di Gennaro Carotenuto
È importante denunciare la metodologia della “character assassination” per i leader della sinistra latinoamericana. È una strategia in tre mosse: prima se ne mina la credibilità e l’autorevolezza. Quindi si insinua il dubbio della corruzione. Infine si trasformano in dittatori.
Giova innanzitutto ricordare che per lo più si tratti di militanti con un profondo radicamento nella vita dei lavoratori e nel movimento sindacale, come Lula da Silva o Evo Morales. O è gente che si è fatta anni di galera, durante le dittature degli anni Settanta, come Álvaro García Linera o Pepe Mujíca, dimostrando per tutta la vita profonda integrità morale. Non importa se condividiate o meno le loro idee, ma arrivano a incarichi di primo piano come militanti specchiati, con una vita intera di dedizione alla causa popolare. Sono anzi frutto di una fin troppo severa selezione, spesso incapace di aprirsi a nuove generazioni, come vediamo oggi.
Eppure, nonostante abbiano decenni di esperienza, fin dall’inizio sono rappresentati dai media mainstream come ignoranti, zotici, inadeguati, una calata di barbari nei salotti buoni. Il che, detto per intellettuali raffinatissimi come Álvaro o gente con dottorati in Economia a Lovanio come Rafael Correa, fa un po’ ridere. In altri casi vengono stigmatizzati con pregiudizi razzisti come per Evo o Chávez, o classisti, come per Maduro. O sessisti se donne, come per Cristina: frivola, eterodiretta, debole.
Una volta insinuatane l’inadeguatezza, lavorando ai fianchi l’opinione pubblica, disponendo di un sostanziale monopolio mediatico, in ogni paese, i grandi gruppi, Mercurio, Clarín, per tacere del ruolo di El País da Madrid, è possibile imporre una narrazione che li trasformi TUTTI in ladri, corrotti, narcos. Uno può essere, ma tutti? È una sistematica insinuazione, spesso senza neanche accuse formali, ma che passa per anni di bocca in bocca, anzi di prima pagina a titoli dei tigì. A volte, come nel caso di Lula, si arriva a processi farsa, come quello ordito dal giudice Moro che voleva fare il presidente, ma poi si è accordato con Bolsonaro per un ministero. 580 giorni di galera, una vita intera fatta a pezzi senza presunzione d’innocenza, allo scopo manifesto di impedirgli di vincere le elezioni.
A ciò si aggiunga il pregiudizio salvifico per il quale ogni leader della sinistra abbia circa 15 giorni di luna di miele per superare secoli di ritardi, disastri e ingiustizie storiche che, altrimenti, gli verranno per intero addossate. Del resto essendo dotato di superpoteri, non potrebbe giammai abbassarsi ad alcun accordo politico che puntelli maggioranze traballanti e fare scelte controverse per affrontare la severità dei problemi di economie nate come dipendenti. Scadute quel paio di settimane di venia l’estrema di quelli che lo avevano appoggiato si disporrà inesorabilmente all’opposizione, delusissima. Abajo y a la izquierda, auguri.
Dai e dai, infine il ribaltamento è pronto. Dal vescovo Lugo a Tabaré vengono tutti rappresentati come disposti a uccidere pur di non lasciare il potere. Certo che stare al potere non gli dispiace. Magari si considerano indispensabili. A torto in genere, ma forse anche a ragione: Bolsonaro non avrebbe mai battuto Lula se non lo avessero messo in galera per impedirgli di battere un candidato della destra tradizionale. Non è per assolvere sempre i dirigenti del campo popolare, ma la storia violenta delle classi dirigenti latinoamericane, del razzismo e dell’odio per le masse popolari, delle rivoluzioni colorate, del paramilitarismo pronto a insanguinare il campo di gioco, dovrebbe indurre a prudenza.
Eppure tutti vengono accusati di aver torto il braccio a un articolo della Costituzione, o aver pressato per ottenere una decisione favorevole o del venticello calunnioso dei brogli. Sono accuse del tutto politiche che hanno in genere risposte nell’ambito politico. Ma per le anime belle, in particolare de sinistra, il minimo sospetto o la denuncia più malintenzionata equivale a una condanna senza appello, come per Lula. Incapaci di ricondurre sospetti e denunce a una battaglia politica sudicia preferiscono che muoia Sansone con tutti i filistei. Meglio tornare a piangere il continente desaparecido e abbandonarlo al suo destino disgraziato e subalterno che vederlo sbagliare da sé. Sono così obnubilati dalla preoccupazione piccolo borghese da non cogliere il senso del golpe in Bolivia. Camacho, il capo civile, vedremo i militari, nell’entrare a Palazzo Quemado sostituisce la wiphala, la bandiera della pluralità culturale della Bolivia, con la Bibbia. La spada e la croce coloniali che tornano a dominare sulla Bolivia multiculturale.
In queste condizioni di subalternità culturale i media hanno gioco facile nello smettere di chiamarli presidenti per passare ad apostrofarli come dittatori e assassini. Chi scrive ha criticato la comparazione tra Piñera e Pinochet, ma comparare Evo Morales a Hugo Banzer (il Pinochet boliviano) è solo un gratuito insulto. È profondamente in malafede chi chiama Evo dittatore e invece, nel vedere i generali prendere il potere, nella barbarie degli arresti e delle persecuzioni dei dirigenti del MAS (Movimiento al socialismo), che ha appena eletto 67 deputati su 130 in parlamento, ed è indiscutibilmente il primo partito del paese, spergiura che questo non sia un golpe. Ulteriore ribaltamento della realtà.
Ma non c’è nulla da fare. La stampa monopolista, che spesso appoggiò entusiasta le dittature quelle vere, con le presunte “dittature castroqualcosa” da essa stessa inventata, è inflessibile, ossessiva per anni nel denunciarne malefatte e insipienze, in genere del tutto presunte ma ripetute goebblesianamente all’infinito. E così l’opinione pubblica, stanca del malgoverno di uno come Evo Morales, che anche nel 2019 ha visto il PIL crescere di appena il 4%, è finalmente pronta a reclamare il “cambiamento”. Che non è altro che restituire il potere a quelli che l’hanno avuto per 500 anni.
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