambasciatore in Belgio e ambasciatore  di collegamento alla NATO e UE (1994-1998) , inoltre è stato  vice ministro degli esteri e rappresentante speciale del Presidente della Federazione russa per i colloqui sulla ex Jugoslavia (1992-1994) e direttore del Dipartimento Informazione del Ministero degli affari esteri della Federazione russa (1990-1992).



La morte di Vitaly Churkin arriva dopo il recente assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia Andrei Karlov ,  seguita da altre misteriose morti di alti funzionari russi a Beirut e Mosca, insieme con la strana morte di uno degli autisti del presidente russo Putin in un incidente d’auto che sembrava costruito artificialmente .

Sei mesi fa, l’ ex-direttore della CIA (durante la presidenza Clinton)  Michael Morell  disse in una intervista ‘Russi e iraniani pagheranno un prezzo in Siria” tramite operazioni coperte“.  I russi che insieme all’esercito siriano, hanno liberato Aleppo e salvato la Siria dai tagliagole sono stati chiamati dagli Usa (che li hanno favoriti), “criminali”.

E’ sotto gli occhi di tutti che è in essere un brutto clima. Tanta ostilità, tanta voglia di fare la guerra a tutti i costi tramite provocazioni continue, certo non è giustificata soltanto dall’atteggiamento russo. Le manovre della Nato in Europa a ridosso della Russia sono più che eloquentii e gettano ulteriore benzina sul fuoco. E purtroppo il sovvenzionamento e i legami degli USA con il terrorismo islamico in funzione anti-russa ed anti-iraniana è cronaca di tutti giorni. 

Qualunque sarà il risultato degli accertamenti per quanto riguarda la morte Churkin, questi eventi, in combinazione con l’isteria russofobica dei media occidentali, aiutano la volontà pervicace di alcuni di creare un clima violento tale da provocare un violento scontro con la Russia, non importa il costo.

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Il console russo in Grecia, Andrei Malanin e' stato trovato morto nel suo appartamento nel centro di Atene per cause non ancora chiarite. La polizia per ora non avvalora l'ipotesi che sia stato commesso alcun reato. Il corpo del diplomatico, 55 anni, e' stato scoperto dai colleghi che nel pomeriggio di ieri sono andati nella sua abitazione perche' non lo avevano visto in ufficio e non rispondeva alle chiamate:  è stato trovato disteso sul pavimento nella sua stanza da letto, come ha detto a France Presse una fonte della polizia aggiungendo che non c'erano segni di forzatura alla porta. Le chiavi erano all'interno dell'appartamento. La polizia pensa che si sia trattato di morte per cause naturali. Sara' l'autopsia a fugare eventualmente i dubbi sulla vicenda.

NATO E UCRAINA: UN VOTO CHE PREPARA LA GUERRA





di Giulietto Chiesa


22/2/2017


"Nella mia qualità di Presidente io sono guidato dalla volontà del mio popolo e indirò un referendum sulla questione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato”. Con queste solenni parole Poroshenko annunciava, il 9 febbraio scorso, le intenzioni sue e dei suoi burattinai per “chiudere” il cerchio del colpo di stato che lo portò al potere a Kiev nel febbraio 2014.
La citazione testuale, nello strano silenzio di tutti i media occidentali, venne pubblicata dall’importante quotidiano tedesco Frankfurter allgemeine Zeitung. Ed era a corredo della notizia di un recente sondaggio d’opinione, secondo il quale il 54% degli ucraini sarebbe ora favorevole a un immediato ingresso nella Nato. Il condizionale è d’obbligo, ma la cifra potrebbe essere credibile se si tiene conto del martellamento propagandistico cui gli ucraini sono stati sottoposti negli ultimi tre anni da tutti i media del regime (cioè da tutti i media).
Il contenuto di un tale martellamento non è stato diverso, in sostanza, da quello subito dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi occidentali, e i suoi contenuti sono noti: la causa di tutti i mali dell’Ucraina, remoti, passati, presenti, è la Russia (inclusa l’Unione Sovietica); la Russia ha aggredito l’Ucraina e l’ha invasa; la Russia ha “annesso” con la forza la Crimea; la Russia ha preso il Donbass etc.
Se si tiene conto che l’ultimo sondaggio prima del colpo di stato a Kiev del 22 febbraio 2014,, aveva detto che i favorevoli a un ingresso dell’Ucraina nella Nato erano soltanto il 16%, si può misurare l’efficacia di un tale martellamento. Del resto identico a quello cui sono stati sottoposti i cittadini di Estonia, Lettonia, Lituania, già membri della Nato e convinti in maggioranza di una cosa del tutto assurda e priva di elementi di supporto, secondo cui la Russia di Putin sarebbe in procinto di invaderli.
Ma il punto non è questo. Il punto è che il governo fantoccio di Kiev ha già riavviato la guerra contro le due repubbliche di Donetsk e di Lugansk, in plateale violazione degli accordi di Minsk 1 e 2, bombardando i centri abitati, moltiplicando gli attentati terroristici. Ultimi in ordine di tempo l’assassinio di Mikhail Tolstykh (Givi) comandante del Battaglione Somalia dell’esercito della DNR, quello del capo di Stato Maggiore dell’esercito popolare di Lugansk, colonnello Oleg Anashenko, e quello del colonnello Arsen Pavlov, delle forze armate del Donetsk, dello scorso 16 ottobre. A queste provocazioni terroristiche si aggiungono quelle, anch’esso sanguinose, sventate dai servizi russi, contro la Crimea.
Il proposito è chiaro ed è perfino pubblicamente e ripetutamente proclamato. Come ha detto recentemente il ministro di Kiev per le “regioni temporaneamente occupate”, Jurij Grymciak, “noi riteniamo che nel prossimo futuro, un anno e mezzo all’incirca, noi ci riprenderemo i territori (del Donbass e della Crimea, ndr) quando il loro mantenimento si rivelerà troppo costoso per la Federazione Russa”.
Sbalordisce il silenzio dell’Europa di fronte a queste dichiarazioni, che rivelano le intenzioni di Kiev di non rispettare, né ora né mai, gli accordi siglati a Minsk, che prevedono un negoziato preliminare con le Repubbliche che si sono proclamate indipendenti, e che escludono la legittimità di una ripresa delle azioni belliche nei loro confronti. Un silenzio che non solo protegge l’aggressione, ma che indica la totale irresponsabilità verso le conseguenze. E’ evidente infatti che l’isteria artificialmente creata nei confronti della Russia, sommata a un voto di adesione alla Nato, creerebbe una miscela esplosiva non disinnescabile. Una offensiva ben preparata (e tacitamente approvata dalla Nato) contro la DNR e la LNR metterebbe la Russia nella situazione di dover decidere se lasciare massacrare i russi delle due repubbliche, oppure se reagire. Per non parlare della Crimea che, in quanto parte integrante della Federazione Russa, è impensabile possa essere abbandonata a un destino di tragedia.
A quel punto ogni azione del Cremlino, diversa dallo scenario preparato da Kiev e dagli europei occidentali verrebbe qualificata come “aggressione”. Ma non più soltanto come aggressione della Russia contro l’Ucraina (fake news ripetute anche dai nostri media italiani) come, bensì come aggressione della Russia contro la Nato. La “logica” di questa concatenazione di eventi dovrebbe balzare agli occhi a qualunque persona responsabile. Fidarsi dei nazisti di Kiev e dei generali Stranamore che guidano la Nato è cosa insensata. Fidarsi della CIA, che ha organizzato il colpo di stato nazista a Kiev e che sta organizzando l’impeachment contro Trump (il quale a sua volta, ha idee assai confuse sulla gestione di questa crisi, tant’è vero che ha fatto dichiarare al suo portavoce l’augurio che la Russia restituisca la Crimea ai nazisti), significa far precipitare la situazione. Come dice il già citato Grymciak, i tempi sono brevi: un anno e mezzo-due.
Infatti Petro Poroshenko, proprio il 9 febbraio, annunciava l’inizio di una esercitazione militare senza precedenti in territorio ucraino, con la partecipazione di ingenti forze della Nato, segnatamente di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Canada. Decine di convogli militari, e di treni speciali sono in movimento in tutta l’Europa centrale: direzione Ucraina. Solo un cieco potrebbe non connettere i punti di questo disegno.
L’America di Trump non mostra segni di rinsavimento rispetto a quella di Obama-Clinton. L’Unione Europea tiene bordone. C’è solo una cosa da fare: impedire l’ingresso dell’Ucraina nazista nella Nato. Sappiamo che il governo italiano non muoverà un dito in questa direzione. È’ dunque un compito del popolo e dei suoi rappresentanti ancora non avvelenati dalla manipolazione dei dementi che spingono verso la guerra. Gli ucraini possono votare quello che vogliono, assumendosene collettivamente la responsabilità. Ma l’Italia ha un voto dirimente per decidere se questa Ucraina può o non può entrare nella Nato.
Occorre fare tutto il possibile per costringere il governo a opporre il proprio diniego. Non si tratta qui di uscire dalla Nato, si tratta di impedire che la Nato ci trascini in una guerra insensata e mostruosa, dove molti di noi moriranno.
Poiché è di questo che stiamo parlando.

LE COLOMBE ARMATE DELL'EUROPA E IL RINNEGATO TSIPRAS




di Manlio Dinucci


Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali. 

A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero. 

Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi. 

Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia. 


Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner». 

Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa». 

L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva». 

I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca. 

Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. 

Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. 

A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».

(il manifesto, 21 febbraio 2017)